Brutto. L’unico testimone di quel che il mondo vorrebbe rimuovere.

H. R. Giger, landscape-XXVIII
H. R. Giger, landscape-XXVIII
H. R. Giger, landscape-XXVIII

Potrebbe essere molto facile liquidare la questione del brutto, in estetica, perché in una scala di facili valori esso è l’opposto del bello – e fine lì. Non che sia facile o univoco definire la bellezza, ma perlomeno sul brutto si potrebbe essere facilmente d’accordo: è il contrario del bello.

Il brutto ha invece una storia più complicata ed importante, che segue da vicino gli sviluppi dell’arte e del significato che essa ha sia per l’individuo che per il più largo contesto sociale. Theodor W. Adorno è arrivato a polemizzare con il bello, e con l’arte che insegue la bellezza, come una clamorosa ipocrisia consolatoria; quindi il brutto è in realtà l’unico testimone possibile di ciò che il mondo vorrebbe rimuovere senza risolvere – la violenza, la disumanità, la prepotenza di ogni dominio. Atto finale, questo, di una discredito dell’arte e della bellezza già cominciato con le avanguardie storiche, che a partire dal ‘900 sembravano fare a gara nello smontare i capisaldi del concetto di bello: l’Espressionismo contro l’armonia delle forme, il Dada contro la serena serietà del classico, il Futurismo contro l’equilibrio e la contemplazione.

Tutti questi avvenimenti sono ben più che un sintomo di una rottura definitiva, quella tra bellezza e arte. Rottura che non solo, seguendo Adorno, ha valore di testimonianza, ma che finalmente scatena attraverso il brutto una serie di piaceri e di conoscenze che hanno molto da dire sul mondo. L’orrendo, il grottesco, il comico, il macabro, il disgustoso assurgono a dignità artistica non perché si oppongono al bello , ma in quanto espressivi di per sé, secondo proprie categorie che non sono costruite semplicemente per opposizione alla bellezza, né solamente per ottenere interesse dalle masse dai gusti facili.

Il brutto, che oggi per qualcuno sembra dominare non solo l’arte contemporanea ma ogni forma di rappresentazione della realtà, era già stato riconosciuto da Aristotele quale segnale della forza rappresentativa dell’arte. È lui infatti a sostenere che «quelle cose che ci fanno soffrire quando le vediamo nella realtà, ci recano piacere quando le vediamo in immagini», legando insieme piacere, bruttezza e rappresentazione. Separandosi dalla bellezza, l’arte si fa ‘brutta’ per continuare a rappresentare anche l’irrappresentabile, per continuare a renderci in qualche modo capaci di manipolare anche ciò che alla nostra umanità disgusta o ripugna, e che però esiste.

In questo senso si può concepire anche la “bellezza” di una fotografia di guerra, del racconto di una violenza, di una musica volutamente distorta fino al fastidio. C’è del brutto, ed è innegabile: alla capacità dell’artista sta il rappresentarlo materialmente né solo come ciò che meramente esiste senz’altro significato, né solo come uno strumento per attirare interesse.

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Lorenzo Gasparrini Dottore di ricerca in Estetica, dopo anni di attività universitaria a Roma, Ascoli, Narni in filosofia, scienze della formazione, informatica, ora è editor per un editore scientifico internazionale. Attivista antisessista, blogger compulsivo, ciclista assiduo, interessato a tutti gli usi e costumi del linguaggio.

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