Mario Peliti. Editore, fotografo, gallerista

California crunchy tempura (foto Manuela De Leonardis)

Non è preparato da lui (con la goccia di gin che lo personalizza), ma anche il sushi di Taki, ristorante giapponese della capitale frequentato da Mario Peliti (Roma 1958) è all’altezza della situazione.

Iniziando dalla zuppa di miso e proseguendo con il sushi moriawase matsu (come da menu: 12 nighiri, 2 gunkan, 4 uramaki, 4 hosomaki), arriviamo al california crunchy tempura (caldo dentro e freddo fuori), il tutto innaffiato da un bicchiere di Sauvignon.

Commenta Peliti:

“Non è male. Il mio riso forse è meglio, però anche questo è buono. Ci vogliono 7 anni per imparare a cucinarlo. Io ho imparato da un simpatico libro della Mondadori. Ne ho diversi sull’argomento, ma quello è fatto meglio. So cucinare fino a 800 grammi di riso, però se passo da 800 a 900, evidentemente per via del clima che si crea dentro la pentola, non posso dire che il riso venga male ma neanche bene.”

Anche in cucina l’editore-fotografo-gallerista è estremamente rigoroso.

“Sì, sono un perfezionista. Tra una cosa fatta bene e una fatta male, preferisco quella fatta bene. Ci vuole esattamente lo stesso tempo per farla, sia in un modo o nell’altro. Quindi non è una questione di tempo, magari serve più attenzione. Poi, bisogna capitalizzare sugli errori. Se ci si accontenta non c’è miglioramento. Si deve avere il coraggio di ricominciare daccapo.”

Non si può dire che questa filosofia non riguardi personalmente il fondatore della casa editrice Peliti Associati (di cui è attualmente socio con la moglie Donatella) ideatore dell’European Publishers Award for Photography, direttore della galleria Minima a Roma dal 1995 al 2002 e, dal 2013, della galleria del Cembalo, insieme a Paola Stacchini Cavazza, nella maestosa cornice di Palazzo Borghese.

Tra le sue passioni (che si traducono spesso in ossessioni), oltre a fotografare la caccia alla volpe nella campagna romana che l’ha visto impegnato per 14 anni insieme all’amico-mentore Gianni Berengo Gardin, c’è quella di mappare Venezia. Il suo progetto è ambizioso: creare ciò che finora non è mai stato fatto, ovvero un archivio formalmente coerente di migliaia di immagini in bianco e nero (fotografa per 60 giorni l’anno) che raccontino i luoghi e le stratificazioni della città.

“E’ un lavoro meticoloso che mette insieme 3 etti di Basilico, 2 etti di Becher, 4 etti di Araki. Poi ci mettiamo un po’ di Samallahti e abbiamo fatto la fotografia che sto facendo, con una grande reverenza anche nei confronti di Marville.”

Dall’architettura alla fotografia…

“Quando ho finito il liceo avrei voluto fare l’accademia di belle arti, ma mio padre disse che avrebbe rispettato la mia decisione, ma che non mi avrebbe mantenuto. Quindi – essendo una persona di carattere – mi iscrissi ad architettura e lui mi mantenne per tutti gli anni dell’università. Questo è il motivo per cui ho fatto architettura. Forse sarei potuto diventare anche un bravo architetto – questo non lo so. La percezione dello spazio è qualcosa che mi ha sempre intrigato. Avendo, poi, i miei genitori una tipografia, lo sbocco naturale è stato fare il grafico. La progettazione grafica è pur sempre una progettazione. La fotografia? Era il 1979 e con un mio amico avevamo deciso di andare in vacanza in Finlandia. Dal momento che ero studente di architettura, chiesi a mio papà di regalarmi una reflex per andare a fotografare le architetture di Alvar Aalto. Forse era anche una scusa per farmi regalare la macchina fotografica, però c’era sicuramente anche una curiosità.”

Quindi la fotografia è associata anche al viaggio?

“No, sono un viaggiatore mancato. Mi piace tornare nei luoghi, non andarci per la prima volta. Dato che sono tendenzialmente “fifone”, l’idea della scoperta non mi appartiene.”

Ci sono città, in particolare, in cui ti piace tornare nel tempo: Parigi, Venezia?

“Il viaggio è Venezia, dove spero un giorno di trasferirmi. Gli altri viaggi sono legati alla professione. Non è una scelta, ma un dovere andare a Parigi, Arles, Londra. Vado molto più raramente a New York. Non molto tempo fa ho avuto un innamoramento per Mosca, dove mi sarebbe piaciuto rimanere più tempo. Comunque non sono mai viaggi di scoperta. Però, effettivamente, il camminare in città mi piace molto, sono un grande camminatore urbano.”

Diversamente da te, il tuo bisnonno Federico Peliti era fotografo-viaggiatore…

“A casa nostra si raccontava del bisnonno che era stato un importante imprenditore e un bravo fotografo. Mia mamma mi disse che dopo la guerra aveva buttato quasi tutte le sue lastre – vide dei pezzi di vetro e li buttò via – perché avevano avuto gli sfollati e dovevano liberare la casa. Alla strage compiuta da lei erano sopravvissute circa 300/400 lastre, conservate in una cassetta per la frutta abbandonata sotto la tettoia della rimessa della casa di Carignano. Ne parlai con Italo Zannier e poi, un giorno, costrinsi letteralmente Marina Miraglia a Torino per mostrarle quelle lastre, di cui successivamente mio zio fece una donazione all’Istituto Nazionale per la Grafica. Lì si è scoperto che sicuramente era un buon fotografo. Era partito dall’Italia intorno a metà degli anni ’60 dell’Ottocento ed era andato in India. Sicuramente era una persona che aveva delle curiosità ed era disposto a scommettere. Era diplomato in scultura all’accademia Albertina ma, figlio di secondo letto non aveva ereditato nulla, per cui fece e vinse un concorso come decoratore pasticcere per il Viceré dell’India. In quegli anni la pasticcera piemontese era tra le più apprezzate al mondo, è per questo che si erano rivolti a un italiano. Arrivato in India, però, il Viceré fu ammazzato e il mio bisnonno si ritrovò povero, per di più in India. Si mise in società con un inglese e aprirono una pasticceria a Simla, allora residenza estiva del governo britannico ed ebbero l’intuizione di creare nel locale dei separé, perché avevano capito che agli inglesi non piaceva mangiare davanti agli indiani. Questo gli dette un enorme successo, talmente grande che nel corso degli anni egli aprì un Grand Hotel, sempre a Simla, e aveva sedi a Calcutta e Rangoon. Fu il mio bisnonno a organizzare il ricevimento per l’incoronazione di Edoardo VII! C’è chi sostiene che il concetto di catering l’abbia inventato lui. In un racconto di Kipling, poi, si dice “andiamo a mangiare da Peliti”, come a Venezia si direbbe andiamo a mangiare all’Harry’s Bar.”

Qual è stato il primo libro che hai pubblicato?

“Credo che avessi 8 anni quando ho impaginato il mio primo libro, mentre il primo che ho pubblicato è stato in seconda liceo. Era un libro di disegni realizzati da me che raccontavano la mia vita – chiamiamola da borghese – durante l’anno del quinto ginnasio trascorso a Roma, prima di essere spedito in un collegio navale a Venezia. Un diario per immagini. Il titolo era Carte di Viale Europa (perché abitavamo all’EUR) lo avevo preso da Flaiano, dalla raccolta di scritti Fogli di via Veneto. Calcolando che avevo 16 anni, posso affermare che ero triste abbastanza.”

Invece, il primo libro fotografico?

“Il primo libro fotografico è – ahimè – anche questo un libro di immagini fatte da me medesimo che feci a Venezia e che, praticamente, è la continuazione del libro dei disegni. Racconta la passeggiata che ho fatto per tre anni dal collegio, che stava a Sant’Elena. Si arrivava a San Marco per passeggiare, andare al cinema, mangiare la pizza e poi tornare indietro. La cosa migliore del libro è il titolo: Da sant’Elena a san Marco passando per san Zaccaria. Un titolo un po’ alla Wertmüller che solo i veneziani possono capire. E’ vero che ho fatto le foto e me lo sono pubblicato, ma è vero pure che ho trovato un’azienda che me lo ha finanziato! E’ stato pubblicato nel 1987, allora già conoscevo Berengo (Gianni Berengo Gardin – n.d.R.) che è stato il mio mito assoluto – quasi un parente – per molti anni. Dato che nel suo primo libro sulla Ferrara di Biagio Rossetti c’era un testo di Bruno Zevi, per emulazione gli chiesi cosa ne pensasse dell’idea che io chiamassi il grande storico dell’architettura e gli chiedessi un testo per il mio libro. “Sì, chiamalo”, mi disse lui. Così lo chiamai. “Buongiorno Professore sono un amico di Gianni Berengo Gardin. Vorrei farle vedere le foto che ho fatto su Venezia.” “Ah che meraviglia!”, fece lui. “Me le mandi”. Così, gliele mandai. Dopo qualche giorno ricevetti una lettera con il timbro On. Prof. Dott. Arch. Bruno Zevi in cui c’era scritto qualcosa come: “Caro Peliti, dopo aver visto le sue fotografie sono immediatamente partito per Venezia, per essere sicuro che la città fosse come me la ricordavo e non come appare nelle sue fotografie. Cordiali saluti”. Gli telefonai e gli dissi che avevo avuto il sospetto che le mie foto non gli fossero piaciute. Lui mi rispose con una domanda: “Le sue foto piacciono a suo padre?” “Penso di sì, feci io”. “E’ la dimostrazione che non valgono niente.”, replicò lui. Lì ho capito due cose, primo che non si deve mai peccare di presunzione, secondo che si deve sapere bene chi è il proprio interlocutore. Dopodiché, ci ho pensato anni prima di far vedere nuovamente le mie fotografie a qualcuno. Certamente, però, quello che disse Zevi in quell’occasione – l’idea di architettura e di spazio da lui teorizzata – ha contribuito a dare consapevolezza al lavoro che sto facendo tuttora su Venezia, la città più antiprospettica che esista, dove non esiste un angolo retto. Fotografare Venezia significa mettere ordine all’interno di un mezzo che, per sua natura, ha una visione tendenzialmente classica. Diceva Filiberto Menna che la fotografia ha introiettato i canoni quattrocenteschi della prospettiva. Quando l’ho sentito, ai tempi dell’università, mi sembrava un pensiero assolutamente delirante. In realtà, è vero. Se ci si pone di fronte ad uno spazio, la macchina fotografica aiuta a mettere in ordine ciò che, nella realtà, è in disordine. E questo è un esercizio bellissimo. Ma non ci sarà mai un ordine nel disordine che possa avere un valore definitivo. Tutte le mattine, quando esco a fotografare, penso immancabilmente a Gabriele Basilico e a una storia che si racconta di una conversazione tra Dustin Hoffman e Laurence Olivier durante le riprese de Il maratoneta. Pare che Dustin Hoffman non facesse altro che correre, in ogni momento, e un giorno Laurence Olivier gli chiese: “Perché corri sempre?”. “Per entrare nella parte”, gli rispose Hoffmann. “Non fai prima a recitare?”, sembra che fosse stata la domanda successiva di Olivier. Quando esco la mattina con tutti i miei parametri sulla luce sempre costante e altro ancora, immagino Gabriele (Basilico – n.d.R.) dirmi: “Ma non fai prima a fare delle fotografie?”

Le tue fotografie di Venezia sono sempre in bianco e nero?

“Non so da che parte si cominci a fare fotografie a colori! Anche se, stando a Venezia, il primo fotografo che ho conosciuto nella mia vita è stato Fulvio Roiter. Il suo primo libro che ho posseduto è Laguna (1978), l’altro – Essere Venezia (1977) – l’ho comprato usato. Quindi una fotografia a colori, o meglio una cartolina a colori molto raffinata. Però il secondo fotografo che ho conosciuto è stato Cartier-Bresson e il terzo Berengo. Quando ho cominciato a fare l’editore conoscevo solo questi tre fotografi. L’ho detto anche altre volte, iniziai a collaborare con Berengo facendo una serie di libretti per i ginecologi, commissionati da una casa farmaceutica, dedicati al tema delle donne nella società italiana. Poi, quei quattro fascicoli sono diventati un libro unico di cui fu fatta anche una mostra, nel 1989, a Palazzo Braschi. Ma la cosa divertente è che Berengo cominciò a portarmi in giro. Avevo 27 anni e lui mi presentava come il suo editore romano. E’ anche vero che lui aveva un “suo editore” ogni 80 km, o anche meno, perlomeno una volta. Comunque, mi presentava persone che parlavano a cena di fotografi che chiamavano solo per nome. A me dava un fastidio terribile perché parlavano di Josef o di Letizia e io dovevo cercare di capire bene chi fossero, poi il giorno dopo correvo in libreria e compravo tutto ciò che trovavo sulle persone di cui si era parlato la sera prima. Altre volte, quando mi fermavo a casa di Berengo a Milano, dato che dormivo sul divano del soggiorno, prima di addormentarmi prendevo i libri e li sfogliavo. In seguito cominciai a comprare in maniera compulsiva tutto quello che trovavo per avere i rudimenti sulla fotografia.”

Invece, l’attività di gallerista? Dopo l’esperienza della galleria Minima, sei tornato a Palazzo Borghese. Siamo al terzo anno dall’apertura della galleria del Cembalo: bilanci?

La valutazione è sicuramente positiva, anche se le logiche curatoriali e commerciali spesso sono diverse. Tra Paola, mia moglie Donatella e me si sta creando una certa empatia sulle scelte. Certamente bisogna cercare di essere sempre convinti di quello che si propone sapendo, magari, che non si venderà.

Tra gli autori con cui collabori si è creato un rapporto che va oltre l’aspetto professionale?

“Tra le persone più belle che ho conosciuto c’è sicuramente Gabriele Basilico. Era una gran persona che, pur essendo consapevole di aver raggiunto il successo e un riconoscimento internazionale, era disponibile con tutti. Era intellettualmente generoso. Ha sempre aiutato i giovani autori. Gabriele mi manca tantissimo. Anche Antonio Biasiucci è di grande generosità con il laboratorio che fa a Napoli, sente la necessità di restituire agli altri un po’ della propria fortuna. Perché il talento – se si ha – è una grande fortuna. E’ come la fede, un dono.”

Ti è mai capitato, invece, di apprezzare un lavoro e non l’autore?

“Sì, certo. Lo si scopre sempre dopo, quindi bisogna farsene una ragione.”

Tra gli editori quali sono quelli che hai amato di più?

“Ci sono editori che ho amato molto come Delpire e, tra gli italiani, Gigi Giannuzzi con Trolley Books. Altri, come Lothar Schirmer, mi affascinano per motivi diversi. In tutti i libri c’è sempre un pezzetto di chi li fa. Ad esempio nei miei libri, che considero sempre dei prodotti mediamente ben fatti, ci sono sempre anche molti dei miei errori. Non esistono due miei libri stampati nella stessa maniera. Certe volte uno viene meglio, altre peggio. Non c’è una standardizzazione del prodotto. Una peculiarità: tutti i libri hanno struttura ed editing piuttosto ben fatti, ma mediamente hanno copertine modeste. Questo avviene perché progetto la copertina per ultima e sono talmente spompato, anche perché spesso ci lavoro dopo aver stampato l’interno del volume. Facendo un paragone assolutamente fuori scala, amo l’inizio dei film di Bertolucci ma non la fine. Lui, mi hanno detto, gira in sequenza, per cui anche lui arriva spompato alla fine.”

Per concludere vorrei tornare al tuo lavoro fotografico di mappatura di Venezia…

“Non è un lavoro, è un’auto-committenza. Anzi è un’ossessione! Io sto a Venezia come Araki alle donne. L’enorme desiderio è di registrare nel modo più fedele e asettico possibile la città così com’è, all’inizio del millennio. Fotografo usando il GPS, quindi ho la collocazione esatta di ogni punto di ripresa, nel tentativo assurdo di rappresentare tutta la città. Il vero tema, però, non è rappresentare il tutto, ma l’infotografabilità del tutto. Il mio è un progetto su un desiderio velleitario, quanto inappagabile. Noi non vediamo ciò che ci si presenta davanti agli occhi, ma quello che abbiamo deciso di voler vedere. Venezia, ad esempio, è piena di edifici degli anni ’50, ’60, ’70 e ‘80 disseminati in giro per la città, ma non li vediamo perché vogliamo vivere suggestioni gotiche, rinascimentali, magari barocche. Anche solo guardando l’evoluzione che c’è stata dal dopoguerra ad oggi è evidente che le grandi aree verdi della città, dove c’erano gli orti, non esistono più. E’ stato edificato tutto. Il mio obiettivo, perciò, è rendere in maniera organica la rappresentazione della città con tutta la sua stratificazione.”

Anche la metodologia è estremamente rigorosa. Ad esempio fotografi solo in determinati orari della giornata…

“Sono le regole del gioco che, nel mio caso, prevedono che le fotografie debbano essere senza persone e realizzate a parità di condizione di luce. Uso il bianco e nero per un motivo semplice, anche se in realtà la macchina scatta a colori, perché è un codice astratto che, ai fini dell’analisi, semplifica la lettura dell’immagine. Ho iniziato a fotografare Venezia nel 2003, cominciando con la Giudecca. Tutto nasce dal fatto che con mia moglie abbiamo un appartamentino al Molino Stucky. Dato che era crollato un tetto, il proprietario lo fece ricostruire più alto di un metro e mezzo, per cui non vediamo più la laguna. Allora, nel tentativo disperato di cercare fotografie di come fosse l’edificio precedentemente, mi sono chiesto come poter trovare informazioni del genere. Nei posti che hanno una fotogenia garantita, come Palazzo Ducale, trovi migliaia di foto, ma per gli altri? Ecco, è cominciata così. Il mio progetto – o il gioco –  prevede che io debba scattare sessanta giorni l’anno, confidando nel tempo nuvoloso. Di volta in volta vado in un posto preciso, che decido in funzione del giorno, dell’ora e dei flussi della gente. Ci sono luoghi dove, per fotografare senza gente devo aspettare anche mezz’ora. Per me è una gioia immensa fermarmi e guardare, però sono sempre solo quando fotografo, perché perfino i miei cani si annoiano a seguirmi!”

 

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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