Short Theatre. “Autodiffamazione” e “Mio figlio era come un padre per me”. Due linguaggi a confronto.

Doppietta per la serata di Venerdì 13 tra un foyer e l’altro, qui a Short Theatre.
L’impazienza per la Prima assoluta Barletti-Waas è tanta che si varca il buio con minuti di attesa.

Due sono le possibilità critiche che si potrebbero perseguire e il fatto di preannunciarle è già un lasciapassare per determinarle entrambe; da una parte, il valore storico che entrambi, esecutori e registi al contempo hanno segnato nel proprio personale percorso legato al teatro e dunque promuovere la loro scelta odierna a prescindere dal palco festivaliero, dall’altra, guardare all’oggi estrapolandone la riuscita senza tener conto in modo eccessivo del passato. Cercando di incrociare entrambe le possibilità cominciamo col dire che non è il nudo integrale d’apertura a non convincere, seppure previdente scandalo, come a dire – sappiamo quello che state pensando, sappiamo con quali occhi ci state guardando, sappiamo che avrete ammirazione per il nostro adulto coraggio- eppure no, non è questa la fase meno fluida dell’interno lavoro.
Talvolta l’obiettivo fosse stato quello d’acuire il gap tra la mancanza d’orpelli fisici e la sovrabbondanza del verbo, talvolta la scuola della non-recitazione avesse messo a segno un altro punto, probabilmente, la prova si direbbe riuscita.

Se poi si pensa al testo di Handke, “Autodiffamazione”, che da il titolo alla performance, si ha subito chiara la mole emotiva con la quale i due hanno avuto a che fare e la difficoltà nel rendere scenicamente qualcosa di così denso e universale come la questione sul giudizio personale e si perdonano perciò, con umiltà critica, deviazioni d’ogni tipo.
In un gioco alternato tra confessioni ed emblemi retorici sul percorso esistenziale è articolata una vicenda pressoché statica, poiché il potere in questo caso, al di là del palco, è detenuto dal linguaggio, che muove pedine immaginarie lungo i canali della vita ma l’azzardo non è sempre nel rendere visibile lo sconosciuto, talvolta è proprio nel conservarne il mistero.

Tutt’altra prospettiva, vuoi per scarto generazionale, vuoi per difformità d’intenzione, per lo studio vincitore del Premio Scenario 2013, ad opera dei Fratelli Dalla Via con “Mio figlio era come un padre per me”.
Qui il linguaggio non consola, non completa, non incoraggia alla facile comprensione, qui il linguaggio è secco e dissacrante, intermittente e funzionale al gesto: non è prevedibile ma neppure esasperato.
In un’ascensione di rigidissime regole prossemiche, si fa avanti, dilagante, il tarlo che porta il nome di una generazione intera, quello sulla capitolazione di chi ha generato chi, o cosa.

Singolare il fatto che ad inscenare lo studio siano realmente due fratelli, stretti in un sodalizio artistico da non innumerevole tempo; eppure è forse sempre l’onestà il trampolino per la riuscita di un buon ascolto. All’interno di un’epoca teatrale in cui la ricerca la fa da padrona e dunque la somiglianza di questa performance ad una qualsiasi altra che tratti le medesime questioni potrebbe dirsi evidente, è proprio la precisione del segno accompagnata dal gesto e dalla puntualità del verbo a fare di questo studio una promessa per il futuro.

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Maria Rita Di Bari è un acquario del 1986. Si laurea in lingue con una tesi sulla giustizia letteraria dedicata a Sophia de Mello Breyner Andresen e scrive di critica teatrale e cinematografica per testate quali Repubblica.it, “O”, “Point Blank” e “InsideArt”. Ha pubblicato con Flanerì un racconto dal titolo “La fuga di Polonio”.

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