Ausmerzen, oggi. Gli “indegni di essere vissuti” agiscono in scena

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ph. Barbara Rocca

Come lo raccontiamo l’orrore? Con più dettagli possibili, diceva la psichiatra Alice Ricciardi von Platen.

Marco Paolini, scrivendo Ausmerzen, che Renato Sarti riporta in scena al Teatro Della Cooperativa, segue questa linea per rievocare la mostruosità del Progetto Aktion T4, lo sterminio sistematico delle persone «non degne di essere vissuti», iniziato – nel silenzio – molto prima dello sterminio su vasta scala, in una palazzina (sequestrata a un ebreo) al 4 di Tiergantenstrasse, che dei campi di sterminio è stata lo spazio d test: segregazione, esperimenti medici, camere a gas, nel cuore della capitale, esisteranno a lungo e fino (non a partire dal) 24 agosto 1941.

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ph. Barbara Rocca

Senza che nessuno se ne accorga, perché a subirle sono «fardelli inutili, gusci vuoti», colpevoli d’esistere senza funzionare abbastanza bene per la società. Nazista, ma (forse?) non solo. Disabili, pazienti psichiatrici, malati.

Ma non solo. A subire la schedatura, l’isolamento sociale, le deportazioni, trasferimenti forzati da un luogo a un gorgo di buio senza uscita, sono anche ragazzini, nemmeno adolescenti – come quello portato in scena da Renato Sarti, colpevoli solo di non avere nessuno che chieda di loro, o di essere irrequieti.

Dei settantamila morti che la sistematica eliminazione avrà prodotto a guerra ancora incipiente, uno su dieci sono bambini. E sono l’ultima voce di una inenarrabile escalation che ha contato – prima della guerra – un numero quasi sei volte più grande di sterilizzazioni forzate, per tutti coloro cui non doveva essere concesso di far esistere qualcuno dopo di loro.

Come si racconta una tragedia del genere? Lo si può fare coi numeri, riordinati con sapienza, o con la maestria teatrale di chi fa corrispondere a ogni cifra una vita, o frammenti di essa.

Così ha fatto – in uno degli spettacoli più importanti e fortunati della sua preziosa produzione civile, celebrando anche così il centenario della nascita di Franco Basaglia, fa qualcosa di più.

Lo fa perché, dopo aver sperimentato gli strumenti della soluzione finale, gli esecutori dell’orrore saranno mandati a gestire la Risiera di San Sabba, nella Trieste dove Sarti è nato e dove – proprio insieme e sulla scorta dell’esempio basagliano, ha praticato il teatro come strumento concreto per i cosiddetti matti, molto oltre le maglie strette del concetto di inclusione.

Una sola regola – racconta nel foyer: non chiudere la porta del teatro agli utenti. Ma lo fa, soprattutto, perché consegnare questa memoria al solo nazismo non basta più. Il laboratorio di eugenetica che in quegli anni ha trovato applicazione, giustificato da un orribile e distorto beneficio collettivo, non è – come non lo sono i cascami del nazismo, una pagina conclusa.

Sono cambiate forse le forme, tra l’Ottocento e gli anni del nazifascimo in cui si strutturava, programmaticamente, per cancellare dalla storia «i corruttori della razza».

Ma cosa pensiamo, oggi, davvero, di coloro che in quelle carte si sarebbero chiamati Ballasexistenzen, le esistenze zavorra?

Al chirurgico e raffinato testo di Paolini, Sarti – acceso dalla passione civile, ma rifiutando la maniera della teatralizzazione, al netto di un fondale pieno di sfavillii – fa poche aggiunte, capitali.

Quella essenziale, cancella in un gesto ogni alibi di rimando squisitamente storico: «per una volta provare il brivido e l’ebbrezza di affacciarsi sulle tenebre oscure di un terribile baratro e scoprirti… davanti allo specchio». Lo specchio del reale, del presente (e volendo, di chi scrive come potenzialmente di ognuno) è in scena accanto a Sarti, per l’intero spettacolo. Si chiama Barbara Apuzzo, attrice con artrogriposi.

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ph. Barbara Rocca

In questo sta il meritorio passo in avanti rispetto al fondamentale testo del drammaturgo bellunese. A raccontare la vicenda dei rifiutati, c’è una donna che muove dalla consapevolezza di aver avuto solo il privilegio del momento storico a proteggerla dall’essere diventata ausmertzen, termine di ambito pastorale che marchia gli animali ritenuti dal pastore (e dunque dal potere) troppo deboli per per compiere la transumanza, e di conseguenza soppressi.

Ma, ancora una volta, non basta, Sul palco del Teatro della Cooperativa non c’è la piccineria rassicurante del sollievo dello sguardo all’indietro. C’è un presente in cui si sceglie un gesto artistico, e di conseguenza, politico. In scena, a interpretare, c’è un’attrice che agisce il suo corpo e la sua voce compiutamente, pur nel rispetto e secondo quel che le consentono i  limiti del suo corpo.

Ma c’è una costruzione drammaturgica che dà forma a un corpo scenico e una scena pensati per il corpo della loro interprete, la sua voce. E così facendo svela quanto, ancora, questo testo sia uno specchio. Del nostro pregiudizio, di quello che forse ci saremmo aspettati, che senz’altro sarebbe usuale. Portare in scena una persona disabile come una sorta di “quota minoranza”, affidandole lo stretto indispensabile, facendone un simbolo utile a rassicurarci, e solo fin dove il testo può essere stressato perché vi rientri.

L’Ausmerzen firmato da Sarti è invece un’epitome del diritto a esistere.
Allora di fronte alla più grande “malattia” della storia, che forse è il fascismo di ogni paese ma è, ancora di più la sua radice, l’indifferenza e la discriminazione, ancora vive come un cancro che si mangia dall’interno la società civile, nella storia e nelle sue recidive contemporanee, può essere questa, la cura.

 

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ph. Barbara Rocca

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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