Ferlinghetti vive

immagine per Lawrence Ferlinghetti è vivo

Come poeta, a volte mi immagino ancora nei panni di un reporter onnisciente venuto dallo spazio, che invia i suoi dispacci a un caporedattore supremo convinto della necessità di rappresentare senza censure le tragicomiche pagliacciate di quelle creature bipedi note col nome di esseri umani… Lawrence Ferlinghetti, 2011, nell’anniversario della presa della Bastiglia

In un mondo come l’attuale, popolato da giganti agguerriti, la morte di Lawrence Ferlinghetti ha appena scalfito la patina di oblio in cui si dibatte l’umanità, eppure, aprendo a caso una sua raccolta di poesie, si rimane folgorati.

Nel paratesto di uno dei suoi libri più noti, ci si imbatte nel riferimento alla presa della Bastiglia, e penso che è sempre così che uno scrittore ti colpisce: apre un varco nella tua storia personale. Vi si mescolano ricordi delle scuole francesi in cui studiavo da bambina, la Marsigliese cantata in classe… Liberté, Egalité, Fraternité… e mi accorgo che quella data, il 14 luglio, ha sempre contato per me, è stata un punto di partenza di una riflessione, poi di una rielaborazione, coincidente con diversi avvenimenti personali, catalizzatori del mio percorso. Come lo è stato l’incontro con il grande poeta Gianni Milano, che oggi ci dona questo ricordo:

Ferlinghetti, poeta, editore, libraio in S. Francisco. Lui c’era: sempre.
E i vagabondi del dharma tornavano a casa e Ginsberg, giovane allora, aveva pubblicato e battagliato il suo Urlo ed io, e noi, invidiavamo Allen ed anche se a Milano c’era Fernanda Pivano, zia Nanda, nessuno ci aveva pubblicato i nostri lacerati urli, sotto tono per evitare le reazioni astiose delle istituzioni con i fogli di via, le emarginazioni, il razzismo… Ora Ferlinghetti non cammina più sulle nostre strade che alcuni fra noi sanno essere le ultime, i famosi viali del tramonto, ma l’amico Ferlinghetti non verrà dimenticato. Grazie, ombra tra le ombre, per averci permesso di testimoniare una stagione come quella che abbiamo vissuto… (Gianni Milano).

Le parole di Gianni mi fanno pensare che non sono cresciuta leggendo Ferlinghetti.

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Forse, leggerlo prima sarebbe servito, risparmiandomi la fatica di dovermi differenziare volta per volta. Avevo letto Kerouac, i cui libri non mancavano nella biblioteca di famiglia, ma non ricordo di aver notato, sugli scaffali delle librerie che visitavo da ragazzina, edizioni italiane delle opere di Ferlinghetti.

Forse non sono tra le poesie più belle scritte nel 900, ma il caso editoriale c’era stato anche da noi, nel 1968 (con la traduzione del suo esordio Pictures of the gone world,1955), a cui erano seguiti sei lavori, ma in seguito i suoi successi come esponente di spicco della controcultura americana furono ignorati in Italia per molti anni.

Finalmente, nel 2000, mi imbattei in una sua raccolta: cinque anni prima l’editoria italiana l’aveva riscoperto e i suoi libri erano stati rilanciati. Avvenne grazie ad un giornalista che l’aveva intervistato per Il manifesto. Lo stesso giornalista che, divenuto editore a sua volta, avrebbe narrato di un mitico viaggio compiuto con Ferlinghetti e la sua socia Nancy Peters sulla costa californiana, dove soggiornarono in una riserva naturale sita in un canyon. La casa era un rifugio sperduto, non collegato alla rete elettrica, che a suo tempo aveva ospitato anche Kerouac.

Fu grazie a Marco Cassini e al poderoso lavoro della sua casa editrice Minimum fax, che le opere di Ferlinghetti vennero riproposte in Italia.

Dopo l’estate esoterica del 2020, Ferlinghetti tornò prepotentemente a popolare la mie riflessioni. In autunno mi era stato chiesto di leggere un libro in un gruppo on line.

Non volevo presentarmi con un romanzo che somigliasse ad una fuga dalla realtà, sebbene il mondo attuale fosse anche troppo concentrato sull’oggettivo e poco su quelle cose che offrono spiragli, che si intuiscono (e che spesso si rivelano straordinarie).

Ci voleva uno scrittore capace di far sparire i dubbi circa quello che conta davvero, in grado di infondere coraggio, fattore essenziale, in un periodo in cui tutto sembra dileguarsi; un personaggio tutt’uno con le sue opere, magari con una vita da romanzo durante la quale avesse sempre guardato avanti, fedele alle sue idee, senza mollare mai.

Fu allora che si materializzò Little Boy:

“Sono felice che Little Boy sia riuscito ad arrivare in Italia. Credo che Little Boy sia universale. Ci sono Little Boy ovunque nel mondo e Little Boy può essere di qualunque nazionalità”, aveva scritto il suo autore, e poi: “Non sono memorie, le memorie sono per le signore vittoriane. Non è neanche un autobiografia , è semplicemente un io immaginario, il tipo di libro che ho scritto per tutta la vita. Diciamo che è un romanzo sperimentale”.

Del suo memoir/autobiografia/romanzo se ne parlava da tempo, ma era avvolto dal più fitto mistero e uscì il 29 marzo del 2019, quando il suo autore compì cento anni. Un libro ideale, incanalato nel flusso poetico, dove Ferlinghetti appare ardito, anarchico, curioso del mondo, trascinante nella sua prosa, specie se letta in inglese, e veemente nelle accuse.

All’uomo Ferlinghetti nessuna descrizione si attaglierebbe abbastanza, nessuna intervista e nessuna biografia. Anzi, quest’ultima lui la definì opera di finzione, dando ragione a J. D. Salinger e Thomas Stearns Eliot che non vollero saperne di biografi. A pensarci bene, ognuno di noi può parlare solo dell’esperienza che ha dell’altro, senza conoscerlo davvero.

Non mi rimaneva che salire sull’ottovolante per un altro giro nella sua Coney Island of the mind.

I temi che trattava avevano un fine: risvegliare l’interesse per le grandi battaglie dell’umanità. L’antimilitarismo, ad esempio, era emerso dopo che l’attacco di Pearl Harbour aveva richiamato i giovani americani in guerra, così Lawrence Monsanto Ferlinghetti si era arruolato nella marina militare e aveva preso parte allo sbarco in Normandia. Poi era approdato a Nagasaki, dopo l’esplosione dell’atomica, abbracciando la visione pacifista. Solo successivamente si sarebbe dedicato alla causa ecologista.

Scorrendo le pagine dei suoi libri avevo la sensazione di intessere un discorso a tu per tu, come già mi era accaduto con Thoreau.

Fu un grande ispiratore che seppe comunicare alla gente il desiderio di esserci, partecipare e portare il proprio contributo. Fondatore della City Lights Booksellers and Publishers, creò la prima collana di libri completamente tascabili nel 1953, per rendere disponibili libri di qualità a poco prezzo, immaginando la sua libreria come un luogo d’incontro letterario.

Ma fu anche un bohémien, come ricordò lui stesso, esponente di quella corrente giovanile che anticipò i beat-nick, parola coniata nel 1958 con senso denigratorio, che prendeva spunto da beat – letteralmente battito – e dallo spettro sovietico rappresentato dallo Sputnik.

Fu il grande amore per l’arte (dadaista e surrealista) che a 60 anni avrebbe fatto di lui un pittore apprezzato, ma in gioventù l’ebbe vinta la passione per la letteratura, per i grandi scrittori come Ezra Pound e Samuel Beckett.

Il suo spirito partecipò di quei moti del tempo e spinse ad aggregarsi per celebrare la vita e l’arte, come accadde per il festival di Spoleto che ebbe origine dall’happening letterario cui partecipò Ferlinghetti nel 1965.

La sua fu un’epoca di grande fermento, di cui ho colto un ricordo appassionato, quello di Giuseppe Moretti:

La Beat Generation arrivò in Italia nei primi anni ’60, attraverso la penna di Fernanda Pivano e l’attivismo di Gianni Milano. Fu la Pivano che tradusse e promosse in Italia i poeti e gli scrittori beat che, poco meno di un decennio prima scossero un’America conformista e guerrafondaia. Ed erano Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, William Burroughs. Milano invece portò l’azione militante propriamente beat, sia scrivendo poesie di rottura sia con azioni di disobbedienza civile.

Sulla Strada di Kerouac e Urlo di Ginsberg catturarono l’immaginazione mia e di tanti giovani, e ci mettemmo a leggerli e a studiarli come possibili portabandiera nelle rivendicazioni per un cambiamento della società, anche qui come in un’America conformista ed esclusiva.
Kerouac ci dava l’idea di una generazione in movimento, Ginsberg l’idea di libertà fisica, culturale, espressiva e creativa.

Poi arrivarono tutti gli altri: Diane di Prima, Charles Olson, Peter Orlowsky, Anne Waldman, il mitico Neal Cassady… i beats della West Coast: Michael McClure, Gary Snyder, Philip Whalen, Lew Welch e Lawrence Ferlinghetti.

Quest’ultimo si notava non tanto per la radicalità di pensiero ma per il suo aspetto: non sembrava affatto un beat, a differenza di Kerouac e soci sembrava ‘fuori posto’. Intanto perché era molto più anziano, faceva il libraio a San Francisco, si era laureato alla Columbia University e studiato alla Sorbona, aveva i capelli corti e ben curati, sempre vestito bene… un intellettuale, non certo un beat. Eppure non passò molto tempo prima di scoprire l’importanza che Ferlinghetti ebbe nella nascita e nella diffusione del movimento, in America prima e nel resto del mondo poi.

Innanzitutto, fu lui che pubblicò per primo Urlo di Ginsberg (1956), che gli costò una denuncia e l’arresto per diffusione di oscenità. Si difese personalmente in tribunale (cosa che fece scalpore) e vinse la causa.

Fu lui a offrire a Jack Kerouac la quiete della sua baita a Big Sur, per rigenerarsi dai problemi con l’alcol (da cui poi scaturì il romanzo omonimo), ma soprattutto fu la sua libreria, la City Lights, che divenne punto di riferimento, aggregazione e divulgazione dei poeti e scrittori legati alla beat generation.

A quei tempi, se si esclude Kerouac e Ginsberg, i libri dei beat pubblicati in Italia erano rarissimi. Ricordo come fosse oggi quando vidi in libreria il libro di poesie di Ferlinghetti Coney Island della mente. Lo aveva pubblicato l’editore Guanda nel 1968, contemporaneamente alla pièce teatrale Tremila formiche rosse (sempre di Ferlinghetti) e Benzina di Gregory Corso. Li presi tutti e tre. E fu proprio la lettura di Coney Island della mente che mi diede la misura del personaggio.

La sua era sì una poesia intellettuale, influenzata dal surrealismo francese, ma con una buona dose di critica libertaria e pacifista della civiltà piccolo borghese moderna, che ben si armonizzava nel crogiolo di stili, versi e manoscritti della beat generation (Giuseppe Moretti).

E dunque, Lawrence Ferlinghetti fu non solo un pacifista, un editore, un poeta, fu quel tipo di uomo che sgomenta ancor oggi i moralisti e che seppe condannare l’arbitrarietà dei divieti ai costumi naturali, opponendosi a tutte le repressioni.

Nella lotta che condusse per la libertà di parola e di espressione, una situazione kafkiana non diversa per certi aspetti da quel che viviamo oggi, si intese non solo il fine di combattere le costrizioni, ma anche la mentalità dei burocrati di allora.

Il burocrate è colui che applica le leggi senza discernere, in modo indiscriminato, e nel farlo è anche antistorico, non ammettendo nuove soluzioni a nuovi problemi.

La riflessione non è mia, ma di Savio Corso.

In particolare sono grata a coloro che mi hanno raccontato dell’incontro con il Ferlinghetti editore, che si soffermava volentieri a dialogare con i convenuti durante le presentazioni presso la sua libreria di San Francisco.

A ritroso emerge la carriera di un paladino dei diritti della gente, che culminò col suo incarceramento e poi con il processo per oscenità a seguito della pubblicazione di The Howl di Allen Ginsberg. Vinse in nome di tanti che, da allora in poi, poterono pubblicare senza essere soggetti alla censura.

Il fenomeno fu ampio: per infrangere questa cristallizzazione di stereotipi e generalizzazioni, “l’altra società” affrontò processi e sequestri di materiali di stampa, col fine di liberare “la pubblica decenza” dalle ipocrisie e dei preconcetti.

Ci sono momenti storici in cui il coraggio è necessario, in cui occorre sfidare la paura e rileggere La disobbedienza civile cui chiamava Thoreau.

Quando, ormai nel secolo scorso, seconda metà degli anni ’60, apparvero a Torino i primi “strani” bipedi maschi con i capelli lunghi, subito definiti come “capelloni”, un odore nuovo pervase il territorio subalpino. Odore di speranza e libertà che un gruppo di poeti d’oltreoceano propagava tramite il turibolo delle loro creazioni. L’incenso aderì rapidamente anche qui, nell’austera ex-capitale con le Alpi per corona.

Pareva che queste voci post-belliche cercassero di restituire al Vecchio Continente il dono che il Giovane Continente aveva in qualche modo assorbito. Gli U.S.A., però, rilucenti di modernità e tecnologia, erano anche colmi di arroganza e violenza che defecavano attorno. Il Viet-nam, non primo e forse neanche ultimo, era, in quel momento di tensioni planetarie, la vittima. Il vento dell’ovest arruffò il pelo del vecchio cagnone, da tempo abituato a vivere di avanzi.

Poesia, rabbia, dolore: miscela detonante che ruppe antichi sigilli ed aprì nuovi percorsi, la road, percorsa in tutte le direzioni da novelli psiconauti, interpreti e propagatori d’una profonda inedita rivoluzione, dal fuori al dentro, per proteggerla meglio.

 I nostrani capelloni, che parevano passerotti sempre affamati (“mi fate molta tenerezza perché siete i nostri nipoti….” disse Ginsberg, venuto in Italia) divennero agitprop della psichedelica, nonostante, con un po’ d’amaro, fossero solo “i nipoti”.

 Bizzarra tribù, quella yankee, di vagabondi del dharma, in giro per il mondo alla riscoperta del mondo…

Ma tornavano a casa, sempre, perché un punto di riferimento, di accoglienza, l’avevano.

E qui veniamo al centro della riflessione. Non era il Geppetto di Pinocchio ma aveva un cognome italiano. Anche noi, “nipoti” avremmo potuto interpellarlo “ehi paisà!…”.

Era,‘era’ sì, perché dopo un secolo di vita, operosa e non chiassosa, è tornato alla terra, Ferlinghetti, poeta, editore, libraio in San Francisco. Lui c’era: sempre. (Gianni Milano).

L’operazione anticensura, in America, iniziò nei libri segreti delle poesie, nelle parole sussurrate dai ragazzi irritati, affiorò nelle riviste che si comperavano nei carretti delle stazioni, è la rivendicazione della libertà con il cosidetto filthy speech, in luoghi malfrequentati e malfamati come lo sono oggi alcuni blog.

Poi si disse che quell’aggressione verbale era resa necessaria dall’intento che vi soggiaceva.

La legge non si fece attendere e arrestò i responsabili. Ma la censura si trovò messa male perché, dopo ogni arresto e dopo ogni giornale sequestrato, ne emergevano altri.

Oggigiorno, in cui la parola è diffusa non solo tramite stampa, ma anche in digitale, si fa fatica a raccapezzarsi tra le notizie e si tende ad acclamare il calmieratore di turno, esponendosi al pericolo di una censura indiscriminata. Chi avoca distinguo, dimentica che ogni epoca ha le sue battaglie, ma che gli ideali non sono mai servi del potere.

Parlare di Ferlinghetti, e farlo senza considerare l’attualità della sua opera, mi avrebbe esposta ad essere tormentata dal suo fantasma fino alla fine dei miei giorni.

Lawrence Ferlinghetti è morto il 22 febbraio 2021.

Ferlinghetti vive.

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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