Ringcomposition for piano & cello

Un anello per domarli, un anello per trovarli, un anello per ghermirli e nel buio incatenarli…
(Il Signore degli Anelli, J. R. R. Tolkien)

Ancor oggi Sauron dardeggia con occhi di fuoco e ci insegue con i draghi meccanici dei nostri tempi, i droni. Una certa narrativa ad effetto percorre canali inusitati e la percezione che ci fa sentire limitati, confinati e controllati, culmina nella censura di tutte le informazioni giudicate fake e distorsioni. Ma Gandalf opinerebbe: “Chi censisce i censori?”.

Ebbene sì, siamo i signori dell’anello. Se di anello si tratta.

Epitome letteraria e filmica di una congiuntura in cui muoviamo oggigiorno, a partire da una premessa storica. L’ attuale.

Ora accorderemo gli strumenti: per trovare l’atmosfera che è bene accompagni certi momenti, le note di piano e violoncello sono indicate. L’immaginazione è una tecnologia ancora poco sviluppata di cui dovremmo servirci di più per affrontare quest’apocalisse, non posta alla fine dei tempi.

La Ringcomposition, composizione ad anello, non già in onore della saga di Tolkien, che pure ammiriamo, bensì di un film del regista Andrej Tarkovskij, presentato nello scorso capitolo di Polvere di stelle (Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo). In equilibrio tra due opere di questo artista sussiste una mirabile complementarietà, agganciata a sua volta al nostro orizzonte temporale.

Ci siamo: l’uscio di una sala cinematografica, serrata in epoca di covid , si apre alla fantasia di un remake, che è pure un collage di stati d’animo e dapprima rievoca l’ultimo atto del film, dove una casa va a fuoco in riva ad un lago (piano sfalzato: “la mia culla sta bruciando” si alza la voce di Maria Callas dall’Andrea Chenier).

Poi un’ ambulanza si avvicina a sirene spiegate, il protagonista del film viene catturato e condotto via dagli infermieri che ne sono discesi.

Tenebrosi i colori, delicato il pallore.

Ho capito che son vecchio, ma non mi fate morire prima del tempo“.

A pregare così è un anziano che stringe le mani della moglie tra le sue, al sopraggiungere degli operatori sanitari in tuta anti-contaminazione.

Seguiranno altre scene di cattura?

Come il vecchietto del nord Italia fuggito dall’ospedale, che hanno acciuffato in una pasticceria, dove si era rifugiato.

Cosa aveva da temere? Dei lunghi sonni indotti, si disse, per attenuare il dolore? O di quelle morti solitarie, scoperte per caso, durante la visita notturna degli addetti ai reparti ospedalieri o ai tanti hospice?

Eccoli i forcaioli, li vedo incombere attorno agli untori. Al pari dei monatti, non riflettono che tutti, anche loro, vorrebbero morire nel proprio letto, cogliendo l’ultimo saluto dei propri cari.

Ma la ragione è morta, come la pietà. Vedremo se lo sarà anche la giustizia.

Avrei faticato a credere possibile che potesse essere negato ai ricoverati in ospedale perfino un telefono per comunicare coi parenti o un paio di occhiali da lettura, se non fossi incorsa io stessa in un disgraziato evento.

Gli oggetti dall’esterno possono essere contaminati, hanno detto, quindi non possono essere recati ai pazienti.

Poi mi è giunta notizia di una struttura dove hanno istituito un servizio per far effettuare videochiamate dai pazienti blindati in un reparto nosocomiale: con un i-pad predisposto, un infermiere permetteva alle famiglie di parlare con i parenti ricoverati.

Non si nega a nessun condannato un po’ di conforto. E dunque sarebbe stato così difficile predisporlo per tempo?

Quanto è ingenua lei, Hanna.
Si vede che a quello che dice crede davvero.
Sarebbe commovente, se non fosse che non ha alcun senso. Mi dice che verrá un capitolo nuovo? Apra gli occhi, non c’ è bisogno di aspettare, il tempo non serve. Il mondo gira la faccia dall’ altra parte nell’ attimo stesso in cui vede il male. Lo rifiuta e non vuole vederlo. L’umanità di cui lei parla… l’ umanità è pigra. Finge di non vedere, tace, si dimentica all’ istante.

(Qui è Stefano Massini che mette di fronte Hanna Arendt e Adolf Eichmann, in Eichmann, dove inizia la notte).

C’era silenzio anche lì, tra le baracche, con le finestre che sbattevano e poi dai forni crematori le fiamme crepitavano alte.

Certe memorie è bene richiamarle tutte per tenere i sensi allenati: anche gli ex deportati di Auschwitz e tra loro i Rom, i Sinti sono rimasti in pochi.

Oggi facciamo di conto con le tabelline per sapere chi c’è ancora e chi non c’è più, mentre io vorrei parlare di chi fossero quei pazienti anziani definiti scaduti dai medici che se ne dovevano prendere cura, chi quelle persone rimaste a casa ad attenderli per giorni interminabili, una generazione di cui si va spegnendo la voce anzitempo, e tutta d’un colpo. A volte messa nell’impossibilità dell’ultimo saluto o di allestire un commiato.

Ognuna di quelle morti disperate e solitarie, entrerà nelle future epiche di un mondo che aveva perso la saggezza, di fronte ad una scienza ebbra di potere come la peggiore delle religioni.

Echeggiano parole sinistre come triage bellico, che casualmente fa rima con strage, perché non sono solo i respiratori ad essere venuti meno, piuttosto l’umanità.

Ci fidavamo, non immaginavamo… si dirà ancora una volta.

Da Sacrificio di Tarkovskji siamo partiti per tracciare una linea tra diversi punti della mappa che collega le solitudini del mondo, i suoi orrori.

E a chi dicesse “stai esagerando, sono casi specifici”, risponderei che le vicende di cui parlo non sono solo aneddotiche. Non è insensatezza paventare pericolose derive, tragedie globali, regressioni sociali che vanno di pari passo con la pretesa modernizzazione e il cinismo delle nuove tecnologie che vengono implementate, in luogo dei servizi davvero essenziali.

Per fortuna sono tutti vivi, loro, i morti, nei ricordi emozionanti dei canti della loro epoca, o quando a richiamarli sono i versi di un menestrello :

Ho visto sorgere dal nulla, come raggi di luce all’alba,
come rumori d’acqua nel bosco,
cuccioli d’umanità, impastati di energia e dramma, triangolarmente puntati verso l’alto, in espansione costante.

Multicolori
e innumerevoli creature
che coprivano, correndo, praterie e montagne, riempiendo di grida il cielo,
come rondini in arrivo, come rondini in partenza.

Ho visto i bambini formarsi, trasformarsi rapidamente, come passaggi di nuvole.
Venivano dalle rughe,
dalle pieghe più profonde del mistero, dall’acqua originale,
incapaci di postura eretta,
con orecchie attente ai rumori interni rossi e neri e profondi, avvolti dalla grande sciarpa dell’aria
e dall’attesa dei non più bambini,
in una sorta di staffetta circolare, spinti dalla vita a portare vita. Li ho visti svilupparsi,
sciogliersi dagli impacci,
allentare le rughe, distendere i muscoli, articolare parole, elaborare fantasie.

Li ho visti protagonisti di tribù grandi, pacifiche,
che s’intendevano naturalmente; in sintonia con gli elementi, rannicchiati nella loro storia,
cardatori di invenzioni e di ricordi,
sotto i cieli più diversi, con le notti le più strane, circondati da forme infinitamente cangianti.

Li ho visti.
E li ho visti catturati dai bracconieri sociali, da coloro il cui sogno è morto da un pezzo
e faticano a convivere con la morte della loro speranza.
Questi cacciatori di frodo
li ho visti tentare di ingabbiare le nuove ed antiche energie
in regole artificiali, in apprendimenti chiusi, in conformismi mortali.

Li ho visti ammantarsi di miraggi velenosi per confondere la vita,
elaborare dottrine
che escludono la scoperta, lo stupore, l’incontro. Li ho visti,
questi maestri di cartapesta, accendere roghi,
emarginare bambini, violentare giochi, costruire linde celle
per rinchiudervi la fantasia, la gioia, l’eros,
e chiamare queste costrizioni con nomi importanti
come scuola, ospedale, ufficio, caserma, prigione… Scarabocchi che una piena cancella,
che un terremoto annulla,
che una guerra esalta come memoria di morte. E piano piano le tribù infantili scompaiono.

E le rughe dei neonati non si stendono più. I bambini nascono vecchi intossicati,
la vita diviene una malattia dalla quale proteggersi ed anche le rondini scompaiono…
Intoniamo una nuova musica
e sottraiamo i bambini alla logica dei mercanti.

Ricomponiamo il cerchio tribale
nel quale le generazioni trovano posto, da un punto all’altro,
senza interruzione, gravidi gli uni degli altri.
Di modo che si trapassi da un momento all’altro, da un momento a fianco dell’altro,
sempre diversi e sempre uno.

 Il poeta Gianni Milano (che abbiamo conosciuto qui) lo definisco il Nèh, dal personaggio di un suo racconto. È un maestro ottantenne, una sorta di folletto – bardo, ilare e magico, sempre bambino, che ha fatto Di un sogno una poesia, come titolano i suoi versi.

Anche Tarkovskij, nel 1962, col suo film L’ infanzia di Ivan, sostenne l’ ipotesi di una ragione individuale che sceglie di soccombere affinché, fuori di sé, nel mondo, non soccomba del tutto la Ragione storica.

Ma poi girò, 24 anni dopo, il film Sacrificio, che del precedente è una rielaborazione a posteriori, un vibrante ripensamento.

Se la tensione è quella stessa di Ivan, qui si dibatte nell’atroce possibilità di quel che sarebbe accaduto al fanciullo senza l’olocausto di Alexander.

Alexander è quel personaggio del film che si vota all’autoannullamento per non permettere che il suo fanciullo divenga un altro Ivan: concatenazioni, anelli, si diceva.

Solo apparentemente si può considerare passato, un film così fa riflettere sulle differenze e sulle simmetrie che conducono ad un impegno costante sul presente.

Il sacrificio, volontario o inconsapevole che sia, renderà la gente che vi assiste attenta e scuoterà le coscienze?

Riverbererà come un falò acceso sulla montagna nella notte di Valpurga, cui pur sempre segue Beltaine?

I nostri anziani, una generazione di scomparsi in pochi giorni: dal loro, di sacrificio, fluirà il ripensamento e la mitigazione della boria di altri?

Vien spesso da chiedersi di questi tempi se siamo in un film.

C’è troppo pudore e troppo dolore, troppa empietà; ma il cinema mi aiuta, mi libera dalla schiavitù omertosa dei sopravvissuti.

L’esistenza ha molteplici piani di connessione, capita che quelle che chiamiamo realtà si rispecchino nella finzione, assumendo fisionomie atte ad essere comprese dai posteri o da chi non abbia occhi per vedere e orecchie per udire.

Questo meccanismo è partecipe di ciò che chiamiamo arte, cultura.

 Sacrificio è anche un film dove la guerra rappresenta lo spauracchio che incombe, spettro di qualcosa di totale e definitivo. Filtrare tutto attraverso le maglie del controllo burocratico, può essere d’obbligo, così accadde a Tarkovskji che si installò fin troppo esplicitamente lungo i sentieri del cinema di poesia.

Qualcuno lo avrebbe definito “artificio poeticistico”, ma per incardinare la sua opera testamentaria in un nuovo fulcro, vi fu costretto.

La poesia viene sempre in aiuto e ci fa riflettere sul mondo interiore ed esteriore, l’individuo, la storia, la solitudine, la distruzione, il sacrificio esistenziale e la sopravvivenza dei propri ideali a scapito della vita.

Una generazione, quella del dopoguerra, che aveva compiuto un salto di qualità, che mai avrebbe immaginato che gli sarebbe toccato questo.

Mamma, quando potrò giocare nel parco?”, implora quel bimbo recluso in quarantena. Un mondo di pace quello che avevano sognato e costruito, per cui avevano lavorato.

Avranno ancora il coraggio di disprezzarli, i baby boomers, ora che il sacrificio si sta compiendo?

Lo spasimo essenziale di questa riflessione setaccia immagini di cinema che riflettono umori e stati d’ animo, attraverso diversi tipi di memoria. E trova in Sacrificio un’opera priva di pleonasmi, prosciugata dalle ridondanze, che serba un fine strategico come in un’ennesima (involontaria?) ringcomposition operata del suo autore.

La summa di un tormento, una visione da cui il maestro russo trae fondamento narrativo e morale nel contrasto tra oggettività  e soggettività, tra storia e individuo, che era già alla base de L’infanzia di Ivan, ma anche di Andrej Rubliov.

Alexander, il protagonista, offre se stesso, i suoi beni, la sua lussuosa villa alle fiamme e si fa portare via dagli infermieri giunti per ricoverarlo di forza, nella speranza che un annullamento del presente possa salvare il futuro rappresentato dal fanciullo, in una sorta di volontario olocausto.

E l’ interpretazione che ne offre Erland Josephson contribuisce ad una sorta di climat Bergmaniano e non può essere definita con aggettivi inferiori ad intensissima, includendovi altre categorie del dramma che riguarda il mondo: il pericolo atomico di cui ancora non ci siamo liberati, l’ineluttabile condizione esistenziale, dove l’autorità si esprime in volontà distruttiva delle individualità, con i tso, con i soggetti geopolitici parossisticamente immersi negli scenari di guerra.

Le cortine tra passato e presente si annullano, i motivi inespressi del disagio e della confusione si palesano.

La storia si ripete.

Ma pure onore ai morti che non seppero di essersi immolati.

All’altare del male, della ferocia, al dogma atavico della superiorità veniva strappato il velo e mostrava inequivocabilmente il volto macabro, sardonico, contratto, sfigurato.

Lo avremmo sempre riconosciuto, da allora in avanti, il male. Anche se ha molte maschere e altrettanti infingimenti.

Ma a dispetto dell’odio che varca tutti i confini, geografici ed ideologici, rifletto sulla mia speranza, che a taluni sembra puerile. Somiglia ai fiori di tarassaco che si nutrono di sole e che poi si disseminano nel vento, così che la forza di reagire al buio si faccia prodigiosa. Affinché quel virus ci accomuni tutti, vivi e morti.

Assisto alla sequenza finale del film di T., una ricognizione che non è una favola amara. L’albero, lo stesso piantato dai nostri padri, dai nostri nonni, innaffiato dai nipoti, che vi si stendono accanto osservando il cielo. Non più infernale, ma terso e azzurro.

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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