Il mio professore, Lorenzo Caravella

immagine per Lorenzo CaravellaQuando ho saputo da Lorenzo Caravella, conosciuto come avvocato, che aveva scritto un libro, o meglio un romanzo, sono caduta dalle nuvole, ma lo stupore si è, subito, tramutato in gioia.

Diversamente da quello che accade in altri paesi da tempo, nel nostro, sino a qualche anno fa, era molto difficile riuscire ad abbinare a una professione canonica, un’attività culturale complessa, come quella di scrivere. E soprattutto di scrivere romanzi.

Negli ultimi anni ha preso piede, invece, una categoria di persone dove la professione non ne rappresenta più completamente l’identità, nascosta dietro a una maschera, ma solo parzialmente, lasciando spazio alla parte d’immaginazione e di sentimento dando forma a spinte spirituali, o a invenzioni, dove la professione non c’entra affatto. E’ il segno di una libertà, forse, di una maturità e crescita culturale, che nonostante i molti mali endemici, bene o male, abbiamo conquistato.

La generazione di Caravella, quella nata nella decade degli Anni Settanta, è maturata con un lieve ritardo, forse proprio a causa dei drammi e dei turbamenti sociali che ne hanno caratterizzato l’infanzia e l’adolescenza, e giunge alla maturità e all’assunzione di una cittadinanza del mondo, nel momento dell’appiattimento di valori che ha contrassegnato gli Anni Novanta.

Questa generazione esce alla ribalta proprio adesso e ha qualcosa da dirci; nonostante l’apparente timidezza, il rispetto per certi valori tradizionali sembra, anche, avere una grande voglia di esplodere, sia a causa della delusione che della rabbia di constatare le condizioni che la faccia del mondo le sta presentando. E’, quindi, interessante, prestarle ascolto.

Il libro ha come protagonista la figura di un maestro – il professor Alberto Ghirli – che fa da filo conduttore a tutto il romanzo. Un maestro con cui gli allievi mostrano di avere un rapporto alla pari, grazie alla franchezza che scivola all’occorrenza in una certa brutalità per il suo tratto spiccio, e che li chiama in causa frontalmente, senza far complimenti, abolendo i veli che si stendono per nascondere scomode verità.

Solo verso la fine, il maestro rovescerà ogni previsione di quanto avrebbero potuto aspettarsi da lui, con un gesto riguardante la sua vita privata che lo rende inarrivabile, irraggiungibile, sfuggendo definitivamente al loro controllo. Dunque la parità, la rudezza da compagno, la confidenza e anche tutte le esperienze del quotidiano vissute insieme, non colmano affatto la dissimmetria esistente tra un maestro e un allievo, un divario che resta abissale, imponderabile e che nasconde il mistero della vita stessa, la distanza tra chi dona e chi riceve, nel modo caratteristico di una formazione che sarà per sempre, come per sempre è il dono di chi ci ha dato la vita.

Non può esistere simmetria, benché possa esistere parità, tra chi appartiene a segmenti diversi della storia; per quanto il maestro ci lanci un amo, questo è sempre verso la conoscenza di noi stessi, benché attraverso di lui. Nonostante la missione ultima del maestro sia quella di aprirci gli occhi – e in qualche modo di “darci la vista” – il processo della conoscenza, l’imparare a vedere con occhi limpidi, sgombri da pregiudizi, siamo sempre noi, e soltanto noi, a elaborarlo, contribuendo ad approfondire e a estendere l’asimmetria tra noi e lui: un divario che, sul finire del libro, si apre come una voragine che rischia di inghiottirci, lasciandoci con il fiato sospeso sul precipizio. Quel precipizio che, oltre a un varco fra generazioni, descrive anche, e forse soprattutto, la condizione in cui ci troviamo attualmente, protesi verso un mondo, ancora minaccioso e incomprensibile.

Il racconto si svolge con grande destrezza, mentre sullo sfondo vi fanno capolino le contestazioni giovanili, la primavera araba e le vicende di Assange con le sue ipotetiche rivelazioni. Una freschezza di dialogo che può ricordare la letteratura americana, maestra in quest’arte.

I paesaggi che circondano o accompagnano gli incontri e le situazioni in cui si svolgono gli eventi a cui Lorenzo Caravella presta particolare attenzione, ci immettono, al contrario, in atmosfere molto europee dove riconosciamo l’importanza che l’ambiente assume quale contesto e sfondo psicologico in cui è immersa la condizione e la vita dei personaggi.

La scelta di Trieste come città in cui si svolge la formazione è interessante e appropriata, si tratta di una città di frontiera che qui sta a indicare proprio il transito fra adolescenza e maturità. Il viaggio di Gianni e Adele a Ravello che dovrebbe regalare loro l’avventura di una dimensione altra, irreale con il suo scenario paradisiaco, si fa reale covando, invece, al suo interno, l’amarezza della perdita dell’età spensierata della giovinezza nell’episodio del matrimonio condizionato di Enrico, l’amico di Gianni.

La lotta di Gianni con gli aggressori di Adele che lo riducono in fin di vita, apre un primo spiraglio sul risveglio di tutta quell’energia trattenuta che l’istinto, poi, tira fuori automaticamente per l’atavica necessità di difendere la nostra e la vita altrui, scuotendoci dalla vacuità di bisogni superflui come, a volte, sono quelli dell’età giovanile.

La descrizione dell’incontro a Salisburgo tra il professor Ghirli e la propria amante, Maria Stella, danzatrice di tango, che nella sinuosità delle movenze, nella seduzione con cui sa attrarre, rappresenta la vita in un armonico concatenarsi e nel suo cieco scorrere, è degno della letteratura austriaca della prima metà del secolo scorso.

Ognuno di questi momenti contribuisce a conferire al libro il suo notevole pregio letterario.

Con il gesto del professore a cui sono riservate le ultime pagine del romanzo si compie, espressamente, quello spostamento sul piano simbolico, qui tradotto in forme paradossali e inverosimili, che viene a confermarci, però, come il racconto sia costruito secondo un progetto strategico nell’impianto d’invenzione, il quale ci consegna un’opera nervosa, inquieta, che mentre apre un varco sul finire – a rischio di precipitarci in una voragine – resta poi totalmente aperta al possibile, come lasciando al lettore il compito di continuarla con la propria interpretazione e persino, forse, chiamandolo all’azione, attraverso un forte messaggio d’imprevedibilità, illuminato dal coraggio delle intenzioni e dalla speranza.

Ed è forse nel segno della maieutica, l’arte in cui il professor Ghirli è maestro, che il libro si rivolge espressamente al lettore e che, in ogni gesto del professore verso i suoi allievi sentiamo chiaramente come in realtà egli stia parlando proprio a noi.

 

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Giovanna dalla Chiesa è storico e critico d'arte. Si è laureata in Storia dell'Arte con una tesi innovativa su Calder all'Università di Roma con G.C. Argan e ha lavorato, in seguito, con Palma Bucarelli presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Vincitrice di una prestigiosa Borsa dell'American Council of Learned Societies nel 1976 è stata affiliata per un anno presso il M.O.M.A di New York, dove ha arricchito le proprie conoscenze. In seguito, i suoi studi su de Chirico di cui è autorevole esperta, l'hanno condotta in svariati centri europei: Parigi, Monaco di Baviera, Atene e Berlino. Ha curato importanti mostre monografiche in sedi pubbliche: Ca' Pesaro, Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Pitti, Ala Napoleonica del Museo Correr, Accademia di Francia. È stata docente di Storia dell'Arte dell'Accademia di Belle Arti di Roma. Ha collaborato con quotidiani e riviste come pubblicista indipendente e curato mostre interdisciplinari e convegni come: Allo Sport l'Omaggio dell'Arte (Giffoni Valle Piana 2001), L'arte in Gioco (MACRO 2003), L'Età Nomade (Campo Boario 2005), Che cosa c'entra la morte? (Aula Magna Liceo Artistico 2006, 3 Giornate di studio su Gino De Dominicis)

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