Buono. Dalla bellezza al sapore, come già sapeva Platone.

Floris Van Dyck, Pièce de banquet. 1622
Floris Van Dyck, Pièce de banquet. 1622
Floris Van Dyck, Pièce de banquet. 1622

Non è per una stranezza che la parola “buono” ha un senso preciso per l’estetica. Racconta Tatarkiewicz, grande storico dell’estetica, che la parola latina bellum compare nel Rinascimento come contrazione di bonellum, derivato di bonum usato inizialmente solo per donne e bambini, a indicare la loro particolare bellezza secondo l’accezione originaria del termine. Infatti fin dalla Grecia classica è bello – kalón – anche ciò che riguarda pensieri e abitudini, e non solo forme, colori e suoni.

Questa estensione del concetto di bello, a incorporare anche molto di quanto per noi attualmente è anche nel “buono”, non solo rende l’estetica antica particolarmente interessante ai nostri occhi, ma addirittura in un certo senso superiore: ricordiamo l’esempio di Cassiodoro, che arrivò a tratteggiare nel De anima quale dovesse essere l’estetica di un “uomo buono”. Ci sono infatti filosofi contemporanei – come Gianni Carchia – che hanno visto nel pensiero antico riflessioni estetiche estese alla fenomenologia e alla psicologia, mentre nel pensiero moderno e contemporaneo spesso l’estetica è relegata a una funzione complementare di sistemi filosofici più grandi, a mo’ di accessorio.

Questo è vero fintanto che, appunto, si prendono in esame sistemi filosofici grandi e onnicomprensivi, che vogliono sistematizzare tutte le capacità conoscitive logiche e sensibili degli esseri umani. Quando in tempi più recenti quest’ambizione è andata scomparendo, e il pensiero si è interrogato sempre meno in estensione e molto più nelle sue stesse profondità, allora etica ed estetica sono apparse sempre più insieme; nell’esempio di Wittgenstein esse addirittura «sono tutt’uno».

Non è questo però l’unico uso attuale del buono in estetica. Esso sta anche trovando, da poco tempo ma significativamente, un luogo privilegiato anche nell’accezione più mondana di “gradevole al gusto”, come campo critico di una possibile estetica gastronomica. «In tutto il mondo si assiste oggi a una “coscienza critica” della gastronomia: dall’indiana Vandana Shiva a Fritjof Carpra si sottolinea la stretta correlazione tra cibo e l’esperienza complessiva dello stare-nel-mondo», sostiene Nicola Perullo. Constatata la possibilità dell’argomento “gusto”, nel senso del sapore, di essere inflazionato e spropositatamente riproposto in virtù della sua capacità di attrarre pubblico – e quindi interessi economici, detto brutalmente – c’è da auspicare che l’estetica si dedichi a una funzione critica anche dell’esperienza gastronomica.

In fondo era proprio Platone a raccontarci di simposi filosofici dove il cibo e il vino non avevano certo una funzione secondaria.

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Lorenzo Gasparrini Dottore di ricerca in Estetica, dopo anni di attività universitaria a Roma, Ascoli, Narni in filosofia, scienze della formazione, informatica, ora è editor per un editore scientifico internazionale. Attivista antisessista, blogger compulsivo, ciclista assiduo, interessato a tutti gli usi e costumi del linguaggio.

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