Letteratura Inaspettata #50. Un inno alla complessità tinto di giallo. Tre Madri di Francesca Serafini

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«Con troppe lacrime piangi Maria solo l’immagine di un’agonia» canta Fabrizio De Andrè in Tre madri, da cui la scrittrice e sceneggiatrice Francesca Serafini prende a prestito il titolo per il suo romanzo, edito da La Nave di Teseo.

Le altre madri, sotto la croce, l’accusano di piangere null’altro che un simbolo, un segno. Eppure – anche laicamente, a ben guardare si parla sempre di parole fatte carne, di significanti portatori di significato. Anche in questo senso, il romanzo di Serafini è un’interessante strumento di analisi.

Ma è meglio procedere con ordine. Apparentemente, la sceneggiatrice di Non essere cattivo e Principe libero, per la prima prova al romanzo sceglie il romanzo di genere più classico e (ben, ultimamente) frequentato: il giallo.

Introduce nel panorama già ampiamente popolato di commissari una nuova, curiosa figura. Quella della commissaria Lisa Mancini, trentatrè anni e un glorioso passato all’Interpol di Lione troncato all’improvviso, per scelta, per andare a imbozzolarsi (rinchiudersi?) nella quotidianità della provincia romagnola, dove lasciar trascorrere le giornate facendosele scorrere addosso e giocando a Candy Crush.

immagine per tre madri di francesca serafiniL’innesco, apparentemente quasi casuale, è la scomparsa di un quindicenne, River. Sparito nel nulla prima di un concerto, a scuola, organizzato per il ventennale della scomparsa proprio di De Andrè. (Ce n’è molto, in questo romanzo, e non è soltanto un debito di gratitudine da parte di chi – in Lui, io, noi  ha prestato a sua moglie le parole per raccontarlo).

River, come Lisa, è un silenzio pieno di voci. Figlio di artisti che hanno scelto di vivere di arte di recupero, cambiando traiettoria segnata per loro, a Cà de Falug, a margine di una comunità che li respinge, lì isola. Fin qui, il significante, il segno.
E basta – probabilmente – questa traccia a capire che il significato del simbolo porta in altra – anzi, altre, molte altre – direzioni.

Il rumoroso vuoto di River scorre sotto una rete di trame che vanno altrove: attraverso Montezenta, in cui si incontrano le contraddizioni della provincia, ruvida e sempre uguale a se stessa, accogliente a prezzo del silenzio, pur a patto che il diverso rimanga lontano dallo sguardo. Il luogo perfetto per chi, come Lisa, ha scelto di tacere.

Anche in questo caso, però, quella della commissaria non è la fuga che appare. Si tratta, piuttosto, di un istinto di protezione. Rotto, oltre che da ciò che le accade intorno, da una scelta di cambio di passo. Lisa sceglie di sintonizzarsi col romanzo, che procede articolando le trame e prendendo un incedere che somiglia a un’altra tipicità della provincia romagnola, quella polka chinata che termina in un ritmo indiavolato e riempie le balere delle persone più diverse.

Anche – soprattutto – in questo il romanzo di Serafini somiglia al luogo che lo abita. Un romanzo corale che si allarga sempre di più, in cu la trame si moltiplicano senza sfilacciarsi mai.

In Tre madri, più che un romanzo, c’è un gioco di eleganti e vitali scatole cinesi: c’è la voce degli ultimi, c’è una donna che tende di nuovo a se  stessa, insinuandosi nel rimosso proprio e in quello di chi la circonda, con la schiettezza senza fronzoli che è l’unico modo per uscirne vivi. C’è una maturazione personale e collettiva, un percorso di crescita che non a caso si specchia nel riconoscere cos’è e come cambia, quanto è intimo e lacerante, il ruolo del genitore. «Dove si insegna ai genitori, ad evitare il peggio? E come fanno i figli, anche quando hanno capito tutto questo – a imparare a perdonarli?»

C’è insomma, la complessità della vita. Ed è questo il più grande pregio, oltre che del romanzo, della sua autrice. Con la lingua estremamente raffinata che le è propria – che qui si contamina della vitalità del linguaggio parlato, della gemmazione dei pensieri che si inseguono quando ci confrontiamo con noi stessi – Francesca Serafini costruisce un romanzo che – restando godibilissimo – è un autentico elogio alla complessità.

Smentendo tutta la teoria narratologica che vede un valore nella semplificazione purchessia, e rovesciando la propria consuetudine di sceneggiatrice, che la forza a lavorare esclusivamente sul botta e risposta e al servizio della resa di un’immagine, in Tre Madri Serafini si prende la libertà di elevare il simbolo – inteso come parola – a centro del racconto. Uno dei molti.

Un esercizio di stile, tutt’altro che fine a se stesso: al contrario, semmai, la dimostrazione di quanto sapere occorra per maneggiare le parole anche in quei contesti – come la narrativa di genere – che una certa narrazione vuole meno accorti. Può – e deve – ancora, la letteratura, stimolare l’intelligenza del lettore a un divertimento che non è pura evasione ma piacere di essere portato su diverse strade.
Abitate da simboli per cui il trasporto emotivo non è mai fuori luogo.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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