Con El conde de Torrefiel a Short Theatre va in scena la performance che sottrae

Soltanto il dubbio che quanto ossessivamente citato nella drammaturgia de La posibilidad que desaparece frente al paisaje, presentato all’undicesima edizione di Short Theatre da El conde de Torrefiel, fosse in realtà drammaturgia e non citazione, apre l’immaginario a uno scenario luminoso.

In scena, poco. Quattro performer oscillanti tra l’algido e l’esilarante a spasso per il mondo. Il mondo è solo citato, apparentemente.  Una manciata di città europee, ai tempi del pensiero occidentale.

Voice over e sovra titoli si snodano compulsivamente tra teorie, filosofie, aneddoti appartenenti o appartenuti alle più disparate personalità. Passiamo attraverso le parole di Houellebecq, Preciado, Spencer Tunick, Bauman e altre voci più acide e contemporanee.

Alle teorie, alle lezioni dal minutaggio stretto, fanno da cornice contesti di camere d’albergo, piazze note, lettere recapitate a nipoti piccoli e lontani, scenari quando più, quando meno probabili.

Tanto ricca la sovra scena, condensata di testo e voce narrate, così povera la scena invece, tanto che vien da dirselo, che lo spettacolo sta accadendo perché lo spettatore vuole che accada, mentre la scena è tutta in sottrazione. E ad un primo pensiero è quasi fastidioso.

C’è qualcosa che riesce comunque a far in modo che il pessimismo non prenda possesso della capacità critica. Ed è probabile che si tratti dello stesso pessimismo di cui la performance è portatrice narrante ma sana o più opportunamente nella sostanza critica di cui è specchio.

In questione da una parte l’uomo, l’artista, dall’altra l’ineluttabilità della natura, richiamata nel titolo e e leopardianamente rivisitata poiché matrigna sì, ma a ragione.

Detto ciò è tutto un lavoro a smontare, crudelmente, lo stato dell’arte, minimizzandone ai termini la sua stessa rappresentazione.

Il pregio più alto della performance nella performance è la riconnessione in qualche modo dello spettatore col performer stesso, con la scena.

Tutto è un divertentissimo specchio attraverso cui si riesce a ridere e ad ammiccare a tutte quelle dinamiche che ci hanno definitivamente allontanati dalla comunione con lo stato naturale delle cose e in questo c’è della crudeltà e assieme dell’estrema intelligenza, poiché ridere di un dramma significa averlo digerito  e imbalsamato per sempre, ciò rimane, è intellettualizzarlo uccidendo l’empatia.

 

 

+ ARTICOLI

Maria Rita Di Bari è un acquario del 1986. Si laurea in lingue con una tesi sulla giustizia letteraria dedicata a Sophia de Mello Breyner Andresen e scrive di critica teatrale e cinematografica per testate quali Repubblica.it, “O”, “Point Blank” e “InsideArt”. Ha pubblicato con Flanerì un racconto dal titolo “La fuga di Polonio”.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.