Gunter Damisch. Attraverso Paesaggi, Mondi ed anche Oltre

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Se foste in una nave spaziale e viaggiaste non nello spazio profondo bensì lungo i canali del corpo umano che sono le vene e vi trovaste, a volte, nei momenti più difficili, a sboccare nei mari impetuosi delle arterie, sareste molto probabilmente i protagonisti di un vecchio film di fantascienza degli anni ’60, ma la sensazione di quel Viaggio allucinante la potreste avere anche, come è successo a me, visitando i Campi, i Mondi ed anche oltre dell’artista austriaco Gunter Damisch (http://www.gunter-damisch.at/).

“Son cresciuto in un piccolo paesino dell’Alta Austria lungo il corso di un fiume, l’Ybbs, in mezzo alla natura con due sorelle, una più grande ed una più giovane di me, passavo molto tempo da solo, non avendone tanto i miei genitori da dedicarmi, mi occupavo del mondo che stava intorno osservando e disegnando. I miei genitori erano entrambi dentisti, il che allora significava unire alla normale attività di medico anche il lavoro in laboratorio di costruire protesi, ponti e corone dentali in oro. Penso che la coesistenza della manualità artigianale e dell’intellettualità di un medico abbia sin dall’inizio dato una direzione ed una forma alla mia vita e spinto verso le arti applicate.”

Scivolare lungo le sale di un museo svolge, nel caso di Gunther Damisch, un doppio ruolo: il movimento nello spazio da parte del nostro corpo ed il viaggio fatto dallo sguardo nell’osservare le dimensioni, i mondi, dipinti e svelati dalle sue opere. Occhi che salendo e scendendo tra macchie di colore puntiformi o flussi di materia lasciati dalle pennellate, tracciano linee e spazi. Ogni quadro è un mondo, forse limitato, dove si sorvolano terre fantastiche, sconosciute, di cui non abbiamo mai sentito parlare, dai confini e dalle forme che penetrano e si perdono nella nostra immaginazione. Terre in cui le geometrie vengono reinventate con le proporzioni e le prospettive, tutto per guidarci in un viaggio di conoscenza, iniziatico e celebrativo. Non è un caso, mi dico, passeggiando nel suo studio, trovare tracce di culture altre, di viaggi ed incontri, tessuti, statue, minerali, tutti rappresentanti di un mondo in cui l’uomo crea i propri feticci per potersi avvicinare al divino, anche dentro di noi.

“Quando ero bambino sedevo spesso la sera con mio padre e lo osservavo dare forma al gesso, alle cere, metalli e plastiche che usava per il proprio lavoro, mia madre invece aveva il suo studio in un paese vicino, amavano entrambi la musica e l’opera, mia sorella prendendone l’eredità è diventata cantante lirica.”

In uno dei primi lavori, Der Löl del 1980, l’artista crea una serie di 5 acqueforti liberamente ispirate dal romanzo Il Brigante di Robert Walser; questo costituisce probabilmente un primo punto d’incontro con quelli che sono gli elementi che delineeranno la sua arte, linee e spazi che ospitano un vasto panorama di soggetti tra il figurativo e l’astratto. Gunter Damisch ci apre una finestra, ancora in fieri, sulla sua arte futura, è già presente l’elemento della tecnica di incisione (acquaforte) che dia una forma tridimensionale alla carta, la quale ottenuta attraverso la pressa di stracci viene stampata dall’autore stesso, le figure ritratte, inoltre, sono a loro volta espressione di quelle energie vitali, interiori che si svilupperanno in mondi, paesaggi ma soprattutto oltre. Il confronto con un autore “difficile” come Walser dimostra già dal principio l’energia che muove l’artista, il tema intellettuale della personalità, il destino che può essere perdente ed il gioco di figure e ruoli. Il protagonista è uno sconosciuto che vive nella Berna degli anni ’20 che briganteggia una sua partecipazione alla buona società senza veramente farne parte, vive una vita bohemien senza uno scopo particolare, circondato da molte donne che cadono puntualmente nella sua rete, si innamorerà però nell’unica che non vorrà ricambiarlo decidendo di sparargli pur di dissuaderlo. La storia diventa, prendendo spunto da uno stile molto frammentario del romanzo, nell’interpretazione di Damisch, un‘immagine schizzata di emozioni dalle forme scambievoli ed estemporanee.

“Ciò che ho sempre cercato è stato osservare la vita, la realtà senza definirla come qualcosa di buono o cattivo ma semplicemente riportarla così com’è nella mia arte.”

Le forme sono per Gunter Damisch materia, come qualcosa che proviene da culture diverse, non è importante che siano tutte ad uno stesso livello artistico, la diversità che mostrano, le storie od anche soltanto le tracce che testimoniano.

“Nella mia infanzia passavo molto tempo da solo, in mezzo alla natura e costruivo piccoli rifugi, circondato da amici inventati, non mi sentivo mai solo, facendo affidamento in una vasta immaginazione. È stata un’infanzia felice, tra le mie letture, i miei schizzi a matita e tutto quello che avevo intorno: la musica ed il disegno. Gia a scuola quando avevo 14 o 15 anni cominciai a disegnare e, successivamente, al Liceo a Linz mi avvicinai e sviluppai un grande interesse nelle materie del Disegno Artistico e Tecnico, in forme come la xilografia, l’acquaforte e la litografia. Mi affascinava sia l’aspetto tecnico che quello concettuale: incidendo una superficie o viceversa risaltandola la si rende tridimensionale e per questo simile ad una scultura. Negli studi ero interessato alla medicina, la biologia, la geologia, ho sempre disegnato ed inciso moltissimo, il legno per esempio, per me stesso. Durante gli anni dell’Accademia ho studiato dal Professor Melcher dal ’77, molti degli artisti più importanti prima di me erano passati da li e la Galleria Ariadne qui a Vienna era un punto d’incontro importante in quei giorni in cui l’arte concettuale cominciava a segnare il passo ed un’arte più legata ai sensi, alle emozioni, si sviluppava. Vienna era una città grigia, alla fine dell’Europa in una specie di strada senza uscita ma noi giovani sentivamo che si dovesse fare qualche cosa, cominciava a vedersi un movimento punk, personaggi come Falco.”

Nei primi anni, ancora giovanissimo Gunther Damisch suona, tra le altre cose, prima in un gruppo che si chiamava Keli Himbeer, una sorta di band jazz, per poi trovare un certo seguito e successo come bassista nei Molto Brutto tra il 1979 ed il 1983. La ricerca della forma passa all’inizio degli anni ’80 anche attraverso grandi cambiamenti nella scena artistica austriaca che risente degli influssi provenienti sia dal Neoespressionismo tedesco che dai Nuovi Selvaggi (Neue Wilde), così come dalla Transavanguardia italiana, tutte correnti che dall’inizio degli anni ’70 tendono ad un recupero dell’uso della figura portandola ad una posizione di forte connotazione emotiva.
Nelle parole di Peter Weibel, artista di spicco dell’Azionismo Viennese, la “scena” in quei giorni brulicava ed era feconda di nuove energie, gli artisti oltrepassavano in modo naturale i confini delle arti applicate per intraprendere un percorso verso forme espressive performative, di qualsiasi genere potessero essere. Il che per Gunther Damisch significò prendere il segno, il disegno e fonderlo con l’intarsio, l’acquaforte, creando forme e mondi.

“Eravamo però consapevoli che si stessero muovendo le cose, che i tempi fossero maturi, eravamo molto diretti e spontanei ma al tempo stesso non cerebrali, c’era intellettualità ma non cerebralismo, eravamo molto legati ai sensi ed alle emozioni. Allora avevamo una fortissima sensazione di essere un movimento, prima di noi c’era stato il Secessionismo e non volevamo deriderlo ma sapevamo fosse giunto il momento per qualcosa di nuovo, sentivamo che fosse una cosa terribile fare gli studenti volevamo essere Artisti e non studenti. Tutto era in movimento, in Italia, in Germania, ci si sentiva ovviamente appartenenti a questo paese ma anche parte di un tutto, si sapeva da dove si venisse ma anche in quale direzione andare. In quegli anni mi interessavo in qualsiasi cosa pur rimanendo principalmente legato al disegno e all’incisione. Le mie origini erano quelle: la manualità, un certo gesto creativo.”

Le tele, le sculture di Gunter Damisch hanno un aspetto descrittivo ma sono in primo luogo il terreno su cui avviene un processo: la materia sembra svilupparsi secondo delle proprie regole e vie del tutto indipendenti nel momento in cui viene disposta su di una superficie abitandola. Riesce difficile la messa a fuoco su queste opere, quadri o sculture (viste recentemente qui: http://www.zeitkunstnoe.at/de/st.-poelten/ausstellungen/gunter-damisch.-felder-welten-und-noch-weiter, Austria), poiché nel momento stesso in cui si percepisce il disegno generale come momento di accesso all’opera, ci si ritrova istantaneamente proiettati nelle trame che la compongono fino alle dimensioni più piccole. La stessa esperienza che si potrebbe avere osservando un paesaggio dall’alto ed improvvisamente precipitare fino alla grandezza di una particella elementare. Ci viene fornita la possibilità di sorvolare una terra dai toni vivaci in cui fluiscono masse di colore e materia ma, al tempo stesso, piacevolmente ricadere nelle sue viscere e penetrare con lo sguardo le maglie infinitamente piccole che le compongono. Sulle sculture sembra quasi che nascano, si generino tante piccole figure come germogli che dalla materia grezza di quel mondo fioriscano come nuove possibilità.

“Non c’è un particolare concetto o idea dietro ma solo la materia, io in realtà mi sento molto cosmico nel senso di sentire di dover vedere le cose nel loro insieme come un organismo, viviamo su un pianeta che si chiama Terra ovvero materia, lavorarla in maniera organica è la nostra missione qui, per me non c’è nulla di male nel voler dare sia con il lavoro del nostro intelletto che con la manipolazione una forma, anche attraverso il mescolare la tradizione con nuove realtà, non esiste arte senza materia e l’artista è l’elemento di connessione tra le due.”

Le opere di Gunter Damisch risvegliano e creano in noi l’idea di un percorso attraverso uno o più sentieri che possano dare l’impressione di girare su se stessi ma ad ogni rotazione ci si immerge ed approfondisce sempre più come individuo nella materia.

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Dario Lombardi nasce a Roma, si diploma all’Istituto Superiore di Fotografia. Vive e lavora a Vienna come freelance. Ha affrontato diversi generi nella sua professione, dalla fotografia di scena, teatro e danza, passando per la moda ed arrivando al ritratto. Si confronta negli ultimi lavori con la tematica dell’essere umano ed il suo rapporto con il contesto in cui vive. Nel 2008 espone “Hinsichtlich”, reportage sulla donna che veste il velo come scelta religiosa e come confine tra la sfera privata e pubblica. Nel 2009 pubblica insieme con Gianluca Amadei una serie di interviste e ritratti sulla scena professionale ed artistica dei designers in Polonia, dal titolo “Discovering Women in Polish Design”. Attualmente si occupa della mostra-installazione “Timensions” per il Singapore Art Museum 2012, una ricerca sul rapporto tra l’uomo e lo spazio/tempo.

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