Capita di domandarsi: “Dove sono finiti i fiori?”
Ero grandicella quando appresi che il fenomeno beat erano finito; fu mia madre ad annunciarlo, dato che mio padre aveva deciso di lasciarsi crescere i capelli e lei scherzò dicendo che avrebbe avuto l’aspetto di un hippy.
Più tardi, ascoltai dire che anche gli hippies erano finiti e che pure l‘underground lo fosse e che discutere reportage sulla pace (Peace report) era roba da fricchettoni.
Di sicuro, ci sono cose che disturbano lo status quo.
Un giorno, non lontano, quei tempi verranno indicati come l’inizio dell’autodeterminazione dei popoli, un periodo storico che mise in crisi molte coscienze, nato dal pensiero illuminato di Gandhi, coltivato all’ombra del riformismo non violento di Martin Luther King. Periodo che molti guardarono con la diffidenza di chi nelle rivoluzioni non vuol proprio credere, finché il 1968 non esplose, con la sua smania di prevalere sul male, sul buio, sulla brutalità.
Recentemente un’amica mi ha confidato di essere stata tra quei giovani che sostarono fuori del tribunale, per sostenere Allen Ginsberg durante il processo -per oscenità- che dovette subire (e che vinse): rinverdire quei giorni, quelle vittorie della libertà, mi è sembrato quanto mai opportuno.
E forse non è un caso che, proprio lo scorso anno, abbia avuto luogo in Italia la mostra di Lawrence Ferlinghetti, l’editore illuminato della Beat Generation, che aveva reso possibile la pubblicazione di Howl (Urlo) di Ginsberg. Lui, in quei talenti della sponda est degli States, aveva creduto subito. Ferlinghetti avrebbe potuto essere qui in carne e spirito, se non fosse stato per l’età avanzata, ma i suoi lavori hanno meritato l’allestimento di Torino.
Bisogna risalire molto più indietro per ricordare la sua storia. Fu tra i protagonisti di quella scena pacifista e libertaria degli anni cinquanta e sessanta, dando impulso e coerenza agli slogan del tempo. L’establishment di destra e di sinistra aveva sfiduciato Ginsberg, ma la sua opera Kaddish fu un best seller come Howl e Ferlinghetti non si piegò alle imposizioni della censura.
Pubblicazioni che comportarono mutamenti epocali…
E non solo libri: anche brani musicali delle avanguardie di allora (Bob Dylan, Joan Baez, Grateful Dead…). E film, da quelli di Robert Frank, fino ai nostri giorni, col recente On the Road (Sulla strada), tratto dal romanzo di Jack Kerouac.
Ogni lavoro di quegli autori divenne un vessillo di battaglie che sarebbero state combattute per più di un ventennio. Nel frattempo, sull’altra sponda degli States, le Pantere Nere di New York manifestavano per i diritti degli Afro Americani e la resistenza contro ogni guerra culminava in pubblicazioni storiche (come il giornale “Viet Report”, da cui il titolo di questo pezzo); in quei giorni, un altro grande militava con loro, mentre studiava la lingua cinese alla Columbia University: Tiziano Terzani.
Ridicolizzare il fenomeno o tentare ridurlo ad un sussulto adolescenziale, fu una strategia.
Ma, intanto, una giornalista italiana annotava tutto. E avrebbe narrato di un eroe anonimo che aveva scritto sui muri di Parigi: “Stiamo inventando un mondo nuovo e originale”.
Così il ventennio di guerre e devastazioni che percorsero il mondo dagli anni cinquanta alla metà degli anni sessanta, valse solo ad incentivare l’ardore dei giovani. I “signori della guerra”, come si iniziò a definirli, non avrebbero più potuto agire indisturbati.
Allora, lo stesso sconosciuto writer parigino, aveva scritto un’altra frase: La rivoluzione che sta cominciando non abbatterà solo il capitalismo ma pure la società industriale.
Intanto le forze del dissenso si erano scisse tra l’alternative culture (controcultura non violenta), nata dalle esperienze psichedeliche e dalle religioni orientali, e quelle delle contestazioni politiche, delle manifestazioni.
La società “dabbene” si spaventò, contrattaccò o si limitò a dire “niente di nuovo sotto il sole”.
Ma la denuncia si fece strada e poi dilagò, la gente aprì gli occhi, allo stesso modo in cui il dissenso beat si era aperto all’esplosione comunitaria degli hippies: un fenomeno che divenne sempre più incalzante ed inafferrabile, tra Stati Uniti ed Europa, mentre Joan Baez cantava “Blowing the wind”.
Capita di domandarsi, Dove sono finiti tutti i fiori? Ricordando le parole di una vecchia canzone.
Di quella frase, Fernanda Pivano (traduttrice, giornalista e scrittrice), ne fece un vessillo. Resistenza, non violenta, contro la brutalità, a difesa del mondo.
Ma chi fu Fernanda Pivano? Una scrittrice, una traduttrice. Forse solo una donna sagace, che accolse questi fermenti, in un’Italia ancora abbacinata e resa incredula dalla guerra?
Se poi capita di ascoltare ancora qualche canzone (“It’s alright ma, I am only bleeding”), capiamo quanto sia stato doloroso assistere all’offuscarsi delle speranze e quanto sia cambiato il mondo dagli anni settanta ad oggi.
Infatti tutto sembrò eclissarsi nel giro di un decennio. Anche se credo di poter identificare una data precisa di questo lutto: il giorno in cui la Cina lanciò l’atomica, ad una settimana dal trattato Antinucleare. Allora, i movimenti pacifisti subirono un duro colpo, che fece ripetere ancora una volta alla giornalista genovese: “Dove sono finiti i fiori?”
Un moto di insofferenza e di malinconia, perché Fernanda era stata l’antesignana di quei moti in Italia, li aveva presentiti, accolti, grazie alla sua professione. Dapprima aveva lasciato che il seme attecchisse, traducendo i suoi scrittori beneamati, da Lee Masters a Hemingway (per la traduzione di Addio alle armi fu arrestata durante il ventennio fascista). Poi, l’incontro con l’amato Kerouac aveva consolidato l’apertura al panorama letterario della Nuova America, da cui la poderosa raccolta dal titolo L’altra America.
Molti brani che la sua curiosità scovò e pubblicò senza censure, con tutta la sensibilità e la voglia di capire, contribuirono all’estensione del fenomeno. Non era presente in lei la fredda presa di distanza del giornalismo anglosassone, che aveva fatto scuola: Pivano anticipò un giornalismo sincero, fatto di passione, a tratti empatico. Partecipare, ma pure guardare oltre la morale borghese, capire come la marjuana, l’LSD, l’amore libero e la contestazione, potessero non essere antitetici agli ideali puri di una generazione.
Per lei, il 1956 rappresentò quella svolta: protesta politica, protesta psicologica, protesta culturale, protesta della droga e protesta sessuale.
Gli autori non furono solo Ginsberg e Kerouac, ma anche William Burroughs, Gregory Corso, Irving Rosenthal, James Koller, Timothy Leary (il vate della psichedelia), Ken Kesey (l’autore di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”), Gary Snyder, poeta e premio Pulitzer oggi, allora il Japhy Rider di On the road, Joanne Kieger e moltissimi altri.
Senza di loro, il vaso di Pandora non sarebbe stato scoperchiato: «Probabilmente un certo cinema e certa scrittura non sarebbero esistiti senza l’allargamento di visione dell’esperienza psichedelica» scrisse Nanda «certa poesia non sarebbe nata senza il tentativo di ritrovare identità perdute nel sopruso della tecnocrazia antiecologica».
Di Fernanda, Cesare Pavese aveva colto immediatamente lo slancio e vedeva in lei una personalità in grado d’interpretare lo spirito del tempo.
Come suo professore di ginnasio, poi datore di lavoro in casa editrice, se ne era reso conto subito: “Nanda era intelligente e differente dalle ragazze qualsiasi”.
Per di più se ne innamorò, non corrisposto, e infine le dedicò delle poesie.
Anche ai suoi lettori, Nanda apparve dotata di quell’entusiasmo genuino, proprio di alcuni giornalisti e scrittori, così indispensabile al cuore.
Fu un personaggio dalle mille sfaccettature, che un giorno, ne sono certa, ispirerà un film. La sua caparbietà le provocò più di qualche cruccio, ma continuò sempre a credere nei giovani di tutti i tempi, nella capacità che avevano di accogliere le nuove istanze.
Di questa donna straordinaria, della sua vita, avrei sempre voluto scriverne.
Quando, lo scorso dicembre, ho avuto la fortuna di conoscere Gianni Milano (poeta e pedagogista italiano, classe 1938) mi è sembrato un segno del destino. Poter attingere ai ricordi di un protagonista di quegli anni, collaboratore della Pivano, partecipe della contestazione, l’ho giudicata un’occasione imperdibile.
Nel prossimo appuntamento di Polvere di Stelle, Milano ci aiuterà a ricostruire il caleidoscopio con i pezzi originali mancanti. Vi aspettiamo.
Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio indimenticato maestro, il giornalista Fabrizio Schneider. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.
Grazie, bellissimo articolo! I fiori ci sono ancora, sono solo un po’ più rari! ciao ✌️
Avete sottolineato l’essenza. Grazie di cuore.
Sono commosso di queste parole vissute nel tempo con Fernanda da Ginsberg a Keruac a molti altri momenti di manifeste esaltazioni culturali , letture happening Ed experienze psicadeliche. The Beat goes on.
Sono contenta che ti sia piaciuto. Non perderti la seconda parte di #PeaceReport, con l’intervista a Gianni Milano.
Molto bello il tuo articolo. E tanti fiori a venire!!!