L’inarrestabile vita dei Teatri di Pietra raccontata da Aurelio Gatti fra bellezza e fatica.

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Da oltre vent’anni direttore artistico della straordinaria rete dei Teatri di Pietra, uno (o forse l’unico) dei più importanti e sfaccettati progetti di valorizzazione dei teatri antichi, Aurelio Gatti coreografo che da sempre lavora con la visionarietà e con la necessità della colletività, della molteplicità, della ricerca, racconta ad art a part of cult(ure) storia e aneddoti della sua rassegna, ma anche bellezza e vizi del sistema culturale italiano.

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Quando e perché è nata l’idea di fare un festival nei siti archeologici e come si è evoluta in questi anni?

L’idea è nata quasi vent’anni fa, nel 99 quando, dovendo fare uno spettacolo nella città di Santa Maria Capua Vetere, improvvisamente ci trovammo con il palcoscenico montato nel mezzo di una strada. Dietro c’erano un tabaccaio, una pizzeria e soprattutto delle insegne veramente luminose, per cui dicemmo: scusate, ma non è possibile trovare un altro luogo? La risposta fu: non ci sono altri luoghi, anche se alle nostre spalle vedevamo  questo parco abbandonato, perché chiuso.

Era l’anfiteatro campano di Santa Maria Capua Vetere. Il secondo, per grandezza, del Mediterraneo. Più piccolo del Colosseo di soli 2 metri. Di assoluta importanza, perché fu lì che nacque la rivolta di Spartacus…

Nell’anfiteatro campano nacque così la prima edizione di Teatri di Pietra. Doveva essere un solo evento, ma il sovrintendente di allora, il professor De Caro, volle mostrarci anche gli altri teatri.

Sotto il profilo culturale, devo dire, che quello era un periodo molto più felice di ora, perché i sovrintendenti volevano legittimare i loro interventi e quindi, improvvisamente, a soli 3 km dalla Reggia di Caserta – che è uno dei siti che raccoglie un maggior numero di visitatori e spettatori –  scoprimmo, oltre all’Anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere anche quelli di Teano e Alife e poi Maddaloni e Calvi Risorta, fino ad arrivare al sud del Lazio dove trovammo Sessa Aurunca.

Un po’ come nell’Ottocento, la via Emilia a partire da Bologna venne punteggiata, ogni circa 30 Km di teatri storici all’italiana, così è stato per l’antica via Appia. Tutto il comprensorio della Capua Vetere è un giacimento straordinario, rimasto dormiente per tanto tempo.

Dal 2000 al 2003 abbiamo lavorato solo in per aprire questi siti e nel 2003 è nata anche la prima edizione del Lazio, a Malborghetto.

Poi nel 2004 si è aggiunta Volterra in Toscana e, dal 2005 la Sicilia. Ci sono stati anche dei passaggi in Puglia per due anni e in Basilicata nel 2004 con tre siti.

La Sicilia ha iniziato con tre siti: Selinunte, Morgantina e Caltanissetta, ma nel 2013 ne contava 16, tutti accomunati da un’unica sorte: essere marginali e minori.

Perché proprio il teatro per ridare vita ai luoghi antichi?

Perché il teatro, la danza e la musica quando abbiamo iniziato, ma anche oggi, creano una controtendenza forte. Tutto quello che noi chiamiamo promozione o valorizzazione, in effetti non è che ciarpame: come si fa a chiamare valorizzazione, il trascinare le ciabatte sopra un sito archeologico?

L’unica valorizzazione, noi abbiamo sempre ritenuto che potesse avvenire solo con la permanenza nel sito degli artisti e con quella del pubblico che si fa comunità, perché per un’ora, un’ora e mezza deve rimanere silenzioso. C’è poco da fare: ascolta l’opera, anche se la peggiore, e sta nel posto di un tempo “altro” e questa condizione, che è veramente spazio temporale, a mio avviso crea un’opportunità.

Quell’opportunità – da molti ricercata – di un tempo aumentato perché, sia che si tratti di un sito importante o meno importante, comunque è una vestigia storica e come nel caso di Malborghetto, una vestigia in cui addirittura si leggono tutti gli strati successivi: da arco di trionfo a posto di guardia, da cambio di cavalli a sede dello Speziale. Partiamo dal 2100 a.C. e arriviamo, improvvisamente, nel 2023 e tutti questi segni, queste umanità stanno a solo 23 km da Roma, sulla via Flaminia.

Il teatro può questo. Il teatro può veramente, indipendentemente dall’opera che presenta, restituire quella libertà che non è la bolla di tempo come quando vai in vacanza, ma libertà dello spazio scelto: tu vai a vedere uno spettacolo meglio, se un buono spettacolo e improvvisamente devi stare là. Questo è sempre più difficile in un mondo che ha impiantato tutto sul consumo per cui si preferisce avere mille visitatori che entrano in un’ora in un monumento, piuttosto che mille visitatori che riempiono per troppo tempo lo spazio.

I teatri antichi, in Italia, sono oltre 412, tutti edifici riattivabili nel contemporaneo.
Quale opportunità sarebbe, in Europa, visto che il modello del teatro greco si estende fino all’altra parte del Mediterraneo e quello romano arriva fino alla Manica?
Perché non si investe in questo? E non capita solo ai siti archeologici, ma anche a tanti altri luoghi perché praticamente i gestori di questi patrimoni e preferiscono essere degli affittacamere.
Per loro quel patrimonio non è una cosa in divenire, ma solo un immobile, un terreno, un’area da affittare.

Quella di quest’anno è la 21esima edizione. Teatri di Pietra non si è fermato neanche durante la pandemia. Hai un segreto per riuscire a mantenere nel tempo una programmazione raffinata e non commerciale?

Poco commerciale o molto commerciale non sono definizioni reali, la verità è un’altra: esiste solo un’offerta emersa e una grandissima offerta non emersa in entrambi i campi ci possono essere degli ottimi spettacoli e dei brutti spettacoli.

Quel che non si vuole capire è che non si tratta di un problema di quantità di spettacoli, ma di trovare sempre il paradigma esatto. Il paradigma per i Teatri di Pietra è io esisto laddove c’è qualcuno che vuole che io esista.

Meglio se questo fosse un’amministrazione, meglio ancora qualcuno disponibile a dare due lire, ma alcune volte noi lavoriamo in siti in cui la legittimità dell’intervento discende, come a Malborghetto, soltanto dalla volontà di un’Associazione locale che dice: noi non vogliamo essere isolati da Roma, noi vogliamo avere questo.

Oppure nasce per tante altre incognite o necessità. In verità non facciamo altro che ripetere il paradigma più antico del mondo: il teatro esiste laddove c’è lo spettatore.

Per Teatri di Pietra non c’è una formula magica, ma una rete di soggetti con le peculiarità di ciascun soggetto. Un Teatro di Pietra si può insediare dove c’è chi ama il proprio territorio e vuole che il proprio sito abbia una riconoscibilità.

In ogni caso un Teatro di Pietra, non offrirà mai una sola replica. Dall’inizio ci siamo posti l’obiettivo che il minimo di programmazione dovesse essere di tre spettacoli: una tragedia, una commedia, un genere altro.

Un paradigma molto semplice, perché tu non hai la conoscenza del pubblico, ma dai comunque tre possibilità di aderire. E anche tre possibilità di offrire panorami sempre rinnovati, cosa che, oltretutto, non è facile.

Poi un altra questione è quella legata al fatto che i governi cambiano, le amministrazioni cambiano. Per fortuna i siti archeologici e monumentali non cambiano e in questo c’è una proprietà di perseveranza prima che in noi, nel patrimonio stesso. Patrimonio che però deve, deve dovrebbe essere considerato in quanto tale, non in quanto appunto un locale da occupare.

Il dialogo con le istituzioni che sovrintendono ai siti archeologici è collaborativo?
Quali sono le difficoltà burocratiche con le quali ti scontri più spesso?

Con le Istituzioni nessun rapporto, l’entità pubblica è un’entità assente. Forse persegue solo ed esclusivamente – laddove li persegue – gli scopi istituzionali che dovrebbero essere quelli di catalogazione, mantenimento, salvaguardia e studio, ma non ha alcuna intenzione di farsi partecipe o parte in causa del problema vero, grave che quello del patrimonio.

Questo, infatti, è tutto patrimonio che non ha sviluppo sostenibile, perché loro ritengono che il patrimonio debba essere un qualche cosa che tesaurizza. Sono suggestionati dagli esempi londinesi o newyorkesi, senza tener conto che per ottenere quei rendimenti le istituzioni pubbliche o private, in questi paesi fanno cose da pazzi, creano delle alleanze strategiche, pubblico privato veramente in grado, di suggerire nuove prospettive.

Noi abbiamo sovrintendenze con interpretazioni della stessa legge completamente distanti l’una dall’altra; abbiamo le regioni con autonomie speciali, che legiferano a volte contrariamente alla legislazione nazionale.

Tutto quello che avviene è ancora oggi eventistico: c’è il sindaco o l’assessore o il privato che decidono di spendere una certa cifra per un progetto. In quel caso, allora, si fa l’evento, magari adottando tecniche fotocopia prendendo a esempio delle realtà recenti che però sono prive di storia e quindi di architettura; inoltre nessuno ha intenzione di porsi il problema di replicarlo, farlo avvenire anche domani. Così l’evento si conclude con sé stesso.

Ultimamente nel circuito sono stati inseriti anche dei musei. Come si inserisce nel contesto questa novità?

Dico la verità, è anche più disastroso, perché fondamentalmente i musei veramente vivono una vita grama.

Abbiamo fatto un’attività in uno dei musei che ha un Teatro di Pietra, un sito dove noi abbiamo operato dal 2003 al 2017, non cito il museo perché ritengo che non siano loro i colpevoli, bene, questo museo ha talmente tanta polvere sopra le teche che non si riesce a fotografare perché si vede solo un alone bianco…

In verità i siti non hanno nessuna volontà o nessuna indicazione di rendersi disponibili ad “usi altri”. Loro ritengono che fare teatro o spettacolo dal vivo sia un uso altro e quando finalmente si trovano siti che offrono un’ospitalità ricorrente, trovi anche una sorta di approssimazione, oppure la volontà di fare qualcosa di visibile piuttosto che qualcosa di istituzionale.

I teatri sono diventate la sede della kermesse e questo, tecnicamente, esclude, tutto il resto perché crea un confronto tra gli spettacoli cosiddetti “di nicchia” e quelli considerati “veri” perché fanno venire il pubblico. Ma non è questa divisione il problema: il fatto è che stai creando una cultura bruttissima basata su tutto ciò che consuma

Nessuno si rifà alla grande tradizione mediterranea. Nessuno tiene conto della Carta di Segesta, della Carta di Siracusa, dove sono state scritte regole fondamentali e dove si affronta anche l’impatto antropico come quello di Siracusa dove, tra 10 anni non avremo più una gradinata, ma resterà semplicemente uno scivolo.

Come scegli gli spettacoli per i vari cartelloni? Sembrano essere diversificati anche rispetto al luogo, essere pensati su misura del luogo. La scelta delle degli spettacoli è fatta anche su questo?

Soprattutto su questo, ma non perché sono tutti spettacoli a tema classico, ma perché alcuni luoghi hanno delle vocazioni. Questa è la questione della assenza di identità culturale, che non vuole dire essere italiani, ma piuttosto capire esattamente che, sia che tu lo voglia, sia che non lo voglia, questo è un patrimonio che si dipana da solo su delle contaminazioni incredibili, mostruose che oggi non ci sono più e quindi su una perdita di identità che farà naufragare anche tutti questi escamotage multimediali per cui sembra che il problema di valorizzazione si possa risolvere spendendo dai 2 ai 300.000 € per fare un impianto multimediale.

Tutto questo è sottrazione dell’esperienziale, il teatro, il bello brutto… Ma l’attore sbaglia se sbaglia davanti, l’attore è bravo se è bravo davanti e il danzatore suda se suda davanti.

Questo trasferisce esperienza, la stessa esperienza che ti dà il luogo, nel preciso momento che tu svuoti il luogo lo rendi sempre di più un artificio. Automaticamente crei del presupposto di una globalizzazione del sentimento e dell’apprendimento.

Delle drammaturgie inedite messe in scena per Opera Prima qualcuna è diventata uno spettacolo?

Sì, mi viene in mente quella di Luisa Stagni Dimmi Tiresia che partecipò alcuni anni fa e poi ha fatto una trentina di recite, prodotta in due versioni. Quindi qualche cosa sortisce, la verità è che la produzione è quasi sempre e autoreferenziata, cioè si produce perché voglio mettere in scena il mio testo, il mio corpo se si è un danzatore o la mia voce se si è un attore e questo è un vizio che non possiamo risolvere nel breve.

Ma fra tutte queste difficoltà quali sono le cose positive, le cose buone?

Di buono c’è che posso contare 13 situazioni, nate e motivate dal fatto di aver creato i Teatri di Pietra, che dopo 3 o 4 anni ancora vivono e non sono soggetti ministeriali. Questo è positivo. Positivo sicuramente è che finalmente si sta facendo capire alla gente che alcune opere nascono per avere come tetto un cielo di stelle e altre nascono per avere una cortina di velluto, quando ancora funziona che vai a Siracusa e, nonostante l’importanza del regista, vedi che lo spettacolo gli attori, il regista, le luci per un palcoscenico di 40 metri sono perimetrati sulla sala prove 10 per 10.

In quel teatro, invece, il teatro si faceva per essere il teatro della Comunità era un genere che legittimava sé stesso.
Quando dico questo non ce l’ho con qualcuno in particolare, ma semplicemente con il fatto che questa modalità cancella e dichiara secondario e marginale tutto il resto.

E di bello, comunque e non ultimo è l’incontro con gente completamente diversa oppure finora distante.
Immagina questo moltiplicato. I Teatri di Pietra che quest’anno non fa più di 110 spettacoli, ha ben quarantadue titoli. Quarantadue produzioni.

Vuole dire che hai l’opportunità di mostrare tante cose e realizzarle indipendentemente dalle strategie.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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