Human Flag di Anna Witt. Della Connessione tra le persone

immagine per Anna Witt
Human Flag di Anna Witt

C’è un cuore che batte, lo si sente ancora prima di entrare nella Sala Espositiva del Quartiere 21, uno spazio separato ma vicino al complesso viennese del Belvedere, altrimenti famoso soprattutto per il Bacio: non quello tra Leonid Breznev e Erich Honecker, ma Klimt. Anna Witt è davanti a me mentre entro e mi avvicino, attraversa la mia mente il pensiero che possa essere il suo, quel cuore amplificato e diffuso nello spazio espositivo, come un corpo unico tra artista ed opera.

Tedesca di Wasserburg in Baviera, classe 1981, studi all’Accademia di Belle Arti di Monaco e Vienna, il suo lavoro indaga i temi della politica e della società ma con un occhio attento al pulsare sia del nostro cuore che del nostro respiro.

Un cuore che batte, dicevamo, amplificato, che scandisce corpi che ballano il cui partner consiste in una pertica fissata al soffitto. La Video Installazione si chiama “Beat Body” e raffigura danzatrici di Pole dance che si muovono sul ritmo cardiaco, sui battiti del cuore delle “Sex Workers” della Kurfürstenstrasse di Berlino.

Volevo fare un monumento ad una categoria di lavoratrici che altrimenti non vengono considerate molto spesso, le lavoratrici del sesso di una famosa strada a Berlino, ne ho quindi registrato i battiti del cuore sul ritmo dei quali ho fatto danzare altre ragazze che usano a loro volta il corpo come fonte di rendita, lavori diversi i cui confini son vicini tra loro, anche geograficamente, fianco a fianco su due lati della stessa strada.”

Il nostro battito cardiaco è assolutamente diverso uno dall’altro ma anonimo al tempo stesso, più che un battere ritmato come quello di una percussione assomiglia ad un paesaggio sonoro complesso con più ritmi sovrapposti, che delimitano la nostra esistenza.

Avevo lavorato anche in precedenza sul battito del cuore come elemento per dipingere un ritratto: è qualcosa di ambivalente, viene immaginato come un non-so-che di poetico ma in realtà ha una sua potente rudezza, inoltre si muove verso l’interno del corpo, d’altra parte viviamo in un mondo dove tutti si fanno dei selfies, ritratti fotografici non son più cosi rari ne speciali. Ho scelto il cuore anche perché volevo, all’interno della mia idea di un monumento che si muovesse sempre nell’ambito del corpo, instaurare un elemento di solidarietà tra i due gruppi di ragazze che fosse forte e molto fisico.”

In questo modo scivola il flusso del battito come un fiume sonoro mettendo in comunicazione i cuori con le danzatrici, le installazioni tra di loro e tutto quanto con noi spettatori.

“Avrei potuto chiedere a delle danzatrici classiche, per esempio, di ballare sulle note del battito cardiaco delle ragazze ma era per me importante che si restasse nell’ambito di una professione simile o comunque confinante.”

Le ragazze, in un primo tempo, non hanno ovviamente reagito tutte allo stesso modo, alcune hanno chiesto di essere pagate, oppure preteso che si dovesse frequentarle molto più a lungo per poterne parlare, descriverne la vita, ma nella maggior parte dei casi son state poi chiare nel voler sostenere la performance e schierarsi al suo fianco.

“Queste donne hanno una maniera molto diretta di porsi, una forza estrema nel loro modo di comunicare, sono molto sicure di se ed anche risolute, nel momento in cui le ho chiesto se volessero partecipare ho ricevuto una risposta decisamente positiva. Sono venute all’inaugurazione della mostra e si son mostrate al pubblico al fianco del progetto. È stato interessante vedere come reagissero all’essere, una volta mostrate in una galleria, sotto lo sguardo non più solo degli uomini in un contesto specifico ma di un pubblico molto più vario e diverso, venir di nuovo giudicate in qualche modo. La Galleria si trova nel loro stesso quartiere a pochi metri di distanza.

Il tema del monumento al lavoratore di ispirazione socialista e comunista nella sua retorica del gesto e dei mezzi o strumenti di lavoro viene da Anna Witt trasportato in un contesto assolutamente contemporaneo senza perderne in monumentalità ne descrittività, rendendolo al tempo stesso di grande forza empatica e solidale.

“Per me era chiaro sin dal principio, volevo fare un monumento a queste ragazze e nessun tipo di studio sociologico, loro hanno compreso molto bene di cosa si trattasse e lo hanno appoggiato facendone parte attivamente. L’individualità di ogni singolo battito ma anche il ritmo che richiama la vita, un cuore che batte, che ci riporti alla radice dell’esistere ed alla sua funzione primaria.”

L’artista ha progettato e sviluppato lei stessa la base, in realtà un subwoofer da cui si diffonde il beat del cuore, sulla quale si innesta la pertica dove si trovano tre grandi schermi di dimensioni diverse che offrono uno sguardo selettivo ai corpi delle danzatrici.

“Lo spazio in cui le ho racchiuse, i tre monitor, sono un modo per suddividere il corpo, come nel lavoro di uno scultore con la materia prima, vuole anche richiamare un certo modo voyeuristico, come per spiarle, visto l’effetto visivo di concentrarsi sui dettagli del corpo, dove può succedere regolarmente che nel muoversi escano dallo schermo sparendo dalla vista. Il Curatore Joshua Simon mi ha fatto notare come spesso nel linguaggio cinematografico quando si voglia parlare di sensualità si usino molti close-up ed inquadrature strette sui dettagli, le labbra, gli occhi o la pelle. Il suono del cuore, registrato, può ricordare in un certo modo un gesto di controllo, di monitoraggio, è stato invece bello vederlo diventare un elemento di connessione, un gesto di solidarietà tra “loro”, le ragazze, ma anche tra noi e loro.

“Ci sono differenze più o meno grandi tra queste giovani donne che lavorano “sulla strada” sia anche il caso in cui si trovino dietro delle vetrine, sia che si prostituiscano nel vero senso del termine oppure si lascino soltanto guardare, volevo stilarne un ritratto e per questo son andata avanti ed indietro col mio zainetto incontrando ovviamente reazioni di diverso tipo. Al principio mi son sentita molto osservata da chiunque ed ho avuto il timore di venir scambiata dai passanti per una di loro, l’ho trovato abbastanza sgradevole. Ma proprio questo son diventata poi, per la durata del progetto, ovvero una di loro, andavo e venivo ogni giorno ed è stato incredibile vedere come nel momento in cui si abbia un lavoro da svolgere diventi tutto improvvisamente facile ed autoreferenziale.”

Il pubblico potrebbe sembrare poco presente in tutto il processo ma, in realtà, costituisce una specie di presenza silenziosa, essendo il fruitore predestinato dell’attività delle ragazze ed in un secondo tempo del lavoro dell’artista, giustificazione ma non mezzo per definire che tutt’e due fortemente ed allo stesso modo fossero dipendenti dalla sua presenza.

Human Flag è una bandiera umana, ovvero consiste in una presa particolare da farsi sostenendosi contro un palo dove il corpo tenuto dalle braccia tese sia posizionato orizzontalmente rispetto alla base.

Nella seconda parte dell’Esposizione Anna Witt si confronta con la ridefinizione dello spazio urbano dell’Hauptbahnhof di Vienna dopo la ristrutturazione della vecchia Stazione ferroviaria Sud e di tutta l’area circostante con uffici e campus universitario con spazio di lavoro per 5000 persone e Hotels.

“Volevo dedicarmi al tema del lavoro e dello sviluppo di nuove aree urbane, come cambia il concetto di spazio lavorativo. Ho lavorato insieme a dei ragazzi che praticano Calisthenics un tipo di sport come il Parcour, cosiddetti Ghetto-Fitness, mettendo insieme elementi della ginnastica, fitness, acrobatica, lavoro con i pesi, l’idea di questa attività è di allontanarsi dai Fitness Studio, un po’ secondo il motto: il mondo è la mia palestra, per re-integrarsi con flessibilità nello spazio urbano mettendo in atto una specie di dialogo con lo spazio stesso, le infrastrutture e di conseguenza chi le abita.”

“L’idea era di analizzare le analogie tra work e work-out in termini di cultura contemporanea, dalla flessibilità lavorativa alla continua ricerca di una forma fisica.”

Si cominciò diversi anni fa con gli Open Spaces, spazi lavorativi dove venivano abbattute le barriere tra i singoli uffici, fino ad arrivare oggi ad una versione molto più open di quanto fossero quegli spazi allora, arrivando ad intenderne non solo il posto di lavoro ma tutto il tessuto urbano.

“E`come se nell’immaginarsi e progettare questi foyer delle banche e non esistendo più un vero centro città, in conseguenza della delocalizzazione delle strutture ed uffici pubblici, si fossero detti: ricreiamolo qui il centro di aggregazione.”

La flessibilità è anche diventato un concetto contemporaneo tout-court multidimensionale, il lavoro è flessibile, gli spazi lo sono, questa mancanza di barriere fa nascere delle domande su come venga gestito da un lato, interiorizzato dall’altro da parte dei fruitori.

“Il progetto vuole essere una metafora sulla fragilità e la mancanza di stabilità del mondo del lavoro e della società, l’apertura degli spazi porta alla percezione che neanche si stia lavorando nel momento in cui osserviamo.“

Tutto questo viene dall’artista trasportato su un piano di confrontazione tra il corpo degli atleti e le architetture degli spazi, dove i due diventano nella contemporaneità interscambiabili tra loro, mettendone in risalto la velocità di movimento ma anche la precarietà degli spazi.

C’è questa continua corsa in termini lavorativi all’ottimizzazione delle prestazioni che tocca anche il privato della forma fisica, diventata ora imprescindibile dalla nostra vita come un tutt’uno.”

Si tratta di un’Installazione video a cinque canali dove vengono presentati insieme frammenti di corpi degli atleti con elementi architettonici insieme con frammenti di quotidianità lavorativa, che ne presenta la propria fragilità o instabilità, in quanto senza più confini non sia più molto chiaro dove si lavori e quando.

“Nel mio lavoro ovviamente perseguo una mia linea ma cerco sempre di lasciare dello spazio aperto sia a chi chiedo di farne parte ma anche agli spettatori, mi piace aprire dei temi di discussione, delle porte da cui poter entrare e partecipare attivamente perché non esiste soltanto un punto di vista ma tanti.”

L’ultima Performance rappresentata si chiama Flexitime, del 2010 una Video Installazione a 3 canali, dove dei passanti vengono invitati a stare davanti ad una camera e fare il gesto del pugno alzato.

“E`il pugno dei lavoratori, gesto di libertà, ho invitato diverse persone che passavano a stare davanti alla telecamera e fare quel gesto ma non sapevano quanto a lungo lo dovessero fare o tenere, erano liberi di farlo per una manciata di minuti o più a lungo, questa insicurezza è percepibile nella mimica, visibile nelle espressioni del viso. Ognuno fa la stessa cosa ma assume a seconda di chi la faccia espressioni completamente diverse. Ovviamente nella lunghezza della performance si rafforza il gesto.”

La domanda nasce spontanea, quanto a lungo si possa tenere un gesto, un’idea, una posizione prima che cambi la mia presa di posizione?

Se si è parlato prima di solidarietà questo lavoro rappresenta un po‘ la variante perfida, se così si può dire, perché i protagonisti si trovano soli davanti alla camera ma verranno poi montati a fianco ad altri monitor con altre persone.”

“Sono affascinata da quelle definizioni che sembrano antitetiche per questo se si possa parlare di empatia nelle persone e se questa possa essere oggi un valore, ma non credo che possa bastare di per se, ci sarebbe in realtà bisogno di radicalità allora vorrei poter parlare di Empatia Radicale, in cui la radicalità sia un valore aggiunto di purezza.”

Info mostra

  • ANNA WITT -BANDIERA UMANA
  • a cura di Luisa Ziaja
  • 28 Febbraio – 27 Maggio 2018
  • Belvedere 21 – Museum für zeitgenössische Kunst
  • Arsenalstraße 1, 1030 Wien
  • T +43 1 795 57-0, M info@belvedere.at
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Dario Lombardi nasce a Roma, si diploma all’Istituto Superiore di Fotografia. Vive e lavora a Vienna come freelance. Ha affrontato diversi generi nella sua professione, dalla fotografia di scena, teatro e danza, passando per la moda ed arrivando al ritratto. Si confronta negli ultimi lavori con la tematica dell’essere umano ed il suo rapporto con il contesto in cui vive. Nel 2008 espone “Hinsichtlich”, reportage sulla donna che veste il velo come scelta religiosa e come confine tra la sfera privata e pubblica. Nel 2009 pubblica insieme con Gianluca Amadei una serie di interviste e ritratti sulla scena professionale ed artistica dei designers in Polonia, dal titolo “Discovering Women in Polish Design”. Attualmente si occupa della mostra-installazione “Timensions” per il Singapore Art Museum 2012, una ricerca sul rapporto tra l’uomo e lo spazio/tempo.

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