The Unconnected. Miltos Manetas: genealogia di uno storyteller e di un troubadour

Ha avuto l’audacia di affermare: “Outside of internet there is no glory”, ma nonostante il lungo viaggio intrapreso dal 1995, in quello che ha, lui stesso, definito come il “deserto” di Internet, Miltos Manetas dalla pittura non si è mai staccato.

Quest’arte antichissima continua a essere, insomma, pur fra l’assedio dei media e le opportunità del web, la lingua madre da cui scaturiscono e a cui continuano ad afferire, per lui, tutte le altre.

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L’ultimo magnifico evento creato nel novembre scorso, nel Complesso di Santo Spirito in Sassia a Roma, inscenava, in una sua parte, una sorta di atelier, come nel celebre dipinto di Courbet Lo studio del pittore(1855). Courbet considerava quell’opera una “reale allegoria di una fase di sette anni di vita artistica (e morale)”, aggiungendo: “Il mondo è venuto a farsi dipingere nel mio studio”.

E’ esattamente questo che avveniva nella performance inscenata da Miltos Manetas.

Ancor prima di aver  preso atto di quanto succedeva, il pubblico, appena entrato, si trovava coinvolto in una seduta pittorica, di cui nulla sarebbe restato, però, se non una registrazione di immagini videoriprese da un cellulare BlackBerry.

Imitando meticolosamente ogni movimento del dipingere con gesti reali e ritoccando l’immagine virtuale come fosse un riquadro di tela, l’artista scolpiva, di fatto, dentro di sé, l’atto della pittura e ne obliterava l’oggetto, il “vitello d’oro” che il mondo è abituato ad adorare in sostituzione del valore reale, ripristinando l’unica esperienza fondamentale per lui da ricordare, quel rito religioso e sacrale rappresentato da chi ne è l’officiante e il tramite – proprio il pittore, cioè – come il prete lo è della messa.

Alle cancellazioni, l’arte di Miltos Manetas non è affatto nuova. Tuttavia, la mentalità dialettica del loro autore rifugge dalle soluzioni radicali e allude costantemente a polarità opposte per ricomporle, poi, in unità, come la Grecia dei primordi ci ha insegnato attraverso la lezione di Eraclito, rimasta insuperata.

Se il 2009 fu il compendio della concezione universale del web attraverso il lancio di un Padiglione Internet, mai prima esistito alla Biennale di Venezia, all’uopo coronato da uno scenografico sbarco dei pirati, il 2011 fu la volta di BYOB (Bring your own beamer – Portati il tuo proiettore) che vedeva evolvere il Padiglione in direzione di una cooperazione fra artisti, curatori e galleristi convocati per l’occasione a un grande evento collettivo.

Quest’anno, da un luogo esterno alla Biennale, Manetas strizza ancora l’occhio ai Padiglioni già creati, con compassata libertà e ha deciso di dedicare a tutti coloro che sino ad oggi non hanno voluto piegarsi all’uso della comunicazione via internet – The Unconnected – un proprio significativo, poetico intervento.

L’oratorio di San Ludovico alla Zattere (XVI secolo) che è ancora consacrato, ma è povero, diruto e davvero francescano, è una perfetta ubicazione per questo omaggio alle figure di resistenti – tra cui l’autore annovera gli amici Cucchi e Ontani – a cui, come a dei Nuovi Santi, intende affidare una funzione regolatrice e riequilibrante anche nei confronti della massa di “rete-dipendenti”.

Se internet rappresenta il culto, la religione ufficiale, come il cristianesimo ai tempi delle origini, può certamente incorporare al proprio interno anche quelle figure “eccedenti” di Martiri e Santi – oggi The Unconnected – attraverso cui il verbo cristiano – o quello della nuova, attuale religione di massa – s’incarna sino al suo grado più alto, rispecchiando quell’alterità di fronte alla regola, che s’incarica di rivelare l’aspetto mancante: monastico, riflessivo, rivolto all’interno che è l’opposto della partecipazione e della forma epidemica della religione, ma che ne arricchisce e completa la vivente complessità.

Nell’oratorio, ancora consacrato – è bene ribadirlo – il culto recente del collegamento internet trova piena legittimazione affiancandosi ai due precedenti Padiglioni, sino a costituire una perfetta trilogia.

Per l’intera giornata inaugurale – come ancora avverrà nei lunghi mesi di durata della mostra – il pubblico ha sfilato senza sosta, osservando, fotografando e riprendendo il cavo con un piccolo loop, dipinto su una superficie verde acqua, appoggiato nella nicchia di un preesistente tabernacolo.

Lì come nell’iconòstasi, elemento fondamentale della liturgia del rito greco, cattolico e ortodosso (Manetas non lo ignora) è impresso il confine tra noi e l’altro da noi, dove con un atto di fede s’intende la sede della divinità.

Sulle due restanti pareti, un grande cielo azzurro – spazzolato sino a diventare lo schermo ideale per le nostre proiezioni

più incorporee – fronteggia un gruppo di personaggi – alcuni distinguibili come intellettuali – raccolti intorno al tavolo su cui si staglia il piccolo Blackberry, in grado di trasmettere immagini da ogni parte del globo: un modo di riassumere la forte tensione degli adepti attorno al “cadavere della realtà”, come nella “Lezione di anatomia” di Rembrandt.

Il rapporto con la tecnica, da un lato – un atto di chirurgia – e, dall’altro, l’esperienza intensa della pittura, il cui corpo, una volta adorato dagli astanti, viene transustanziato e riportato a quella vita che è cessata nell’atto stesso del suo trasferimento in immagine.

In questo modo, il Padiglione The Unconnected svolge – proprio nel senso d’insegnamento morale e di racconto – la completa parabola di internet e trova la sua conclusione in un omaggio alla pittura, sia nel senso di un narrare per immagini, che in un vivente riepilogo o una memoria in atto dell’insostituibile forma di godimento e valore che essa rappresenta.

Qui si può infine sostare in un perimetro certo – che da sempre è quello del “sacro” – dove là si vaga e si cerca senza confini né limiti, a prova di continua perdizione. Qui c’è la casa comune dove si è accolti e ci si può ritrovare. Là è il solitario deserto che si apre a tutti.

Manetas conduce per mano il suo pubblico in questa esperienza da consumarsi attentamente, lo obbliga a sostare, lo costringe a interrogarsi e a partecipare a 360 gradi a un puro atto devozionale nei confronti di quella lingua originaria delle

immagini, un tempo universale, che può, oggi, riproporsi, solo attraverso il sostegno di tutti gli aspetti che ne hanno coronato la storia, incluso quello scenografico e liturgico, dunque performativo – rappresentato dalla somma di piccoli cenni diligenti con cui il pittore reitera il suo gesto – se si vuol conservarne integro, da ogni umiliante contraffazione, il sentimento originario: una fede che va al di là del suo corpo, ma che attraverso il suo corpo vive, come in un mistico atto di abbandono a un’intatta empatia spirituale.

La sacralità della pittura, in cui è stato educato e che lo ha sempre posseduto, non può essere convalidata, oggi, per Manetas, che da un’altra autorità di riferimento, quella dell’ignoto tessuto ecumenico che avvolge la terra per connetterci anche agli altri pianeti e universi, pur restando a noi inaccessibile.

Così, se la validazione dell’Interconnetted Network passa attraverso le nuove Figure di Santi – quei sagaci Guardiani della Soglia che sono The Unconnected – il nuovo sistema globale della rete che, attraverso i suoi bit, parla al posto nostro, può essere reso valido solo da un altro sistema: quello della pittura.

E così, viceversa, come da infinito a finito, in una reciproca rincorsa senza fine.

Prima fra gli Unconnected – degna di una nostra speciale devozione – è proprio la pittura.

Nella performance inaugurale, Inde est [1] – già il titolo è una profonda dichiarazione d’amore – l’immagine che si staglia viva contro l’assoluto del cielo è quella di una grande icona dei media: Enrico Ghezzi.

Per 7 ore, la sua immagine reale, articolando gesti e movimenti, senza che il suono della voce abbia sfondato la quinta della pittura con il suo mutismo, ha proferito il proprio richiamo allarmante di gesti in un assordante silenzio – ben oltre il fuori sincrono delle labbra, a cui Ghezzi ci ha abituato in Fuori Orario – in un serrato, drammatico confronto con chi ha voluto intervenire, partecipando.

Riferisce Manetas che ai suoi esordi mancava alla sua idea di pittura un tema e un racconto che la facesse vivere.

In Grecia la pittura è zographia, ossia “scrittura della vita”, mancava a quel giovane, dunque, il vissuto dell’esperienza che ha costruito, in seguito, un po’ alla volta, nel corso di “gesta” e di imprese che, al di là della “liquidità” di internet, non solo hanno sempre richiesto un racconto per essere registrate e tramandate, ma hanno lasciato e lasciano la loro eco, come la traccia di un’ineffabile epos contemporaneo. Ecco la sua forza, un dato dimenticato dalla maggior parte degli autori odierni. Non è vero che internet si racconta da sé. Ciò che ha il vanto di aver cambiato per sempre il mondo aveva bisogno di un cantore.

Con Manetas internet ha trovato il suo troubadour, uno splendido cantastorie. E ha trovato un filosofo della sua realtà.

Troubadour e Giullare. Giullare e Poeta. Poeta e Filosofo: secondo una declinazione che dalla Grecia risale sino a Nietzsche e ridiscende poi sino a noi attraverso il greco de Chirico.

La creazione quando è un atto puro si confronta sempre con la sua antitesi, l’increato e il nulla, a cui d’imperio, come Dio – primo creatore – imprime il proprio sigillo. E’ inspiegabile e improvvisa, proviene da quel nulla. Internet, per Manetas, è stato questo nulla, un deserto con cui doveva confrontarsi la sua ansia metafisica di creazione, d’infinito e di ulteriorità. La stessa che ha guidato milioni di artisti e pittori prima di lui. Ma nessuno, più di lui, entro i confini dell’arte, ne ha esplorato sapientemente la visione, traducendola in una nuova filosofia del fare attraverso il web e le sue logiche di sistema.

Con ironia socratica, quella che interroga – sapendo di non sapere e fingendo di non sapere, al tempo stesso – per mettere in discussione e creare collegamenti oltre quelli già noti, Manetas ha, per anni ritratto, attraverso la propria pittura, gli oggetti, i topoi, gli strumenti dell’era dell’interconnessione globale. Ha creato dal nulla, con nuovo spirito dada, un movimento artistico da una parola, Neen, vergine, neutra e priva di significato quando fu acquistata dall’azienda Lexicon – palindroma e reversibile – per poterla riempire del mood, dello stile di vita e dei comportamenti del nuovo millennio, scoccato, pieno di aspettative e superstizioni, nel fatidico 2000, non così nuovo nei suoi lineamenti, ma già tanto diverso dal precedente.

Oggi le tematiche, il racconto, si sono fatti da sé, procedendo con la sua vita stessa. Esistono.

Miltos è pronto per una nuova grande avventura, orchestrata simultaneamente all’interno e al di fuori di internet.

Nel mondo delle relazioni liquide, che si accendono e si spengono con un clic, la pittura è una delle poche cose che non si può cancellare, un confine certo nell’oceano indeterminato, che integra e si oppone all’infinito sterminato di internet. Un luogo dove riprendere a conoscere noi stessi.

Da fantastico storyteller, quale in potenza è sempre stato, grazie all’immensa eredità ricevuta dal suolo greco, è questa storia che Manetas vuole, oggi, riprendere a raccontare.

Note

1.  In un’epistola alla moglie Calpurnia, dove lamenta il proprio dolore per la lontananza da lei, Plinio il Giovane scrive: “Poi è perché, sveglio per la maggior parte della notte, interrogo la tua immagine” (Inde est quod magnam noctium partem in imagine tua vigil exigo), ansia riferibile a quella con cui il pittore, in ogni attimo, interroga l’immagine della propria opera.

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Giovanna dalla Chiesa è storico e critico d'arte. Si è laureata in Storia dell'Arte con una tesi innovativa su Calder all'Università di Roma con G.C. Argan e ha lavorato, in seguito, con Palma Bucarelli presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Vincitrice di una prestigiosa Borsa dell'American Council of Learned Societies nel 1976 è stata affiliata per un anno presso il M.O.M.A di New York, dove ha arricchito le proprie conoscenze. In seguito, i suoi studi su de Chirico di cui è autorevole esperta, l'hanno condotta in svariati centri europei: Parigi, Monaco di Baviera, Atene e Berlino. Ha curato importanti mostre monografiche in sedi pubbliche: Ca' Pesaro, Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Pitti, Ala Napoleonica del Museo Correr, Accademia di Francia. È stata docente di Storia dell'Arte dell'Accademia di Belle Arti di Roma. Ha collaborato con quotidiani e riviste come pubblicista indipendente e curato mostre interdisciplinari e convegni come: Allo Sport l'Omaggio dell'Arte (Giffoni Valle Piana 2001), L'arte in Gioco (MACRO 2003), L'Età Nomade (Campo Boario 2005), Che cosa c'entra la morte? (Aula Magna Liceo Artistico 2006, 3 Giornate di studio su Gino De Dominicis)

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