Biennale di Venezia 2022 – La vedo nera.

La 59esima Biennale di Venezia, uno degli eventi più importanti al mondo, ha aperto al pubblico il 23 aprile ma da martedì 19 a venerdì 22 tutti i giornalisti e gli operatori culturali di un certo rilievo erano invitati alla Preview di quattro giorni, come consuetudine, per consentire appunto di vedere le opere in anteprima e in santa pace.

La bravissima curatrice Cecilia Alemani, con un curriculum integrato da arte pubblica e rigenerazione urbana di tutto rispetto, residente a New York, non a caso, dove ne comprendono il pensiero ambizioso ed evoluto, per il suo progetto veneziano ha scelto un meraviglioso titolo preso a prestito dalla scrittrice surrealista Leonora Carrington: IL LATTE DEI SOGNI.

Un romanzo dove tutto può accadere, dove la metamorfosi quotidiana avviene a opera dell’immaginazione che, quindi, va nutrita con sogni e idee di grande intelligenza visionaria. Non razionalità: intelligenza, che è tutta un’altra cosa ed è la materia di cui si occupa l’arte. Non di bellezza, ma di eros, percezione e immaginazione: ciò di cui è fatto il mondo e di cui siamo fatti noi, quella che tiene in vita.

Detto ciò, va fatta una ulteriore breve premessa: il surrealismo non è il tema ma il medium culturale e formale con cui affrontare invece i problemi scottanti contemporanei: l’esclusione dei neri dalla cultura prevalente mondiale, durata secoli e non ancora risolta; la profonda ignoranza sugli studi di gender, dato che ci sono milioni di persone e qualche decina di arruffapopolo che non sanno che in natura non esistono solo maschio e femmina e non esiste la famiglia unica: non si tratta solo di ibridi ma di sessualità biologiche nate con la Terra, solo di minoranza.

Poi c’è il problema delle donne, dove le bugie perpetrate da potere e religioni sono davvero imperdonabili: una Madonna nera e una Dea Madre che dalla notte dei tempi vengono descritti e raccontati con immagini e sculture, ad un certo punto diventano una bianca e l’altra maschio, con conseguente oscuramento universale della verità, della forza delle donne, molto superiore alla nostra, anche in termini fisici ma soprattutto di accoglienza dei problemi, cosa che risolverebbe guerre e altri rigurgiti di barbarie e di QI sotto la media (su questo tema vedasi un WebinBar del 2021 dedicato al Feminino sacro).

Infine, ma non per ultimo, il problema della tecnologia che invade e cambia la nostra psiche, la vita, la società, la percezione e i comportamenti conseguenti. Il mio primo libro, IL TEMPO DELLE MAIL, era dedicato proprio a questo, scritto nel 1998.

Lo dico subito: tutti questi temi sono stati affrontati in maniera serissima e con qualità altissima, com’è ovvio che sia, anche se non in tutti i casi, ma con un occhio al mercato troppo marcato e con un livello di innovazione insufficiente, a mio parere.

Cominciamo dai Giardini, venite con me, usate la fantasia: provo a dare qualche traccia e lo faccio con la massima umiltà. Prima di tutto perché sono un Art Consultant e non un critico, e poi perché una mostra gigantesca necessita di elaborazione lunga e dialogante.

Si entra nella meraviglia dei Giardini, subito a destra c’è il Padiglione della Svizzera, rappresentata da Latifa Echachck, un’artista marocchina (che seguo da 15 anni) semplicemente superlativa. Anzi, superLatifa. La sua installazione è giganteggiante ma mai invasiva, è delicata e potente allo stesso tempo e coinvolge i sensi dello spettatore che si trasforma in attore principale, come sanno fare gli artisti seri, quelli che creano vera partecipazione fisica e metafisica. Magnifico davvero.

Si prosegue sempre a destra e, tra gli altri, c’è il Padiglione della Corea dove un’installazione tecnologica all’ennesima potenza mostra come si comporta la nostra spina dorsale dall’interno, quando noi non la vediamo, ma ha anche un rimando alla spiritualità del serpente, il ciclo vitale che nasce e muore continuamente. Gli orientali sanno coniugare anima e corpo, tecnologia e spirito come nessuno.

In cima alla salita c’è il Padiglione della Gran Bretagna (dopo quello della Germania che per me non aveva forza) che ha vinto il Leone d’Oro per la partecipazione nazionale.

L’artista, Sonia Boyce, è nera, neanche a dirlo, come il 90% delle artiste e degli artisti invitati. Ne parliamo più avanti, ci sono luci e ombre in questa precisa volontà della Biennale di risarcire giustamente la black culture. L’opera a me è piaciuta molto ma forse il Leone d’Oro è un po’ troppo in confronto ad altre partecipazioni. Di fianco il Padiglione francese, menzione speciale sempre per la Partecipazione nazionale, insieme all’Uganda.

Si riscende verso il vialone centrale ma qualche metro prima si entra nella traversa che porta al Padiglione degli Stati Uniti, dove c’è un’installazione di Simone Leigh, altra artista nera, che con l’opera dell’Arsenale vince il Leone d’Oro come migliore partecipante.

E qui bisogna fermarsi a riflettere.

Le enormi sculture e il concept messo in campo dalla Leigh nel Padiglione americano (ma anche all’Arsenale) rimandano ironicamente allo sfruttamento dei neri e agli stereotipi con cui la cultura prevalente ghettizza i neri in capanne e luoghi di lavoro e tessitura, e lo fa con statue quasi votive, donne e feticci ingranditi a dismisura.

Io credo invece che, dopo secoli di razzismo, omicidi, sfruttamento, violenze di ogni genere, bugie, atrocità di ogni risma e soprattutto di oscuramento della cultura e delle enormi valenze delle civiltà degli esclusi in genere, e dei neri in particolare, non solo in Africa, gli Stati Uniti avrebbero dovuto mettere i mostra i loro errori e i loro orrori e, infine, le loro vere scuse.

Autoassolversi risarcendo con ironia – che pure ha un’alta valenza culturale – non è così incisivo come mostrare alle generazioni vecchie e nuove quello che si deve fare per non offendere il genere umano e togliere la dignità alle persone. E quello che si è fatto, dal Ku Klux Clan alle piantagioni di cotone, dalle stragi razziali alla segregazione. Ecco, un bel padiglione con questi orrori in mostra che però con l’arte raggiungono la psiche nel profondo, quindi non alla maniera dei documentari, risolverebbe la questione.

Inoltre la black art non è solo africana, è un fenomeno più americano che sub saharariano; non dimentichiamo il grande insegnamento dell’Africa e dei suoi artisti, dei suoi artigiani, delle sue donne e dei suoi ragazzi che usano materiale povero come medium espressivo della propria quotidianità, mettendo in campo un riciclo ante litteram, una pratica della parsimonia che non è arte povera o ready made ma vera e propria arte di vivere e sopravvivere.

Da Pieter Hugo a William Kentridge, insieme ad altri, questa Africa è stata portata in emersione più volte solo dalle gallerie, ma il grande pubblico non l’ha ancora vista.

Se pensiamo a Kehinde Wiley, che da oltre 15 anni rimette a cavallo re e regine nere nei grandi quadri a matrice barocca per ricordare al mondo che nei libri di storia ci sono solo bianchi, la verità appare già detta anni fa. Il collezionista Gianvirgilio Cugini, che da tanti anni, con sua figlia Giovanna, fa ricerca sulle identità peculiari dell’arte africana non in quanto contrapposizione tra black painting (tanto di moda) e arte occidentale ma proprio sulle matrici identitarie che citavo sopra – dal riciclo alla parsimonia, dalla tessitura in cui sono maestri alla scultura votiva e sacrale collegata al mito come in Grecia – ha scritto e prodotto un libro che mappa centinaia di artisti africani, African Souls, e due mostre con tanto di catalogo. A spese sue: per comprendere l’Africa oggi, attraverso la ghiandola pineale che dialoga con l’arte più potente e la trasforma in informazione.

Questo è un vero intento di riscoprire verità celate e riportarle alla preziosità universale, sia per i protagonisti, che escono così dalla povertà ed entrano a pieno titolo nel ciclo politico, economico e produttivo più alto, sia per imprese e istituzioni che da queste pratiche hanno da imparare e ricevere stimoli immaginifici vitali. Che ci riguardano.

Perciò, con tutti i pregi e i difetti che ha questa Biennale orientata al mercato con molta qualità e poca innovazione, resta il fatto che tutta questa enorme attenzione alla black culture potrebbe fare da contraltare a secoli di oscuramento e sopruso, quindi nella percezione generale inconscia potrebbe produrre qualche beneficio.

Perché l’immagine produce effetti molto più profondi delle leggi e delle parole.

Tenete conto che negli ultimi due anni la black painting si vende come il pane e i prezzi sono alle stelle. Sappiamo bene che la Biennale, dal 2003 in avanti, è tutta legata al mercato (anche giustamente, dato che le gallerie più importanti sono quelle che lavorano meglio alla ricerca e alla qualità, in assenza di supporto istituzionale), ma bisogna fare attenzione, e lo dico da uomo di Mercato ma non di mercato.

Bisogna cioè garantire a collezionisti e investitori che i fenomeni non si autosterilizzino e non diventino modaioli, perché sappiamo bene che le mode passano, la cultura invece resta e produce valore per sempre.

Uscendo dagli Stati Uniti si va di fronte, al Padiglione del Belgio, dove un sublime Francis Alys mette in scena video e pittura che toccano il cuore e lo fanno diventare un organo informante su guerre, razzismo e sopruso attraverso la poesia, la più potente delle armi, quelle che il potere impotente oggi non ha la cultura per comprendere. La realtà che sembra distante, d’improvviso diventa vicina, vicinissima, persino interiore. Si esce (deliziati e consapevoli) dal Belgio e si va a sinistra verso il centro del vialone.

Alla fine c’è il Padiglione centrale della Biennale, quello che un tempo era il Padiglione Italia, oggi relegato a fare da paracadute per artisti – deboli ma difesi – alla fine dell’Arsenale. Si torna dalle arti alle armi.

Il Padiglione centrale dei Giardini è la prima parte della mostra di Cecilia Alemani, IL LATTE DEI SOGNI, appunto, e dentro ci trovate installazioni, fotografia, pittura, video e performance di altissimo livello qualitativo ma, ripeto, con un tasso di innovazione molto basso. Cose che per noi operatori sono già viste, per alcuni invece sono fertilizzanti di nuove visioni, quindi va vista sempre e comunque, e poi alcune installazioni sono davvero stupende e intelligenti. Black culture, gender, questione femminile e tecnologia sono interpretati da donne e da neri, e se ne vede la potenza infatti.

La stessa identica cosa vale per l’Arsenale: installazioni mirabolanti e pittura fresca hanno l’odore degli ultimi 10 anni di produzione artistica, solo che portano la data del 2022. Con qualche eccezione, naturalmente. La ricerca sulla natura femminile del mondo, che dovrebbe diventare prevalente, è al suo massimo livello, e anche quella sul rapporto tra tecnologia e psiche. Davvero una qualità potentissima. Sul gender siamo alla ripetizione e sulla black culture la situazione è identica a quella dei Giardini.

Un viaggio sui luoghi del delitto fino ad arrivare al derelitto Padiglione Italia, la realtà di fabbriche e luoghi di lavoro abbandonati che somigliano, anzi sono identici, ai luoghi di lavoro abbandonati (Storia della Notte e Destino delle Comete: Gian Maria Tosatti).

Nella mia vita precedente, dal 1990 al 2000, sono stato direttore delle risorse umane in due gruppi industriali multinazionali, quindi so com’è fatta l’atmosfera di una fabbrica. Io c’ero quando, negli anni ’90, la politichetta di ogni colore ha regalato la genialità industriale italiana alla Cina distruggendo così un patrimonio inestimabile e producendo disperazione e telenovelas per imbonire il popolo e farlo diventare masse di consumatori.

Quindi qui non solo è stata usata la realtà reale, pensando che siamo tutti ignari di come sia fatta una fabbrica, ma si è citato Pasolini a sproposito, essendo noto a tutti che spettacolo e retorica messi insieme per lui erano i nemici dell’evoluzione, e si è pensato di usare come quinta scenica l’industria, che invece ha salvato milioni di persone nel dopoguerra e, quando glie lo lasciano fare, continua a farlo.

A dispetto di sindacati, parassiti e passatisti, gli industriali, che non sono tutti buoni ma qui li citiamo come esempio e modello di Art Thinking, conducono una guerra personale contro burocrati e politicanti. Vi ricordate il Ministro della semplificazione? Era un dentista. E gli attuali piani ministeriali per la cultura? Si fanno per il turismo, mica per gli abitanti che pagano le tasse sul territorio.

Insomma il sottosviluppo non finisce mai e chi ci guadagna non sono gli industriali ma chi li usa da spauracchio, come in questo Padiglione Italia che, per raccontare la fine di un’epoca e il tradimento delle promesse, l’artista non trova di meglio che usare un linguaggio da fotoreporter, da giornalista qual è sempre stato senza un’estetica delle forme, con un’estetica delle parole, quelle dei testi però, non quella concettuale delle opere che, ahimè, non parlano.

Ovviamente se metti in campo scenografie filmiche che vanno da Cronenberg a Garrone tocchi la pancia profana che scambia suggestione per arte, e il gioco è fatto. Ed è anche facile, ma non trasmette informazioni, trasmette giudizi, e su quelli tutti si riconoscono. Tutti quelli che non cercano soluzioni, intendo.

Di fianco c’è il Padiglione della Cina e quello sì che, come sempre, è intelligentissimo e poetico: tecnologia e conoscenza del rapporto tra le nostre interiorità e paesaggio, una interpretazione perfettamente riuscita.

Nell’isola di San Servolo, infine, ma non per ultimo, c’è il padiglione di Cuba (Rafael Villares, Kcho, Giuseppe Stampone) interpretato da un artista italiano (Stampone, appunto), e lì c’è il capolavoro assoluto.

I monti del Gran Sasso disegnati ad altezza uomo, a matita e grafite, a mano libera, in bianco e nero totale. Alla base delle opere ci sono i pantoni dei luoghi disegnati. Come farebbe la tecnologia in modo automatico, guardi il paesaggio, poi guardi i pantoni, e quando riguardi il paesaggio lo colori a tuo piacimento, ma con la tua immaginazione. Un esercizio prima divertente poi meravigliante e geniale, realmente partecipativo, coinvolgente sul serio. Un’operAzione estetica e poetica perfettamente centrata sul tema del rapporto tra tecnologia e psiche.

Bilancio? Positivo per la qualità, negativo per la ricerca. La figuraccia del Padiglione Italia mi rattrista, e molto, perché abbiamo decine e decine di artisti straordinari, identità culturali variegate che hanno inventato intere pratiche in uso oggi nel mondo, non solo nell’arte. Si sceglie sempre il potere e, stavolta, anche senza quella competenza richiesta a chi pretende di orientare le scelte verso il bene comune.

Il Padiglione è divisivo ed egoriferito: come fare degli studio visit una pratica artistica invece che lasciarli come semplice dovere curatoriale; come raccontare una fine mettendo in scena la fine. Dov’è l’arte?

Per il resto lo ripeto: battere sempre sullo stesso chiodo può sterilizzare il fenomeno, e accade spesso, ma può anche deformattare la visione unica ed entrare nell’inconscio collettivo, aprendo la strada verso la percezione corretta delle persone e dei concetti di uguaglianza, pari opportunità, genere, gender, razza e tutto il resto messo nell’angolo per secoli dal mainstream e dalle categorie obsolete del ‘900.

Perché la percezione evoluta che l’arte crea da sempre è l’unica cosa che davvero sposta il mondo, a patto di conoscerne le dinamiche e produrne di qualità.

Ecco perché ci vogliono le competenze, altrimenti gli errori li paghiamo tutti per fare favori a pochi (non) eletti. Bisognerebbe tornare ad Einaudi: dal capitalismo degli affetti a quello degli effetti, speriamo non succeda di nuovo a causa di una guerra. Siamo ancora in tempo.

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Nato Matera, laureato in Scienze politiche nel 1989, dal 1990 al 2000 è Direttore delle Risorse Umane in tre diverse multinazionali (Montedison, SNIA e Ace Int.l). Oggi è un Contemporary Art Consultant e Cultural Projects Curator e si occupa di arte da parete e arte da processi: arte da collezione a beneficio di privati, appassionati e collezionisti, arte come pratica e approccio progettuale art thinking oriented per imprese di ogni genere, istituzioni e rigenerazione culturale, urbana e territoriale.

Come Art Consultant in_forma e supporta le scelte di collezionisti, acquirenti e appassionati di arte contemporanea nella selezione di opere d’arte di ricerca e di alta qualità, nell’analisi del miglior rapporto qualità prezzo e nella progettazione di intere collezioni, in Italia e nel mondo.

Come Cascino Progetti si occupa di strategie, ideazione e realizzazione di contenuti, interventi temporanei, installazioni permanenti, inserimento di arte e artisti a monte dei processi di ogni tipo di azienda e attività, di rigenerazione culturale e urbana di città, borghi, territori e paesaggio (insieme al mio Advisory Board e ai miei Partner che si occupano di heritage management digitale, architettura, design, economia della cultura e diritto societario).

È stato ideatore, promotore e co-autore del Manifesto Art Thinking siglato al MAXXI a Giugno 2019 insieme a scienziati, artisti, imprenditori, architetti, ingegneri e professionisti di ogni genere. Tra le altre cose ha ideato e curato la prima e la seconda edizione del Premio Terna per l’arte contemporanea con Gianluca Marziani (2008-2009). È stato membro della Commissione dei quattro esperti della Regione Puglia per il Piano strategico per la cultura (2016-2017: riallocazione di 480 MLN di Euro), ideatore e curatore del progetto Matera Alberga per Matera Capitale Europea della Cultura 2019, curatore di diversi progetti culturali per ENEL, Deutsche Bank, Helsinn, SAS Business Intelligence, UBI Banca, Bosch Security System, Fiera Milano, Macro Roma, MAXXI, Comune di Roma, Comune di Matera e altri.

Ha insegnato Organizzazione del Mercato dell’Arte e Progettazione culturale per i Master del Sole24Ore e della RUFA (Roma University of Art), e visiting professor di alcune università italiane e americane. Infine si occupa anche di education & edutainment; progetta e realizza workshop e webinBar sull’arte e la sua relazione con la psiche, sui benefici per l’intelligenza degli individui e la crescita e lo sviluppo di sistemi, territori e imprese. Scrive per Art a Part of Cult(ure), magazine on line inserito nel Codex dell’ADI (Associazione Design Industriale) per le valenze culturali del format, dove cura una sua rubrica su arte, evoluzioni ibride e mostre nel mondo, chiamata I racconti del Cascino.

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