La ferocia. Va in scena la natura violenta e tragica della famiglia

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«Un uomo che dice il suo prezzo è un problema risolto prima di essere affrontato». Una battuta, per sintetizzare una realtà nascosta in pieno sole.
La compagnia Vicoquartomazzini per portare in scena La ferocia, romanzo Premio Strega 2014 di Nicola Lagioia, al Teatro Fontana della nuova direttrice Ivonne Capece, parte da una spietata consapevolezza, e dalla scelta di prendere due elementi di radici risalenti che descrivono il presente, e funzionano, per portarli in teatro perché diventino parte necessaria di qualcosa di nuovo, di un teatro che riesce ad essere davvero contemporaneo.

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La ferocia, Compagnia Vicoquartomazzini – foto Valerio Polici

Questa messa in scena del romanzo, prodotta da Gli Scarti, in una coproduzione in cui sono coinvolti anche Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Romaeuropa Festival, LAC – Lugano Arte e Cultura, Teatri di Bari, Teatro Nazionale di Genova, ha scelto due elementi antiteatrali per riportare al centro proprio la scena. L’uno è formale: le saghe familiari che spopolano in libreria e dal teatro sono nate, con la forma della tragedia.
L’altro è di mezzo: il podcast, che, mentre regala nuova vita al “nonno” radiodramma, diventa oggi la formula emotivamente più intensa per raccontare le pieghe del reale.

Come in uno dei seguitissimi true crime, un giornalista-demiurgo-regista (Gaetano Colella) fa esistere un corpo in assenza, polo intorno a cui tutto è attratto e ogni orbita è regolata. È il corpo – morto – di Clara Salvemini, figlia di Vittorio (un intenso Leonardo Capuano) imprenditore-imperatore arricchito della Bari di oggi.

Ma cosa succede nell’angolo cieco di un impero dalle fondamenta fragili? A lei, o alla loro memoria di lei, tutti si confidano. Curioso, tuttavia – ma coerente con la scelta musicale di Pino Basile, che piega all’elettronica due strumenti tradizionali pugliesi come il fischietto materano e il cupa cupa – scegliere la metafora dell’ascolto per una famiglia che, proprio nell’assenza di ascolto ha incistato il veleno di cui non sa fare a meno.

Proprio da questo ascolto prima mancante, però, la vicenda si chiarisce mentre si svolge, portando in scena un corpo vocale che, d’altra parte, fa esistere come per evocazione i corpi nel suo descriverli, e offre loro una statura teatrale, L’eco, tutt’altro che nascosta, è greca, ma del contemporaneo ha guadagnato la tridimensionalità: al successo dell’Agamennone padre e padrone, amato apertamente e odiato segretamente con la stessa intensità, è stata – o si è immolata la vita di una figlia perduta, mentre il fiele di una moglie (interpretata da Francesca Mazza) più fragile di quelle antiche non possiede una statura tale da far altro che accettare.

La generazione dei figli, a sua volta, è spaccata come di prammatica; il figlio di ritorno chiamato a un gesto di vendetta che ha i crismi della giustizia, si chiama Michele (Gabriele Paolocà, anche intelligente regista insieme a Michele Altamura, che interpreta il fratello). È un giornalista di poco successo fuggito a Roma per cercare un futuro mancato, e fa da contraltare a quello rimasto, Ruggero, che ha cercato di emanciparsi col sapere ma a cui la laurea in oncologia non è bastata per non diventare un’appendice altrui, per liberarsi da quel che il padre ha deciso che fosse.

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La ferocia, Compagnia Vicoquartomazzini – foto Valerio Polici

Intorno, una teoria di macchiette del potere, troppo ridicole per non essere reali, tra medici cocainomani, ex sottosegretari arraffoni e laureati in costume da rana (Enrico Casale e Roberto Anghileri). precipitato della – ricchissima – saga dell’autore pugliese, sulla pagina come in scena, dove lo scarnifica la penna di Linda Dalisi, è quella del titolo: la ferocia umana, che Lagioia ambienta a Bari solo perché – come spiegano i registi nel dialogo a margine dello spettacolo – al sud è soltanto più visibile.

Ma non è in una geografia, naturalmente, che trova terreno fertile il marciume che ricopre, come pianta di palude, la realtà. È, semmai, una struttura, quella familiare. È la famiglia, che diventa cardine strutturale – questo sì – laddove mancano altre forme di istituzioni, a consentire l’esistenza di una rete di legami nutrita d’odio, ambizione, giudizio e potere pronto a piegare la realtà a un silenzio dove, tuttavia, la morte del nemico si attende come esito inevitabile del male compiuto, e di cui la disperazione gioisce a patto sia quella altrui.

Nella (programmatica) mancanza di ogni etica, che – anche quando trova le parole per esprimersi – è forse macchiata del senso di colpa di chi ha preferito non vedere. Di certo è additata come contraltare di un’altra forma d’assenza da chi anche fra i giovani – come un marito tradito e rassegnato Andrea Volpetti – non ha saputo o voluto scrivere per sé un’altra storia.

La strutturatissima e intelligente resa teatrale di Vicoquartomazzini fa calare loro addosso tagli di luce violenti come certo sole a picco sulla Puglia, che schiaccia la realtà sotto geometrie bidimensionali ed evocative come un quadro di Hopper, nelle scene firmate Daniele Spanò.

Un ambiente che contribuisce a imprimere allo sviluppo della storia – creata con la struttura e il passo progressivamente più rapido e teso del thriller, che svela i suoi segreti una pagina dopo l’altra, facendo assumere allo spettatore la focalizzazione di chi – come Michele – torna in una famiglia cui appartiene ma di cui è, in ogni senso possibile, estraneo.  Rifiutato e prodotto al tempo stesso di un meccanismo – non a caso puramente maschile e maschilista, anche quando agita dalle donne – di fronte a cui forse, a chi è vittima eppure anche complice, non resta altro che vederlo autoconsumarsi, a meno di non immolare anche se stessi, prima del tempo, all’inevitabile caduta nel baratro.

Rifiutando moralismi e semplificazioni, con una compagnia di interpreti impeccabili e taglienti, meschini e ridicoli, rassegnati e pragmatici al contempo, La ferocia apre uno squarcio livido e senza sconti sulla natura violenta delle organizzazioni sociali che l’uomo si dà, anche nella dimensione nucleare. Svelando che strappata la cartolina del sud a misura di turista e il velo dell’ipocrisia sul benessere dei figli, rovesciando il rapporto tra scelta e colpa.

I sentimenti più forti a muovere l’uomo sono quelli, autoconservativi delle fiere chiamate ad agire quando in gioco c’è la propria vita o quella altrui: «Tu cosa avresti fatto? Avresti stretto tra le mani la menzogna, come abbiamo fatto tutti»

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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