The garden therapy natura & poesia

The Assam Garden,1985

Mostrami il tuo giardino e ti dirò chi sei
Alfred Austin

Nulla è così importante come trovare l’armonia nel mondo attorno a noi.
Quella che alcuni giudicano perduta -ma non per sempre- perché ce n’è assolutamente bisogno per vivere.

E un giardino può rappresentare la proiezione di quello che desideriamo, rinvigorirci se siamo stanchi, ristorarci dalle fatiche che vi profondiamo, rappresentando da sempre quel luogo di delizie ove Dio depose Adamo ed Eva affinché lo custodissero.
Benché modesto e umile, lussureggiante o sfarzoso, selvaggio o ricercato, esso sarà foriero di pace e tranquillità, perché solo passeggiarvi vi farà sentire al riparo da ogni male.
Del resto vogliamo dimenticarci: della cacciata, dell’arroganza, della superbia nei confronti della natura, della stupidità.

immagine per The Assam Garden
The Assam Garden,1985

Dunque giardino come metafora e non come intento razionale di coltivare uno spazio ristretto, un giardino senza confini come la nostra libertà di essere umani, il nostro istinto alla vita, alla felicità.

Polvere di stelle è una rubrica dove i protagonisti siamo noi; altri personaggi giungono inaspettati, qualche volta da dimensioni sconosciute: interpretano la loro parte, spesso lasciano un messaggio.
Ecco perché non sarebbe strano ascoltare uno scampanio in fondo al viale e scoprire che al cancello sono giunte le protagoniste del nostro racconto. Due amiche di lunga data che conobbi moltissimi anni fa, quando la mia passione per i giardini era abbastanza formale e circoscritta ad un paio di terrazzini di città.

Mentre discendo il vialetto per andare incontro alle mie ospiti, tra aiuole di tagete e cespugli di biancospino, mi rammarico di non aver mai installato una piscina: ma in un giardino è proprio necessaria una piscina?
Quella di Sherazade no di certo: solo uno specchio d’acqua, un piccolo stagno di ristoro per gli uccelli, circondato da piante e frutti, come prescrive il Corano, dove sono molti i rimandi al giardino (“In verità il pane nutre il corpo, ma i fiori nutrono anche l’anima” Corano 18.55).

Anche a guardare ai mitici giardini di Babilonia, quanto ci sarebbe da apprendere nell’arte della custodia del verde, che somiglia a quella dell’anima. E ora mi chiedo: sarò all’altezza delle due esperte dell’arte giardiniera che mi attendono?

Sapranno tutto, loro, dei giardini egizi? Erano l’ anticamera del paradiso…
E che dire di quelli greci e romani? Chissà se le passeggiate filosofiche di Atene si svolgevano in luoghi adorni di piante? Dei loro giardini sappiamo così poco, ma almeno sono sicura di quelli coltivati con passione dai romani.

Poi penso a quanto dell’amore cortese e cavalleresco fosse cantato negli orti, immaginai lo fosse anche nel bel giardino della rocca di Gradara: Amor ch’a nulla amato amar perdona…
E quelli medievali, di giardini, che mi risovvengono grazie alla letteratura, odorano di salvia, come li descrisse Boccaccio, ma vi immagino pure rose e gigli a profusione, simboli virginali.

E poi le streghe, che più che coltivatrici erano raccoglitrici e facevano di ogni campo incolto il loro regno di sapienza, proprio loro: compagne liete di antica memoria.
Vira il vento dall’est e in un attimo sono ai giardini dei monasteri, dove i segreti delle erbe furono custoditi, come affabula la storia di Herbarie, le chiamavano streghe, un’opera di teatro di Silvia Pietrovanni, a cura di Isabella Moroni, che narra di antiche sapienze al femminile.
E lì c’erano gli horti per i vegetali di cui cibarsi e accanto era un tripudio di alberi da frutto, il pomarium.

Dal Rinascimento la passione dei giardini esplode e l’aspetto del verde diviene sogno, ricreazione, sorpresa, con getti d’acqua e giochi di fontane. Ma furono gli orientali a far scuola nell’arte di progettare il verde, anche se i grandi giardini francesi di Versailles ne esalteranno le meraviglie, con quelle linee precise cui però si opporranno i giardinieri inglesi. Già: gli inglesi e i loro spazi aperti
divennero esplosione di colori, di piante disposte a parcelle, di vivaci commistioni.

Giunta alla svolta del bosco, mi si parano di fronte due signore che mi sorridono, materializzate tra il profumo di menta gelata e quello dei geranei odorosi che impregnano l’aria ad ogni mio passo.
Forse una musica ci accompagna, scritta da Richard Harvey, la stessa di un vecchio film che narra di un giardino indiano…

La prima che mi viene incontro è Ruxmani, una donna indiana di mezz’età e, nella storia che raccontiamo, ambientata a metà degli anni 80, abitava un modesto appartamento facente parte di un agglomerato di case in Inghilterra.
Helen, invece, è una donna inglese, vedova, di vecchia generazione, discreta, aristocratica e metodica.
Dalla fantasia di Elisabeth Bond, che compose una sceneggiatura ridotta all’essenziale e povera di parole, nacquero questi due personaggi, affidati al talento di due grandi attrici: Madur Jaffrey e Deborah Kerr.

Impiantare un giardino indiano sarebbe stato il mio sogno, quello del suo film mi ha allietato nel ricordo per anni, vorrei dire a Mary Mc Murray, che di quell’opera fu la regista.
Poi mi accomodo nel patio, sulla poltrona di midollino, circondata da piante non alla moda: glicini, melograni, rose antiche, calle, ortensie, astilbi, filadelfi…. Ruxmani scivola poco lontano tra le siepi di lavanda e ginestra, troppo eterea per questo mondo fatto di parole. Ma Helen sembra sorridermi.
Seduta presso la colonna di gelsomini e caprifogli che risalgono le assi della veranda, forse accenna lievemente col capo.

In un gioco psicologico tra lo spettatore e il personaggio del film, potrei trovare una risposta al periodo buio che viviamo, colmo di forti saturazioni emotive e culturali.
In fondo non fu un gioco anche quello in cui si impegnarono nel film, per esorcizzare la morte?
Costruire un luogo di delizie, tanto perfetto da divenire degno di essere inserito nei grandi giardini d’Inghilterra, che era un catalogo speciale, con visite organizzate e un contributo fisso perché fosse possibile assumere dei giardinieri che ne avessero cura per sempre.

A volte i sogni si realizzano. Divenne un film, costruito a metà strada tra la realtà e una dimensione  estatica, un abbandono poetico che diviene ancor oggi ragione di vita.

Helen perchè non mi parli del tuo giardino?
Mi ascolto dire…

Volentieri. Ma devi capire che quel giardino è una metafora del passato e la storia si svolge in un periodo del post colonialismo britannico. Io e mio marito, come molti inglesi, avevamo radici in India e quel ciclo storico ebbe moltissime conseguenze sulla mentalità del mio popolo..

Vuoi dire che il giardino è parte di un disegno generale, nel senso che descrive e simboleggia il rapporto con la civiltà indiana?
Mio marito era stato un coltivatore di thè fino al 1947 e quel giardino che ha voluto impiantare in una casa inglese è certamente un desiderio di continuità ideale di un modo di vita.

Hai ragione, la macchina da presa è inondata dagli spazi del tuo giardino, ci si bea della sontuosità degli alberi, della luce che traspare sulle foglie, dei colori dei fiori e della magia dello stagno…
Infatti è il giardino il vero protagonista, non noi, io ho solo la funzione di strumento. Vedo il giardino ed esso cambia me e coloro che sono con me, che vedono attraverso i miei occhi.

Una specie di magia della natura. E in che misura il giardino può divenire metafora anche della vita?
Vorrei che tu lo scrivessi: nel film io ero una vecchia inacidita, distaccata completamente dal mondo moderno, mi illudevo di poter mantenere distanza da tutto in una piccola oasi.
Ogni tanto le immagini dei colori dell’India, della nostra vecchia vita, affioravano; mio marito che era stato sempre presente (ma allo stesso tempo distante)… tutto questo mi obbligava a credere che fosse stata la vita migliore che avessi potuto augurarmi…

E invece non lo era, cosa ti è accaduto?
L’arrivo di Ruxmani, cambiò tutto. Sì, perché vedi, questa donna che diventò mia amica era parte di quello che avevo lasciato, una donna modesta, servizievole, ma immensamente saggia. Se da un lato manteneva quei modi cui eravamo abituati, metteva anche in crisi con la sua presenza il mio vecchio sistema di valori. Questo è il punto, il contatto con un’altra civiltà amplia sempre gli
orizzonti e ci rende più forti, più noi stessi, includendo l’altro.

Ma eravate anche divise da due diverse nazionalità…
Ruxmani viveva un dramma uguale e contrario al mio: sognava il ritorno al proprio paese d’origine e stentava nel convincere il marito che fosse la scelta migliore: alla fine mi chiederà aiuto per convincerlo.

E tu lo farai ?
A malincuore. Ruxmani mi vedeva come donna forte, decisa, ma la poesia era tutta dalla sua parte, perché possedeva una forza e una coerenza sconfinate: fu lei a permettere che pian, piano mi sciogliessi dalla durezza e dalla cupezza del dramma non superato, dalla profonda solitudine. Solo i ritmi del giardino mi tennero attaccata alla vita, mentre il resto precipitava. Se osserverai bene la
casa era lasciata a sé stessa, solo il giardino importava.

E alla fine del film riuscirai a vedere in te stessa? A capire i meccanismi negativi insiti nel sentirsi superiori e fondamentalmente razzisti nei confronti di un altro popolo?
Direi di sì, ma non è tutto nel dialogo, piuttosto nei gesti, nelle nostre mani che si sfiorano mentre accudiamo il giardino, nel mio essere brusca e nel suo venirmi incontro, nella tenerezza con cui mi cura quando mi trova in giardino priva di sensi, dopo una caduta…

Sembra che ci sia una progressione musicale, tra chiusura e timidezza estrema e poi l’apertura con cui giungi a parlare di problemi molto intimi…
Sì, nella scena in cui Ruxmani mi chiede perché non abbia avuto figli e come erano i rapporti sessuali con mio marito. Prima avrei rifiutato di parlarne, invece mi lascio andare a quella confidenza, anche con un po’ di ironia, direi…

Da quel momento è il giardino che conduce il gioco delle vostre due memorie, per te ad esorcizzare la morte del marito e per Ruxmani a rivivere un passato che ancora ha nel cuore…
So che non dovrei dirlo, ma non devi fare caso a quello che diciamo nel film, più a quello che non diciamo, è un film che parla allo spirito, pieno di implicazioni psicologiche, dove l’immagine è fortemente evocativa, nasconde pensieri e visioni di una natura che è sempre protagonista delle umane vicende.

Sospiro e mi guardo intorno. The Assam garden (Il giardino indiano) è un film efficace, dove le parole sono ridotte all’essenziale, mentre il descrittivismo della cinepresa è magnifico, estatico e privo di cadute di tensione.

Un ritorno spirituale è legato a tutto quel verde che sprigiona la forza di cui ho bisogno per imprimere una svolta al presente.

La stessa che serve al mio di popolo, in questo momento, per non venire trascinato a fondo nel buio.
Il verde come emblema di rinnovamento, di forza, di natura, di fiducia, in opposizione all’ovvietà, al buio, alla schiavitù.
Lo stesso che è servito a Ruxmani per riottenere coscienza di sé e tornare in India e a Helen per riprendere possesso della sua vita.
La macchina da presa affonda negli spazi di questo giardino, percorre sentieri nascosti, risale la maestosità degli alberi, la rugiada sulle foglie, ma anche i fiori tenui, radiosi della luce che vi traspare attraverso… un linguaggio che tutti siamo in grado di intendere, perché ne siamo parte.

Non ci arrendiamo al male atavico che cospira contro le vicende umane: la natura è l’athanor della trasmutazione di noi stessi e il viaggio iniziatico ha luogo ora.

Il cinema inglese ha spesso prodotto buoni film, sempre accosti alle vicende storiche e culturali, che dalle peripezie individuali conducono a tematiche globali, riguardanti non solo le radici della società inglese.
E se sembra difficile scovare un disegno generale in questo film è perché di primo acchito vi affiora una vicenda intima, ricca di punti di vista. Di armonie originali, risolte nella fotografia dai colori pastosi di Bryan Loftus, che completa il quadro del film.

Non mi stupisce che il produttore Nigel Stafford-Clark abbia creato per la sua famiglia un giardino molto simile, altrettanto speciale, ricco di colori pastello, di sogni espressi, di sottili sussurri tra l’espansione del verde e delle gemme. Ma questo è il nostro segreto: di noi che abbiamo  apprezzato quel vecchio film, quelli di noi cui è rimasto dentro, come uno scrigno da aprire alla
bisogna perché spanda luce.

Forse il buon cinema è proprio questo: una commistione generosa tra l’immagine e la validità di una buona sceneggiatura.
Forse lo è anche la vita.
Vedo le due donne allontanarsi e scomparire in fondo alla radura, la brughiera canta gioiosa al sole che è alto sull’orizzonte: c’è ancora molto da fare nel nostro giardino…

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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