Biennale 2022 è donna. Surrealista, neo-surrealista, Black e americana. Facciamo il punto.

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Finalmente la Biennale Arte di Venezia, slittata di un anno, è arrivata, con la sua 59° edizione (fino al 27 novembre 2022).  Dalla sua nascita (1895), prima del Covid, solo due guerre mondiali ne avevano provocato il rinvio.  Bloccati dai lockdown, nel corso del 2020,  i direttori delle  sei sezioni della Biennale avevano collaborato ad una mostra documentaria (Le Muse inquiete), basata sull’Archivio Storico delle Arti Contemporaneo o ASAC. Poi, anche agli artisti è toccato lavorare a distanza, e buona parte si è riallacciata ai temi proposti dal curatore prescelto, per la prima volta una curatrice donna e italiana al contempo. Con carriera rigorosamente estera.

Cecilia Alemani, già curatrice del Padiglione Italia Il mondo magico (2017) ne aveva fornito alcuni numeri significativi a febbraio: dei 213 partecipanti, 191 donne, 22 uomini e non pochi “genderfluid o non binari”. Provenienti da 58 nazioni, di cui 26   italiane/i.  Un ri-equilibrio inedito: che riflette cosa?

Sono numeri che fanno di questa Biennale una possibile verifica su oltre un secolo di operosità artistica dell’altra metà del cielo. O, più esattamente, di una frazione di essa. Dichiaratamente orientata a chi ha dato le spalle “al razionalismo, all’ antropocentrismo” scegliendo un fronte diverso. Nel complesso sono esposte 1433 opere ed oggetti, 80 nuove produzioni, 180 prime partecipazioni (nella Mostra Internazionale).

Tra i Premi assegnati meritatissimi il Leone alla carriera di Katharina Fritsch e il Leone d’ Oro all’ americana di origini giamaicane Simone Leigh, presente sia all’Arsenale che al bellissimo Padiglione USA (https://simoneleighvenice2022.org/). La sua gigantesca scultura bronzea che apre l’ Arsenale è stata sull’ High Line Park di New York (https://www.thehighline.org/art/projects/simoneleigh/),  ferroviaria urbana dismessa e rigenerata in parco sospeso, di cui Alemani è responsabile, e dal 2021 appartiene ad una collezione privata (è uno di tre esemplari).

Cecilia Alemani era di casa alla Biennale almeno dall’apprezzata edizione 2013 curata dal marito Massimiliano Gioni e il suo coinvolgimento cauto ma progressivo come curatrice potrebbe sembrare molto tipico dell’ ascesa politically correct di area anglosassone ai massimi vertici istituzionali.

Le sue scelte culturali privilegiano la produzione, anche storicizzata, di artiste spesso ingiustamente trascurate, in prevalenza orientate ai temi e all’ immaginario  “surrealista”. Molto integrate negli attuali trend di oltreoceano: identità fluide, metamorfosi, cyborg e cibernetica, ecologia.

Il latte dei sogni, titolo liquido ed evanescente come l’identità grafica della Biennale 2022, prende ispirazione dall’ omonimo libro per bambini dell’artista Leonora Carrington, e dal mondo di esseri ibridi e fantastici suoi, ma anche di Paula Rego, Leonor Fini, Carol Rama e molte/i altre/i.

Questa Biennale 2022, esposizione del Contemporaneo per statuto, lancia ponti verso il futuro ma anche verso il passato. Premesso che evitare l’esclusione, e costruire un’emancipazione, era una faccenda ancora più seria nei primi decenni del XX secolo, una delle domande è: c’è tanta qualità di lavoro e pensiero artistico da far dimenticare questioni e problemi di genere in se stessi?

Statisticamente logica la risposta: un sì compiuto. Ma storicamente bisogna integrare con la memoria di opere che in Biennale non ci sono. Che si trovano in musei sparsi per il mondo, ad esempio anche al Guggenheim di Venezia.

La collezione permanente del G. vanta opere capitali di Max Ernst e di altri maestri, amici e compagni di strada* della vulcanica Peggy. La mostra temporanea in corso “Surrealismo e magia. La modernità incantata” (https://www.guggenheim-venice.it/it/mostre-eventi/mostre/surrealismo-e-magia-la-modernita-incantata/, fino al 26 settembre)  vi aggiunge opere ad olio di  Remedios Varo, Leonora Carrington, Leonor Fini, Maya Deren, Dorothea Tanning.

E così si possono integrare i “limiti” delle opere su carta prevalenti nelle cinque  “capsule del tempo trans-storiche e trasversali” concepite dalla Alemani per l’ Arsenale (Corderie) e per il Padiglione Centrale ai Giardini. Che non onorano a sufficienza artiste come Alexandra Exter o la  futurista Cappa (Marinetti).

Va aggiunto che le artiste e le opere selezionate (coi limiti probabilmente imposti dalle difficoltà delle supply-chain anche nell’art-system) sono ancorate al tema curatoriale ma la poetica da loro espressa ha raggiunto spesso una dimensione maggiore, che travalica l’ambito del surrealismo ed è presente in tutti gli “ismi” e le correnti del Novecento e del nostro contemporaneo. Dal cubo-futurismo al Bauhaus  fino all’arte Concreta.

* Victor Brauner, Salvador Dalí, Giorgio de Chirico, Paul Delvaux, Óscar Domínguez, René Magritte, Roberto Matta, Wolfgang Paalen, Kay Sage, Kurt Seligmann, Yves Tanguy.

Tanto la Carrington che le artiste del “Surrealismo” sono solo una parte di un’arte al “femminile” che certo aspetta di essere riscoperta. In cui emergerà, prima o poi, che l’antropocentrismo, compreso quello rinascimentale, piuttosto che con “maschile” coincide con “dimensione a misura umana”, ineludibile,  anche se il lessico porta con sé radici di genere.

Il modello “rinascimentale” ricondotto in modo vago e approssimato al dominio antropocentrico occidentale, bianco e colonialista, è in realtà nato dal Mediterraneo, quel mare interno, alla confluenza delle  tre piattaforme continentali di Asia Africa ed Europa, in cui dal Medio Oriente di Ebla e della Fenicia, all’Egitto dei Faraoni e all’Ellade, sparsa tra Turchia e Grecia, s’innalzarono statue, colonne e templi di terra, pietra e poi marmi bianchi e colorati, le cui tipologie e forme si sono propagate ovunque, recuperate da Andrea Palladio, Inigo Jones ed altri, in tutti i continenti. Secondo la ricerca di una “misura” che in realtà fa riferimento alla nostra condizione terrena comune.

La dichiarata critica dell’ “antropocentrismo” delle tante declinazioni del Surrealismo, tra cui quelle in Biennale, è stata oggetto recentemente di mostre, libri, saggi, articoli  di un settore dell’ “ industria casalinga accademica”  USA e anglosassone.*

Ad esempio, con le mostre: Surrealism Beyond Borders alla Tate-Liverpool;  Surrealism Beyond Borders al Metropolitan Museum; Modern Couples: Art, Intimacy and the Avant-garde alla Barbican Art Gallery; Fantastische Frauen alla Kunsthalle Schirn di  Francoforte (2020).

Ma, ripercorrendo i focus individuati dalla curatrice  “Il corpo e la sua  metamorfosi; il rapporto tra individuo e tecnologia; e tra i corpi e la Terra” davvero mettiamo in discussione l’antropocentrismo di matrice rinascimentale,  e scandagliamo una “necessaria” dimensione di “post-umano”?

Pur accettando il fascino e il ruolo della produzione surrealista e della figura della Carrington e di altri, la domanda principale potrebbe invece essere: la frammentazione  e il disorientamento in cui ci fanno rispecchiare ci aiuta a vivere meglio e a costruire il futuro?

Siamo sommersi, nel mondo artistico, di approcci destrutturati e forse atomizzanti. Anche Bosch e Brueghel o, in letteratura e nel cinema,  Kafka, Buñuel e E.A.Poe sono le eccezionali punte dell’iceberg di un’area mentale, creativa, filosofica ecc.  rinnovantesi nei secoli ma coesistente sempre, da almeno altrettanto potenti indirizzi razionalizzanti, raramente classicisti, non necessariamente coincidenti con la reazione e la repressione, anzi.

Si guardi alle tendenze in atto durante la Rivoluzione francese (Neoclassicismo, Direttorio) o durante gli anni Dieci-Venti in Europa (es. fauvismo, cubo-futurismo, il Manifesto del Surrealismo di André Breton è del 1924).

Le risposte ai problemi collettivi, ancora più urgenti delle inquietudini, dove si cercano? In arte la riscoperta di donne-artefici, tra Rinascimento e Sei-Settecento, include casi a cavallo tra ortodossia e rottura degli schemi: Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Plautilla Bricci, Artemisia Gentileschi, Elisabetta Sirani. Tutte figlie di artisti che non hanno tarpato le ali al loro talento. Ma ne mancano tante altre.

Quali sono i modelli per essere positivi? E’ sbagliato avvertire che il carattere visionario ed ossessivo dell’ immaginario surrealista ci porti e mantenga in una frammentazione intatta, e dominante?

Questo incombente  “revisionismo innovativo” sarà davvero la strada verso il futuro, nell’ arte, nella cultura, per i giovani di oggi e di domani? O è solo una possibilità, una frazione, una deriva, un bozzolo irrazionale, sebbene denso di contenuti, perché ancora non si sono trovati necessari punti di riferimento, nuovi e più solidi?

L’interessantissima Human Brains alla Fondazione Prada (https://humanbrains.fondazioneprada.org/en/), parte di un ciclo cominciato nel 2018, è un collettore di centinaia di testimonianze scientifiche, letterarie ed artistiche sul cervello umano, e ci costringe, pur nel coinvolgimento poetico e scientifico, alla dispersione, o alla rinuncia di una visione di sintesi. Distribuisce sollecitazioni e conoscenze, ma richiede molto tempo per comunicarle.

Alemani ha fatto una Biennale di ricerca? Ha parzialmente messo a confronto eredità e somiglianze tra metodi e pratiche artistiche simili, dal passato al presente, con “capsule” del Novecento collegate ad artiste/i negli spazi adiacenti. Ma anche tra le figure presenti in questa Biennale, sia storiche che contemporanee, incontriamo altre possibilità, ed indirizzi “antropocentrici” magari per simbologie oniriche/opposizione/negazione: vi possono rientrare Simone Leigh ma anche Andra Ursuta coi suoi lacerati ibridi metamorfici, così come Alexandra Exter. Da molti anni i contemporaneisti cercano alimento nel passato (giustamente e per fortuna) e forse questa Biennale è una tappa di una riconquista alla rovescia, dalla vastità del mare “aperto” del contemporaneo verso le acque delle sorgenti di montagna.

La Biennale è Internazionale ed ancora una volta soprattutto americana. Non che dispiaccia, ma è un dato di fatto che, tra l’altro, non include vasi comunicanti adeguati col sistema dell’arte nazionale ospitante, quello italiano. Una continua occasione mancata? Perché, si ritiene, la Biennale Internazionale non debba trovare un corretto/parallelo canale di collaborazione con la Quadriennale di Roma, l’istituzione vocata all’ anagrafe degli artisti emergenti?

Ciò che viene circuitato a Venezia, arriva dai gangli dell’art-system mondiale, selezionato da curatori, musei e gallerie tra New York, Los Angeles  e Londra che “non vedono” che di rado (o con decenni di ritardo) quello che succede da noi.

La buona notizia è che la responsabilità di questo non è solo degli “imperialisti USA” ma è in buona parte nostra. Una recente ricerca condotta da ArtEconomy del Sole24Ore “Quanto è (ri)conosciuta l’ arte contemporanea italiana all’estero?” ha evidenziato  molte delle cause del mancato funzionamento del nostro sistema di promozione degli artisti  (https://artegenerali.com/sites/default/files/downloads/ARTE%20Gen.%20Report%20Fin.pdf)

In particolare nella disconnessione tra reti (inesistenti o deboli) di Accademie, Istituti italiani all’ estero, Musei e Gallerie statali e comunali. Mancano sedi, appuntamenti, sostegni finanziari ad-hoc (piccoli ma costanti) come Kunsthalle svizzere, Esibizioni di fine anno (es.Royal Academy e/o Università di Londra. Dal Goldsmiths’s College nel 1988 emersero gli YBA, tra cui Sarah Lucas e Damien Hirst), reti di gallerie private che riescano a circuitare giovani di talento facendoli conoscere, in parallelo, colle programmazioni istituzionali di sale e musei pubblici locali.

Marilena Pirrelli ha sintetizzato: “Si tratta di un ecosistema con tanti lavoratori a diversa specializzazione, dagli artisti ai curatori ai trasportatori…” ma nel raccogliere testimonianze e analizzare dati è emerso che molti non hanno un profilo professionale tutelato economicamente.

Su tutti i quesiti indagati uno è dominante: come possono le gallerie italiane internazionali commerciali rischiare/presentare alle principali Fiere mondiali (es. Artbasel, Frieze etc.) artisti non validati/supportati, sia da giovani che a metà carriera, dal sistema culturale-espositivo interno del loro paese?

E’ evidente che mentre GB, USA, Germania e Francia hanno un sistema interno strutturato per farlo, l’Italia non lo fa. E così accade che emergano sulla scena mondiale solo o soprattutto quelli che sono “scappati” presto dalla cappa stagnante della penisola (Maurizio Cattelan e Rudolph Stingel) o hanno un’identità definita da decenni di lavoro critico e pionieristici sforzi commerciali come l’Arte Povera, Burri e Fontana etc. E sono sempre gli stessi.

Parte di queste carenze strutturali, dalle gravi conseguenze sistemiche, era stata identificata da Sarah Cosulich colla Quadriennale del 2020, avviando un embrionale sistema di reti (QRated e QInternational) che forse meriterebbero di essere potenziate e/o divenire l’ossatura di un vero sistema di censimento e promozione dell’ arte contemporanea.

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Laureata e specializzata in storia dell’arte all’Università “La Sapienza” di Roma, ha svolto, tra 1989 e 2010, attività di studio, ricerca e didattica universitaria, come borsista, ricercatore e docente con il sostegno o presso i seguenti istituti, enti di ricerca e università: Accademia di San Luca, Comunità Francese del Belgio, CNR, ENEA, MIUR-Ministero della Ricerca, E.U-Unione Europea, Università Libera di Bruxelles, Università di Napoli-S.O Benincasa, Università degli Studi di Chieti-Università Telematica Leonardo da Vinci. Dal 2010 è CTU-Consulente Tecnico ed Esperto del Tribunale Civile e Penale di Roma. È autrice di articoli divulgativi e/o di approfondimento per vari giornali/ rubriche di settore e docente della 24Ore Business School.

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