Fiori di ginestra per Coline Serreau

il pianeta verde

“E tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni”.
Giacomo Leopardi
Se potessi offrire un fiore a Coline Serreau, musa ispiratrice, sorella di spirito, sceglierei la ginestra. Attrice, regista, compositrice, danzatrice, trapezista, non solo per abilità ginnica, ma anche per l’audacia di anticipare temi che avrebbero animato il dibattito negli anni a venire, per lei non è stato facile scegliere un fiore.

Ma una poesia mi è venuta in aiuto: i film di Coline sono spuntati in mezzo al deserto, proprio come La ginestra cantata da Leopardi. La regista incontrò un deserto di insensibilità per certi argomenti, che venivano archiviati come bizzarrie o peggio.

Alla ginestra, il malinconico Giacomo dedicò il suo penultimo componimento, a cui antepose una rilettura di un verso del Vangelo di Giovanni: “E piuttosto che la luce gli uomini vollero le tenebre”: era ateo e attribuiva la luce alla verità, che è sempre stata il cruccio della nostra specie.

In quegli ultimi momenti a Napoli, in cui poetava lontanando la morte, passò dalla natura matrigna al messaggio di speranza della ginestra, che lui osservava prosperare a dispetto del terreno bruciato dalla lava del vulcano.

È stata la malattia del mondo colpevolizzare la natura per i terremoti, le inondazioni, le carestie, come se ci fosse tutto dovuto, affetti da quell’antropocentrismo che ci convinse di poter depredare all’infinito le risorse naturali.

Ciononostante, la natura ci ha sempre dato un’altra possibilità e poi un’altra ancora.

Anche i film di Coline Serreau fioriscono come le ginestre, di anno in anno hanno diffuso la loro fragranza a dispetto della civiltà malata e decadente.

immagine per Coline Serreau
Coline Serreau

Vedendo per la prima volta il suo film Il pianeta verde (era il Solstizio d’estate e le ginestre iniziavano a fiorire) me lo aspettavo un po’ naïf e utopista, come qualcuno lo aveva descritto in una recensione. Era una stagione torrida, in cui aspettavo un bimbo che non sarebbe mai nato. Nacque invece una consapevolezza ancor più profonda di Gaia.

Da quel giorno Coline divenne come una profetessa, ai miei occhi, dalla lingua fulminea e dalle proprietà oracolari, che aveva infranto le regole con tanti film. Già nel lontano 1977, questa regista eclettica aveva scompaginato il dramma alla Jules et Jim di Truffaut (1962), trattando non solo della coppia aperta in chiave comica, ma alzando il tiro: la convivenza di un omosessuale, un bisessuale e una donna, che poi diviene un quadrilatero (Perché no?, 1977).

La sua commedia Tre uomini e una culla (1985), mostrò come i ruoli dovessero divenire intercambiabili nella cura dei figli e le regalò la popolarità mondiale, con una candidatura all’Oscar come miglior film straniero ed un rifacimento Hollywoodiano firmato Leonard Nimoy. Nel corso della sua carriera ha composto musica, ha scritto per il cinema e per il teatro, ha diretto documentari e film, di cui due per la tv, ed è stata sceneggiatrice.

Una ricapitolazione emotiva, quella delle opere realizzate da Serreau, che obbediscono ad una narrazione che dissesta l’arco temporale, prevedendo uno scenario a venire, come in Romuald et Juliette (1989). Sono commedie intelligenti, urticanti, precorritrici.

Se vi trovaste ad un bivio e foste stanchi di come vanno le cose, avventurarvi in un’opera di Coline Serreau può cambiarvi la vita.

Il pianeta verde (1996)

Poco conosciuto dal grande pubblico e mal ricevuto dalla critica di allora, il suo film Il pianeta verde (1996) ha suscitato un apprezzamento sempre maggiore da parte di entusiasti sognatori, attivisti verdi, ecologisti, animalisti e non solo, perché quel che conquista è la leggerezza. Anche in Italia, a dispetto di una traduzione disattenta dei dialoghi, il film ha affascinato due generazioni di idealisti.

Novantanove minuti spesi bene, visto che tocca temi molto in voga, come il consumismo, il conformismo, il degrado ambientale, con un pizzico di ironia che le permette di trattare argomenti scottanti senza appesantire il contesto.

Le scene iniziali si aprono su di un pianeta lontano dove vive un popolo simile al nostro, ma molto più avanzato, che ha optato per un ritorno completo alla natura. Ad accoglierci niente musica, solo degli altopiani verdeggianti e poi occhi ripresi in primo piano dalla telecamera: animali e bambini ci osservano dallo schermo.

Dall’alto vediamo gente in cammino, formichine che brulicano inerpicandosi per i pendii, mentre l’acqua dei torrenti scorre fragorosa. La moltitudine sta raggiungendo l’incontro annuale delle popolazioni, dove tra l’altro si decide chi debba recarsi su altri pianeti per scambi culturali. Ma nessuno ha voglia di recarsi sulla terra, che non sembra essere ritenuto un luogo piacevole.

Solo Mila, per ragioni personali, si offre di partire. Conosciamo Coline Serreau nei panni di questo personaggio, la cui vita si svolge in una società ideale dove le regole sono lo scambio vicendevole, disinteressato, dove gli sport sono praticati per gioco da grandi e piccini, senza cimentarsi in gare, dove i bambini studiano la telepatia, l’intuito, l’archeologia.

Per vivere semplicemente nello stato di natura non ci vorrebbe molto: rispettare la terra e i suoi abitanti, tornare a curare i malati anziché i sani, ristabilire la giustizia, eliminare le frodi. Purtroppo è più facile che accada come sostiene Max, un personaggio del film, quando spiega che il modo più efficace per imporre un comportamento al prossimo è attraverso la paura: è più rapido che spiegare o trovare soluzioni (“le meilleur moyen de faire revenir la mère, c’est de faire peur à celle-là”).

Ma la situazione di natura, dice Platone nel terzo libro delle leggi, è anche la condizione in cui gli uomini vennero a trovarsi dopo che immani catastrofi ebbero distrutte le loro città.

Forse la storia si ripete. Forse per conquistare lo stato di natura, quello anteriore alla costituzione della società civile, bisogna passare attraverso molti guai.  Beninteso Platone non lo considerò una condizione idilliaca, come non lo fu per altri filosofi, come Hobbes, dato che gli uomini, uguali per natura, “hanno gli stessi desideri e così cercano di soverchiarsi a vicenda finché non trovano nel potere sovrano il solo modo per uscire dallo stato di guerra proprio della natura dell’uomo”.

Eppure non fu Seneca a descrivere quell’età dell’oro in cui gli uomini vivevano semplicemente felici senza aspirare ad avere sempre di più?

Così il progresso stesso condusse alla corruzione e di conseguenza all’istituzione dello stato.

L’esaltazione di Rousseau per la natura, lo portò a giudicare gli uomini incapaci perché non utilizzavano l’istinto infallibile che possedevano. Anche Locke aveva criticato Hobbes, indicando lo stato di natura come perfetto, qualcosa che somigliava molto all’anarchia.

Kant ritenne che non v’era giustizia nella distribuzione delle risorse. Ma, dopo Hegel, che polemizzò a riguardo, l’argomento non interessò più nessuno. Eccetto nei film.

E qui torniamo a noi, creature che popolano Madre Terra, il pianeta che accoglie questa stirpe dai natali incerti, che ha schematizzato il mondo dividendo lo spirito dalla materia.

Per fortuna, nella favola di Coline tutto è più semplice perché il cambiamento di coscienza può essere prodotto con un semplice gesto: Mila, infatti, una volta recatasi sulla terra, ha il potere di disconnettere la gente dal sistema di valori a cui è assuefatta. Un vero e proprio shock, perché il risveglio avrebbe bisogno di molte generazioni per prodursi spontaneamente.

Chi viene disconnesso si accorge che tutto quello a cui aveva dato importanza non ne ha e che nel frattempo sta perdendo ciò che conta davvero. Taluni sembrano impazzire agli occhi di altre persone ancora connesse, prima di recuperare uno stato di quiete e purezza. Ma la disconnessione non è un dictat, Mila non disconnette tutti, anche se con alcuni, più predisposti, le basta parlare perché questo avvenga.

“Dopo l’era industriale da noi ci sono stati i Grandi Processi. Chi fabbricava prodotti nocivi per la salute degli umani, degli animali e delle piante, è stato accusato di Genocidio e Crimini contro il Pianeta. Le Industrie Agroalimentari e Chimiche, i fabbricanti di Armi, Tabacco e Alcool, le Industrie Farmaceutiche e nucleari, i costruttori di automobili, gli Architetti, Medici e Politici che si erano arricchiti lasciando fare… E’ stata la Guerra Civile. E poi il Boicottaggio. Tutto quello che era stato nocivo per la salute non si comprava più, o si buttava. Fu l’arma vincente, senza vendite niente potere, l’esercito e la polizia erano impotenti…” (da “Il pianeta verde”)

Ho notato che chi assiste al film viene tentato da questa prospettiva, oppure la rifiuta a priori, ma non può rimanere indifferente. I più evoluti della terra, a parere dei figli di Mila, appartengono agli esponenti delle ultime tribù primitive e questo scombussola il modo in cui ci hanno insegnato a concepire la società. Ribalta i valori in base ai quali ci si considera progrediti. Potrebbe sembrare un invito a  vivere senza apparecchi tecnologici, ma è piuttosto un incentivo a considerarli non strettamente necessari come si vuol far credere.

La pubblicità è sempre in agguato per creare nuovi bisogni. Il rossetto per le labbra di cui Mila si stupisce (lo suppone usato “per essere amati dagli altri”) è uno dei tanti esempi di bisogno indotto. Il maquillage può essere piacevole come dipingere una tela, l’importante è non cadere nell’obbligo di doversi truccare per poter essere accettate.

Concetti difficili per una società basata sulla sofisticazione e sull’apparenza.

L’istigazione all’omologazione è un’arma subdola adoperata a tutti i livelli e la rapidità con cui oggigiorno conduciamo le nostre vite, non permette sempre di analizzare cosa stia accadendo o di cosa siamo divenuti schiavi. Nessuno ci risveglierà da questo stato, perché di certo nessuno pagherà programmi televisivi e pubblicità martellanti affinché questo avvenga, perciò tocca a ciascuno di noi.

Internet e i social la fanno da padrone, come la televisione all’epoca del film. Liberarsi del computer o dello smartphone, come Max gettava la tv tra i rifiuti, non è indispensabile, l’importante è riuscire ad usarlo senza esserne usati, non giungere alla dipendenza o, nel caso fosse già accaduto, disassuefarsi (come insegna un simpatico fumetto edito dalla Troglodita Tribe, dal titolo Tecno Digiuno).

Destarsi non è facile, perché veniamo connessi da bambini: siamo nati liberi, con menti formidabili, in grado di guardare oltre l’orizzonte a nuove possibilità, nuovi mondi, storie alternative, prima di venire inquadrati. Quante volte sentiamo dire “mio figlio è troppo fantasioso, troppo sensibile, troppo collerico o troppo distratto”, come se lo si dovesse riportare alla concretezza di una norma prestabilita.

Il punto è che pensiamo di poter controllare tutto con la logica: dall’educazione, che ha perso il suo significato etimologico, alla conoscenza, che adeguiamo a criteri utilitaristici, e in base a questa pretesa regoliamo il mondo.

Ne La Belle Verte, comprendere la natura e l’uomo che la popola, con animali e vegetali, non è conoscerla, all’atto del conoscere soggiace un tentativo di appropriarsene, sezionarla o anche mitizzarla per poterne fare un oggetto di consumo.

Tutto questo e molto di più nei film di Coline Serreau, un’ anacoreta del cinema che non insegue la fama e il successo, ma continua a conquistare molti cuori ad una visione luminosa.

Poco alla volta, un nuovo pensiero si fa strada: la natura non può essere posseduta, non può essere oggetto di commercializzazione, ma non può neanche essere presa a pretesto da nuove industrie che, col marchio verde, vogliono vendere di più col minimo impegno, o per la costruzione di nuovi tipi di centrali nucleari che promettono di essere più sicure e di produrre meno rifiuti (sta accadendo anche in Italia, dato che i due referendum vinti dal “no al nucleare” riguardavano solo le centrali a fissione ).

Ripensare la vita sulla terra è la nuova sfida, ma c’è chi sostiene che non ci sia più tempo e parla di una sesta estinzione della razza umana.

L’immortalità a cui aspira l’uomo non è della ginestra descritta da Leopardi, poiché  essa è saggia. La sua finitezza è anche la sua forza e ci rende consapevoli. Per questo mi auguro che i bambini lascino gli schermi dei computer e tornino a giocare in strada e nei parchi, i pittori coi loro cavalletti a ritrarre i paesaggi lungo le rive dei laghi e agli angoli delle vie, i menestrelli a cantare, i teatri per sognare.

Oggi ci sono troppe immagini digitalizzate, troppe parole. L’intuizione muore quando la sensibilità per coglierla è attutita dal frastuono. Allora ben vengano i concerti di silenzio del pianeta verde.

Serreau è una regista che con la sua saggezza ti riporta bambino e al tempo stesso ti invita alla comprensione, un atteggiamento proprio della mente-cuore degli antichi taoisti, l’organo attraverso il quale tutte le scelte della società andrebbero compiute. Per questo le macchine non potranno controllare il mondo senza divenire pericolose, una volta raggiunto un livello considerevole di efficienza (ne abbiamo parlato qui).

Il computer non possiede senso dell’humour, non capisce le metafore, non conosce il pianto e non sa sorridere, come può organizzare la vita degli uomini? Il potere alle macchine renderà ferrea l’imposizione, come la fiducia globale che vogliono costruire le Big Tech, che rende implicito il concetto di verità globale.

Una verità senza falle, e sono pure convinti che esista…

La Belle Verte è un film meraviglioso, ricco di insegnamenti preziosi e bisogna vederlo più volte per comprenderne tutti i messaggi.

Coline ha seminato sogni per celebrare la vita, ognuno di noi li coltiverà, se vorrà, e lo farà col suo tempo perché, come dicono nel film: “è come per l’insalata, tirarla non la farà crescere prima”…

 

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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