Festival della Letteratura #5. Tumbas, di Cees Nooteboom, presentato da Piero Dorfles

noteboomAgli eventi dedicati alla poesia non c’è mai fila o folla, a Mantova. Anche quando si cerca di organizzare qualcosa sulla poesia in altri contesti, i lettori forti si fanno di nebbia.
Eppure, a incontro iniziato,mi sono voltata e ho visto tanta gente alla presentazione  di Tumbas, del poeta Cess Nooteboom, forse perché, a parte la fama dell’autore, non si tratta di un volume di poesie, ma del resoconto – tranquilli, in prosa – di un lungo viaggio sulle tombe di poeti e di pensatori.
Come dice lo scrittore nelle prime pagine del libro, e ribadisce più volte durante l’incontro, mentre in genere i morti tacciono per sempre, i poeti morti continuano a parlare. Ogni volta che leggiamo un loro verso, che vengono citati in un discorso, in una performance teatrale, in un articolo o in un romanzo o diventano le parole di una canzone, ogni  volta parlano ancora.
Elena Loewenthal, la scrittrice e traduttrice, qui a Mantova, ha detto proprio l’altro giorno che “Le parole chiedono di essere messe  al posto giusto, nel posto giusto, e quando ciò accade è una specie di magia“. Questa  magia è particolarmente risplendente nella poesia.
(Con il poeta colloquia oggi con estrema discrezione Piero Dorfles, tanto da non lasciare altra traccia che un delicato indirizzo del discorso)
Parlare di tombe è apparentemente  un argomento lugubre, ma Nooteboom in realtà parla della lettura (e quindi parla di noi, i lettori).  Ogni tomba ha la sua fotografia. Questo mi ha colpita. L’impatto visivo rende più reale e concreto il ricordo del poeta, del pensatore, delle sue parole che so di avere nella mia memoria fondanti in qualche modo il mio sentire del mondo.
Il  breve post che segue la foto mi riporta vicino Apollinare, Virgilio, Cortàzar, insieme a citazioni di loro poesie, talora riportate in lingua originale in appendice.
Ma alcuni morti sfuggono, dice Nooteboom, non vogliono essere trovati. Per esempio Pessoa, di cui io sono un grande ammiratore. Sono andato a cercare la sua tomba, ma mi hanno detto sì, era qui, però adesso se ne è andato. Ai morti a volte non viene dato di riposare,   i loro corpi vengono richiesti altrove. Virginia Wolf è stata cremata e le ceneri sono state, per suo volere, disperse nel suo giardino. Ed io ho fotografato il giardino. Un altro esempio è quello di Robert Louis Stevenson che è morto a Samoa. La popolazione di Samoa, che lo amava molto,  ha deciso di seppellirlo in cima ad una montagna. Gli anziani avevano caricato sulle spalle il suo corpo e lo avevano portato lungo  una camminata di tre ore fino in cima, in un meraviglioso posto con una veduta sul mare,  e se tu vuoi vedere la sua tomba devi rifare lo stesso percorso e raggiungere questo luogo stupendo“.

Perché visitiamo la tomba di un grande? Secondo Nooteboom vi è una specie di corrispondenza, in un certo senso il nostro omaggio era già nelle attese, nella mente del poeta, nei pensieri che rivolgeva alla propria sepoltura. Cita Elias Canetti che, da vivo, va a visitare la tomba di Joyce accanto a cui vorrebbe essere sepolto. “Ma che cosa mi importa, scrive, se a Joyce piacerebbe o meno che io sia sepolto vicino a lui?”
A Canetti non piaceva Joyce e non piaceva l’idea di morire, eppure adesso giace a venti  metri di distanza. Canetti inizialmente  aveva addirittura una croce sulla tomba, lui che era di religione ebraica, per un automatismo cristiano, e solo dopo è stata sostituita da un simbolo ebraico, quindi si può dire che sia stato sepolto due volte.

Ci sono poi gli oggetti lasciati dai visitatori sulle tombe, come se il morto potesse in qualche modo fruirne. Le foto di Simone Sassen ce li mostrano. Anche su questo rifletto: forse la nostra vera religione, quella che resiste quando i dogmi e i riti si logorano, è il culto dei morti.  Le tombe sono per noi, non per i morti. Perché se anche la speme, ultima dea, fugge i sepolcri, noi vivi invece li visitiamo, quali segni tangibili, templi dell’anima di chi ci ha lasciato opere, intelligenze, sapienze fondanti e ancora presenti nella vita umana. E cerchiamo ancora di parlare loro, così come loro ancora ci parlano.

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Cecilia Deni, classe 57, sarda di nascita, vive e lavora come medico di famiglia a Bologna. Lettrice ossessiva, ama restituire il frutto delle letture a chiunque, imprudentemente, si presti ad ascoltare.

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