Leila Seyedzadeh. Tessere in connesione. Report mostra, una poesia e intervista con l’artista

La galleria viennese Peter Gaugy ha recentemente presentato Paesaggi immaginari e le creature che li abitano, mostra bipersonale con le opere dell’artista iraniana Leila Seyedzadeh (vive e lavora a New York) e di Marlene Bart (vive e lavora a Berlino).

Nonostante la ricerca differente di due artiste il curatore-gallerista indica come entrambe partono dalla ricerca e la raccolta di materiali per elaborare il loro lavoro.

Marlene Bart utilizza diversi mezzi e la forma delle sue opere varia dalla produzione di libri, alla stampa, alla tassidermia, alla scultura in vetro e perfino alla realtà virtuale. Il suo lavoro è una lunga ricerca sulle immagini enciclopediche.

Tramite queste, sfida la nostra percezione dei fenomeni naturali. Esamina le origini visive dell’ordinamento gerarchico e con metodi sofisticati di montaggio e stampa, crea le nuove forme dentro questi spazi modificandoli.

Leila Seyedzadeh (1986), invece, adotta un linguaggio poetico nonché semiotico, con tanti riferimenti concettuali uniti a sottili e dettagliati elementi visivi.

Nata a Teheran, dal 2017 vive a New York; laureata in pittura all’università di Teheran (nel 2014), ha ricevuto il suo master of art alla Yale University School of Art (2019) ed oggi insegna al prestigioso Pratt Institute.  Abbiamo avuto l’occasione di parlare con lei per la sua prima mostra in Europa.

Helia Hamedani: Tu nasci come pittrice e negli ultimi anni dipingi con i tessuti, tingi le tue superfici e tracci poi le linee cucite e fai collage curiosi con le stoffe diverse. Da quando e perché hai scelto questo mezzo?

Leila Seyedzadeh: È dal 2015 che ho fatto questa scelta. Se voglio essere super sincera devo tornare ai ricordi dell’infanzia e mia madre indubbiamente è stata il motore di questa grande esperienza.

A casa nostra c’erano sempre tanti tessuti; tende, materassi, lenzuola ma anche diversi Ciador Namaz (il velo per la preghiera) di mamma. Con mio fratello snodavamo le diverse Ciador floreali di mamma e costruivamo tende che coprivano tutta la stanza, era una grande gioia avere il soffitto floreale e sdraiarsi sui tappeti.

Inoltre, ricordo come mamma spesso mettesse a bagno le tende in tintura indaco per farle diventare limpide poi le appendeva al vento. Così come ci rinnovava i vestiti colorandoli, spesso avevamo anche parenti che venivano da Tabriz [1], la città dei miei genitori, e per loro spesso c’era molta biancheria, in giro per casa.

Poi quando sono entrata nel mondo dell’arte, studiavo e cercavo gli artisti per ispirarmi, vedere le opere di Sam Giliam  (1933 – 2022) e Rosemary Meyer (1943-2014) sui social media mi ha lasciato forti impressioni. Dopodiché, ho fatto la mia prima installazione con le vecchie stoffe dei divani, tende vecchie proprio con l’aiuto di mamma che mi ha insegnato come tingere, cucire e riparare.

Ho fatto la mia prima installazione dentro casa, con gli scarti di tessuti che sempre giravano per casa e la mia prima assistente era proprio mia madre.

Ci tengo a dire come il quotidiano saper fare di una tipica casalinga come mia madre, mai retribuita per il suo lavoro, è geniale e allo stesso tempo pesante perché non ricevere mai nessun complimento per questo suo lavoro di riciclo.

H.H: Sei influenzata anche dalle miniature persiane detti Negargari; crei dei paesaggi onirici con i tessuti… Ci racconti come funzionano questi lavori che creano veri e propri spazi alternativi?

L.S: È vero, immagino un paesaggio, spesso con le montagne in fondo [2] che vedevo sempre a Teheran; ma quando sono arrivata a New York, questi non c’erano più nel mio panorama. Qui il cielo sembrava più grande; di recente ho curato una mostra proprio con questo titolo: The sky is higher here (alla Transmitter galley a N.Y.). Poi, guardo la miniatura per tanti motivi: per i colori, i tessuti, ho scelto proprio lo Ciador per la sua decorazione floreale, certosina, che va oltre la religione, perché è piuttosto un codice culturale.

Inoltre, adoro la non-prospettiva dei Negargari che non seguono il punto di fuga rinascimentale. La visione è verticalizzata, a volte la visione è dall’alto (a volo di uccello) come se l’osservatore fosse un uccello.

In alcune opere installazioni, mettevo sotto dei tappeti le forme delle montagne, altre volte le montagne sono sospese, oppure in tapestry piatti, i fiumi e gli elementi che dividono lo spazio sono in verticale. Vediamo la terra da sopra anche quando l’inquadratura dell’opera è in verticale perché il paesaggio non è un’inquadratura ferma, è estesa.

Vediamo tante inquadrature delle diverse montagne in un quadro, questa può essere un modo di raccontare per narrare una storia. Ovviamente una parte è la mia storia del viaggio.

È da un po’ che l’unica cosa che posso toccare della mia famiglia (dal mio paese in senso più esteso) sono oggetti e pacchi postali che arrivano dall’Iran.

Pacchi di tessuti che dopo, qui nello studio di NY, elaboro. In una delle opere nella mostra a Vienna, per esempio, ho intrecciato dentro il paesaggio anche una ricevuta della posta con le scritte di mio fratello sul pacco.

H.H: Le tue opere bidimensionali, sempre con la stoffa, che tu chiami piuttosto pittoriche, sono pieghevoli e visibili anche dal retro: ci indichi come dobbiamo osservarle?

L.S: È vero, anche Peter della galleria mi diceva queste opere assomigliano più alla scultura che alla pittura. Sul retro delle opere sono visibili le tracce delle cuciture dei tessuti, a volte cerco di cucire delle linee; quindi, anche quella dal retro può essere un’ulteriore lettura formale.

Mi piace l’allestimento che ne deriva, ad esempio dentro la galleria Peter Gaugy dove le opere sono state allestite distanziate dal muro, quindi visibili dai due lati.

Sono passata dall’installazione tridimensionale a quella bidimensionale, ovvero la superfice pittorica, per mancanza di spazio. Questo passaggio nato da un’esigenza reale mi ha dato anche possibilità di pensare altre dimensioni dello spazio sensibile, aggiungendo più dettagli con stoffe preziose o piccole segni tramite le linee cucite.

La migrazione mi ha fatto molto effetto sulla percezione del paesaggio, l’assenza della montagna nel mio quotidiano e altrettanto la mia assenza in quel panorama, mentre il cielo si stava allargando.

A questo proposito, ti voglio leggere una mia poesia. Ho già scritto poesie per New Heavon a proposito del cielo; in Messico ho scritto una poesia sulla gravità e quella che ti leggo è a proposito di un fiume a New York, vicino al mio studio, e che divide Manhattan da Brooklyn e dove, sopra, ci sono tanti ponti; si chiama East River (il fiume dell’est) collegato all’oceano Atlantico del nord:

“Il sole sorge dove tu nasci,
Scorri e separi due parti,
I ponti uniscono le tue rive
Le navi rovesciano
le tue onde
e ti tuffi nell’oceano Atlantico del nord
Giorni dopo,
là lontano,
arrivi a casa
lì, dove altri fiumi riversano le loro lacrime della loro solitudine
scivoli fra le montagne di Alborz ,
e quando arrivi a Teheran,
sei diventato pioggia
mamma è alla finestra che guarda la pioggia
Se anch’io potessi fluire con le tue acque,
Ah, fiume dell’est.”

H.H: Prima di accomiatarci ti chiedo che programmi hai per il prossimo futuro…

L.S: Vorrei fare più installazioni all’aperto, mi piace l’effetto surreale e sorprendente di una montagna rosa che spunta fuori nel verde del bosco o dentro la città. Anche soprattutto dopo il Covid 19 vorrei sempre di più interagire con New York, con il fuori, e scoprire cosa posso fare con la città intorno a me.

Altre info: www.leilaseyedzadeh.com/

 

La traduzione della poesia in italiano è di Helia Hamedani

Note

1.  Tabriz (persiano: تبریز; azero: Təbriz) è la più grande città dell’Iran nord-occidentale. È il capoluogo dell’Azerbaigian Orientale e dello shahrestān di Tabriz.

2.  Gli Elburz (in persiano البرز), anche chiamati Alburz o Alborz, sono una catena montuosa nell’Iran settentrionale che si estende dall’Azerbaigian, appena a sud del Caucaso, ai confini dell’Iran con Turkmenistan e Afghanistan.

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Helia Hamedani è storica dell’arte e curatrice indipendente, vive e lavora tra Italia e Iran. È laureata in Disegno Industriale in Iran e in Italia con laurea triennale e specialistica in storia dell'arte contemporanea all’Università della Sapienza di Roma. Oggi è impegnata nella ricerca per il dottorato allo stesso ateneo sulla storia dell'arte iraniana degli ultimi 60 anni. Helia Hamedani scrive per riviste d’arte in Italia ed in Iran. Come curatrice indipendente è da sempre particolarmente attenta all’interculturalità che manifesta curando la mostra Artisti Nomadi in Città d’Arte, nel 2013 presso il Factory al museo Macro di Testaccio, nella rassegna sul concetto di “casa” presso la galleria Nube di OOrt di Roma con tre appuntamenti annuali dal 2014 al 2017, nonché al MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz nel 2014 e al Daarbast Platform di Teheran nel 2017. Ha partecipato al primo progetto di mediazione in chiave interculturale del museo MAXXI dedicato alla mostra Unedited History nel 2014 e nel 2018 al laboratorio formativo e di progettazione partecipata sul tema del dialogo interculturale, progetto Artclicks, organizzato dal museo MAXXI e da ECCOM. È stata la curatrice della prima residenza di BridgeArt, e dal 2017 è nella commisione di giuria della residenza. Nel 2018 in collaborazione con Bridge Art ha co-curato il progetto “Bordercrossing” presente agli eventi collaterali della Biennale Manifesta12 a Palermo. Oggi partecipa alla co-curatela del progetto “Guardo in alto. Atelier di pratiche interculturali”, che nasce come progetto interculturale, e ora si è sviluppato diventando un progetto di inclusione e formazione nelle scuole italiane.

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