Biennale Teatro. Stefan Kaegi Open Door. Che luogo è oggi il teatro?

Stefan Kaegi

Il mio ricordo di Venezia risale al 2011, in occasione della 68° Edizione del Festival del Cinema.

Ci torno per toccare e fuggire e incrociare con ciò la Biennale e le proposte teatrali ancora una volta per la direzione artistica di Alex Rigola. Quest’anno più che mai l’edizione della Biennale è caratterizzata da una particolare attenzione riservata alla formazione, espressa in formule laboratoriali ed estensione a tre settimane dei College.

Un Festival in cui la presentazione degli spettacoli sia solo parte del tutto, affiancata da workshop, incontri con artisti e registi, residenze e Open door a conclusione delle stesse per comprenderne da dentro le intenzioni.

Riesco a vedere poco, ma in quel poco che riesco a vedere ci sono i 2/3 della materia e della filosofia di cui è intriso il Festival.

Mi sembra di capire che da qualche parte ci si interroghi sul futuro del teatro per sé e parimenti sul futuro di un pubblico talvolta dormiente, ma, nodo cruciale, su come far dialogare queste due realtà che fanno fatica a comprendersi anni or sono.  La chiave pare riscontrarsi nel tentativo di far avvicinare lo spettatore quanto più possibile alle fasi preliminari della messa in scena per accorciare con ciò la distanza che separa questi due emisferi. Una sorta di infiltrazione, di spionaggio, per tutto quanto concerna gli albori e gli ingranaggi del processo creativo per dare la possibilità al pubblico di sentirsi compreso in qualche modo, attore anch’esso.

Stefan Kaegi
Stefan Kaegi

A tal proposito assisto all’esito del laboratorio tenuto da Stefan Kaegi, uno dei registi del Rimini Protokoll che già nel 2011 aveva guadagnato il Leone d’Argento. Il collettivo si muove col piglio giornalistico del documentarista, da una parte, e con l’osservazione partecipata dell’antropologo dall’altra stipulando una sorta di modello per una live-performance territoriale da replicarsi possibilmente ovunque. Lo vediamo all’opera negli spazi del Teatro La Fenice. L’esperienza è esilarante e priva di buchi semantici.

Dopo aver diviso il pubblico in gruppi e averlo dotato di audioguida, lo si dispone sotto l’ala di un attore capogruppo che reca in mano un cartello con su riportata una parola chiave che racconti la città di Venezia in sunto. In questo caso le parole sono Mose, Fire, Real Estate, Logistic, Little Venice, Urbanism e ogni gruppo è chiamato ad interagire con l’altro, calato nella dimensione del significante che queste sei parole esprimono. Se per un verso la performance somiglia a un Luna Park o come già si è detto a un game-player dove il divertimento sarà garantito a chiunque, è d’altra parte impossibile non riconoscergli un altissimo valore in sé e per sé.

Quando si parla del superamento del luogo teatro come sito deputato alla fruizione ci si rende conto di trovarsi all’interno della Fenice, ma si è altrettanto sicuri che la performance potrebbe essere esportata in un luogo qualsiasi della città. E quell’aura di sacralità con cui ci si approccia giustamente al teatro, qui è un muscolo che danza, è la sorpresa della velocità della rotazione, è l’ingegno gioioso della trovata, riproducibile, appunto, in ogni dove. Non è cosa nuova, si potrebbe pensare e a ragione.

Ma se la critica è in odore di domandarsi come sia possibile ricucire il patto antico e più volte barbaramente tradito tra teatro e spettatore, è forse qui che dovrebbe venire a spiare ed altresì applicare un distinguo tra questa tipologia di Open door e l’affare laboratoriale o lo studio in fieri già spesse volte tristemente spacciato per spettacolo.

Si dovrebbe riflettere per un momento sull’opportunità di iper specializzare i tecnici del teatro non per un meccanismo di successiva restituzione ma per un piacere autoerogeno destinato ad allontanare il pubblico e costringerlo a una selezione naturale spietatissima con il successivo rischio che la stessa iper specializzazione sia effimera e insufficiente per durata, intensità e partecipazione. Forse invece oggi più che mai il teatro è un luogo per documentaristi e antropologi o per architetti illuminati che sanno utilizzare il denaro, tanta è la stanchezza rimasticata per una quantità di parole oscene o di volgare cabaret.

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Maria Rita Di Bari è un acquario del 1986. Si laurea in lingue con una tesi sulla giustizia letteraria dedicata a Sophia de Mello Breyner Andresen e scrive di critica teatrale e cinematografica per testate quali Repubblica.it, “O”, “Point Blank” e “InsideArt”. Ha pubblicato con Flanerì un racconto dal titolo “La fuga di Polonio”.

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