Geometrie di Esther Stocker

Foto Rudolf Strobl

“Immaginate un vasto foglio di carta su cui delle Linee Rette, dei Triangoli, dei Quadrati, dei Pentagoni, degli Esagoni e altre Figure geometriche, invece di restar ferme al lor posto, si muovano qua e là, liberamente, sulla superficie o dentro di essa, ma senza potersene sollevare e senza potervisi immergere, come delle ombre, insomma – consistenti, però, e dai contorni luminosi. Così facendo avrete un’idea abbastanza corretta del mio paese e dei miei compatrioti. Ahimè, ancora qualche anno fa avrei detto: «del mio universo», ma ora la mia mente si è aperta a una più alta visione delle cose.”  Cosi comincia il romanzo Flatlandia di Edwin Abbott Abbott, scritto nel 1884, vi si narra la storia di un mondo a due dimensioni, un po’ una metafora del tempo per la società vittoriana e le sue rigidezze, dove il protagonista vive, e della meraviglia di un incontro con un abitante di Spacelandia nonché la scoperta fantastica dell’esistenza di una terza dimensione. Non da meno deve essere stato il passaggio, cruciale, dalle griglie inventate, pensate, concepite e disegnate da Esther Stocker alla tridimensionalità delle sculture.

L’artista nasce a Silandro in Alto Adige, studia all’Accademia di Vienna, poi all’Accademia di Belle Arti di Brera ed al Center College of Design di Pasadena (California), racconta di essere sempre stata affascinata dalla manualità degli artisti così come dai loro Atelier, spazi in cui avviene una creazione, un processo vivo sui materiali; sono questi i luoghi dove Esther Stocker pone delle griglie, grafiche, mentali da cui può partire per creare delle unicità, delle alterazioni, delle irregolarità, degli strappi. Si tratta, nelle sue parole, degli spazi, in primo luogo, dove nasce il processo creativo e dell’eterno rapporto tra ordine e disordine, quello che osserviamo nelle sue prime Installazioni: una galleria dipinta di linee bianche che si incrociano su sfondo nero, dove solo con l’acclimatamento dell’occhio a quel duotonismo possiamo accorgerci di leggere vibrazioni, disturbi nella geometria dello spazio. Sarà questo continuo spostamento dell’ago della bilancia tra ordine e disordine ad attirare sin dal principio l’artista, un po’ come un miraggio lontano simile nella diffrazione ottica all’effetto delle sue pitture murali. Le linee apparentemente regolari sembrano ingannare i nostri sensi man mano che ci si avvicini svelando un sotterraneo mondo di irregolarità e variazioni. Trovo affascinante che le forme possano essere chiare ed al tempo stesso non chiare”, esattamente quello che traspare dai suoi paesaggi di linee dove una prima sensazione di ordinata geometria viene ripresa da un calmo caos esistenziale sottostante. Infatti come lei stessa aggiunge: anche la griglia di una città non è detto che sia di chiara lettura, vi si può perdere l’orientamento… così nel mio lavoro: dove inizia la complessità della griglia?  dove comincia la complessità degli elementi basilari della griglia e dove si possa cominciare a collocarli? Quando ho cominciato pensavo che l’uso di coordinate geometriche avrebbe reso il mio lavoro più semplice, più facile da leggere ma non è così… la scoperta fu che la semplicità è complessità e viceversa.” 

Usare la geometria significa mettere un ordine precostituito a disposizione del caos o disordine per dare una struttura su cui poter poi approfondire la ricerca nelle sue variazioni. Si avverte, comunque, anche un bisogno di superare i confini e guardare dietro le quinte delle forme; vedendole vien da pensare a Stephen Hawking, come deve essersi sentito quando è riuscito a farsi un’idea, un’immagine, per lo più matematica, di cosa ci fosse dietro i confini di un buco nero (orizzonte degli eventi).

“Per me la superficie è tutto, è complessità; ho, mi do, una griglia su cui sposto gli oggetti, alla ricerca di un’estetica controllata, variando le linee anche per cercare di distruggere quella regolarità, per creare delle variazioni…” La astrazione possibile attraverso la geometria ed al tempo stesso mantenere aperta la fantasia per potersi sempre immergere nella profondità e diversità dei contenuti, un altro degli apparenti bipolarismi di Esther Stocker. Il problema di una griglia e della sua possibile interruzione era già stato tematizzato da Ludimar Hermann nel 1870, conosciuta come la griglia di Hermann è l’effetto ottico di percepire delle zone grigie nell’intersezione tra gli elementi della griglia bianca su sfondo nero. Tutto il lavoro di Stocker si muove, affronta ed approfondisce la relazione tra elementi regolari di una griglia e loro interruzione o disturbo. La superficie è data, viene alterata, osservata e finisce per rifondersi con se stessa nel risultato finale. Nelle sue opere è sempre viva la sensazione, il tentativo di descrivere una realtà con gli elementi propri del suo opposto, spiegare il linguaggio A con la sintassi del linguaggio B quindi l’ordine con il disordine. Tutto inizia con una geometria pura limitata a due toni, viene manipolata, usata, costruita e decostruita, lentamente, rafforzata, indebolita, allungata e ristretta: il dettaglio ne è il protagonista soltanto per riuscire a tenerci nascosto fino alla fine quello che veramente conta, l’insieme, il tutto, la visione unica e totale.

“Ho cominciato come pittrice, è la mia formazione, ed in quanto tale lavoravo sulle due dimensioni della tela, poi spesso, però, chi osservava le mie opere mi parlava di spazio.”

Le sculture arrivano come una evoluzione delle coordinate cartesiane bidimensionali, l’artista lentamente si erge al di sopra degli spazi creati finora, dei quali riusciva però a manipolarne soltanto le pareti, siano queste muri o pavimenti e soffitti, per arrivare a vederle nel loro insieme e renderle tridimensionali, ecco creati gli oggetti dove rimane immutata l’estetica, semplificata nella forma, di un apparente foglio di carta gettato via.  “Spesso nella ricerca di un’estetica le linee, le forme non fanno quello che voglio allora può succedere di buttarle via, per poi accorgersi spesso, tra gli artisti, che la cosa appena scartata sia migliore di quella che si ha sul tavolo, tutto ciò scatena la mia immaginazione ma anche l’ironia di dare corpo a delle forme rigettate. Questo atto incontrollato della mano, gettare via, che poi si tramuta nel gesto controllato di farla diventare una scultura, un’opera, che nasce da una rottura e torna ad esserlo ma sublimata nella scultura. Il tutto, un processo, vederlo scorrere sotto gli occhi, è il tema affascinante per me. Un’estetica incontrollata che diventa controllata e viceversa. Da qui nasce il paradosso, avevo una struttura ordinata oppure disordinata, continui, la riprendi e vai avanti in una direzione per ritrovarti ad un tratto nell’altra. Questo è stato il processo da cui son nate le sculture ovvero la rottura della superficie.”

L’arte di Esther Stocker dimostra come un sistema logico possa assumere un ruolo estetico e come questo renda veri protagonisti soltanto gli “errori” o eccezioni al sistema. Se si guarda ad una sua pittura murale si viene affascinati lentamente da quei punti dove si spezza una linea o si interrompe una curva o si sposta un piano ovvero li dove la “tranquilla” opera delle forme portanti venga interrotta. L’artista parla spesso di un rumore visivo intendendo con questo come il disturbo di un fruscio lungo una superficie omogenea.

“Questo tra l’ordine ed il disordine è un rapporto molto sottile perché ad esempio se entri in una stanza completamente vuota, dove dovresti trovare l’ordine assoluto, ne potresti rimanere profondamente disorientato.”

Due momenti sono costitutivi del suo lavoro: l’adattamento dell’installazione allo spazio dato, il quale avviene in loco manualmente da parte dell’artista che si occuperà di ogni segmento e sua interruzione, ed il riempire quello spazio con i visitatori, che andranno ad aggiungere un ulteriore piano di interazione e lettura. “Io sono un’esteta e l’atto estetico è fondamentale per me, creo una struttura e poi guardo cosa succede, è come se dicessi al pubblico: si può fare qui, interrompere una regolarità, un sistema, una struttura per motivi estetici.”.

Tutto il lavoro fin qui visto sia nelle installazioni che negli oggetti mette in primo piano l’importanza riposta dall’artista nella libertà di scelta possibile, dove poter interrompere le strutture date od anche trattenersi dal farlo, o meglio detto: “quanti gradi di libertà sono necessari per raggiungere il risultato che ci si è preposti?”

“Io non posso cambiare le forme, è come un gioco intellettuale posso solo giocarci e guardare poi cosa succede, alcune volte ottengo quello che voglio altre volte no e si forma quel processo che è alla base del mio lavoro.”

Info mostra

  • Geometrie di Esther Stocker
  • Come lasciarsi andare alle forme.
  • Ambasciata d’Italia a Vienna – Palazzo Metternich
  • Una mostra curata e prodotta da Marcello Farabegoli Projects
  • 31 Marzo- 30 Giugno 2016

 

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Dario Lombardi nasce a Roma, si diploma all’Istituto Superiore di Fotografia. Vive e lavora a Vienna come freelance. Ha affrontato diversi generi nella sua professione, dalla fotografia di scena, teatro e danza, passando per la moda ed arrivando al ritratto. Si confronta negli ultimi lavori con la tematica dell’essere umano ed il suo rapporto con il contesto in cui vive. Nel 2008 espone “Hinsichtlich”, reportage sulla donna che veste il velo come scelta religiosa e come confine tra la sfera privata e pubblica. Nel 2009 pubblica insieme con Gianluca Amadei una serie di interviste e ritratti sulla scena professionale ed artistica dei designers in Polonia, dal titolo “Discovering Women in Polish Design”. Attualmente si occupa della mostra-installazione “Timensions” per il Singapore Art Museum 2012, una ricerca sul rapporto tra l’uomo e lo spazio/tempo.

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