Virtuale. Uno sterminato spazio di possibilità

virtuale Mistka's Second LifePer introdurre il discorso estetico sul concetto di virtuale, credo sia bene sfruttare un interessante paragone proposto da Lev Manovich nel suo interessantissimo Il linguaggio dei nuovi media. Manovich racconta dell’effetto sullo spettatore che ebbe la novità rinascimentale del dipinto incorniciato, ovvero su un supporto mobile ancorato alla parete e non più prodotto e fissato, come l’affresco o il mosaico, direttamente sull’architettura ospitante. In quest’ultimo caso la fissità della rappresentazione permetteva all’artista di unire spazio virtuale -rappresentato- e spazio fisico: lo spettatore può muoversi all’interno di una architettura che è anche la rappresentazione. Si tratta di una simulazione, in cui il confine tra spazio fisico e spazio virtuale viene tendenzialmente annullato. Il contrario accade nel caso del dipinto incorniciato, separabile dal luogo nel quale viene mostrato: lo spazio rappresentato, virtuale, è nettamente e visibilmente separato dallo spazio fisico, e prescrive che lo spettatore sia immobile, a guardare il dipinto (trasportabile, traslocabile) di fronte a esso.

Ebbene, la realtà virtuale rappresentata dai dispositivi digitali continua la tradizione dell’affresco e del mosaico, perché tende a mescolare lo spazio fisico con quello rappresentato, grazie ad apparecchi che catturano le capacità percettive dello spettatore (schermi 3D, data gloves, maschere, caschi…). Il quale anche se fisicamente immobile è libero di percorrere la rappresentazione, senza che per lui sia reso obbligatorio un punto di vista.

Questo nuovo sterminato spazio di possibilità è ovviamente riempibile con cose già viste e già esperite, come è stato fatto. Però è anche possibile, per il virtuale, avere una sua estetica peculiare, che sfrutta la vicinanza con l’esperienza onirica (pervasività, assenza di volontà, presenza emozionalmente intensa) aggiungendo alla simulazione alcune caratteristiche della rappresentazione.

In questo peculire intreccio sta la sua caratteristica. Quando leggiamo una definizione di virtuale, il paradosso in agguato si mette in movimento. Treccani dice che virtuale è «detto di cosa o attività frutto di un’elaborazione informatica che pur seguendo modelli realistici non riproduce però una situazione reale». Già, ma in che senso reale? Ciò che si prova nell’esperienza virtuale non è forse altrettanto reale di ciò che si prova nel mondo analogico? Su questo interrogativo una facile cinematografia s’è già sbizzarrita.

Per fortuna anche numerosi artisti si divertono molto con questo nuovo spazio di possibilità. Un esempio di Olia Lialina è il suo divertente Summer, nel quale venticinque server ospitano un fotogramma, e il collegamento continuo tra loro fa apparire l’animazione sul nostro schermo. Ma quindi quest’animazione dove è? In nessun luogo, tecnicamente l’animazione non c’è: c’è, come nel cinema tradizionale, la rapida sequenza di immagini fisse che crea l’illusione del movimento. Quella che è scomparsa è la pellicola, che non è neanche sostituita da un file. Più virtuale di così.

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Lorenzo Gasparrini Dottore di ricerca in Estetica, dopo anni di attività universitaria a Roma, Ascoli, Narni in filosofia, scienze della formazione, informatica, ora è editor per un editore scientifico internazionale. Attivista antisessista, blogger compulsivo, ciclista assiduo, interessato a tutti gli usi e costumi del linguaggio.

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