La luna di Natale 

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Il suono della campana echeggiava solitario sulla città di Nottingham:
“Fra Tuck, sono sicuro che non verrà nessuno”.
“Hai ragione sacrestano, ma forse il suono della campana porterà un po’ di conforto alla gente. Dobbiamo fare quello che possiamo per mantenere viva la speranza”.
(Dal film di animazione Robin Hood, Walt Disney)

Ecco la luna di Natale, forse la quinta, come quella di tanti anni fa, compressa in un immaginario fermo e basico che somiglia a quello fatto per catturare i pokemon. Lo so bene, a Natale si parla di stelle apportatrici di letizia e non della luna, ma abitiamo una realtà aumentata che si misura con un’ombra gigantesca. Per quanto si vogliano descrivere lontani, i tempi futuri sono qui, chiusi nel nostro orizzonte che è talmente vasto da contenere ogni racconto e la sua negazione, ogni fantasia e il suo limite.

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Con questo non voglio dire di voler evadere i limiti fissati dalla parabola narrativa, piuttosto vorrei essere la protagonista di un racconto mai pubblicato di Dickens: col grigiore che si tramuta in un Natale un sacco bello, anche se di questo desiderio me ne vergogno. Penso che possa suonare puerile o addirittura grottesco (come per il Melandri quando si augura che la fanfara accompagni il funerale dell’amico giornalista, in Amici miei). La fede nella ricompensa è tutt’uno con il lato oscuro e la sensibilità religiosa è vagamente vergognosa di sé, scrisse Walter Benjamin da qualche parte.

Nel tempo dellimmaginazione, che sembra resistere, le campane potrebbero suonare a festa con un regista in grado di far vibrare le corde giuste, visto che in un film non siamo condannati all’eterna soggettività della realtà. Esistono sponde dove si può sfuggire l’omertà storiografica, con il bianco della neve, le strade accese di luci che risuonano di canti e cornamuse.
E poi ci siamo noi, che torniamo a scambiarci auguri, baci, castagne arrostite in cartocci allangolo della via.
Più di tutto vorrei leggerezza. Come quando ero bambina a Via Piave e i bagliori del Natale respiravano nella nebbia sotto le finestre.

Sto già sognando?
Come George Bailey, scenderei in strada gridando Buon Natale; volerei sulle ali dell’ultima rondine, per spargere pensieri come scaglie d’oro, pietre preziose (quelle del Principe felice, la favola più bella la scrisse Oscar Wilde).
Quei Natali passati tornerei a viverli, almeno per una notte, se solo potessi…

Accompagnerei papà al cinema a vedere quei film che piacevano a lui e non solo quelli che sceglievo io; poi andrei con mamma allopera, perché del teatro non si può fare a meno.
Mi accorgo che vorrei fare quelle cose che non ho fatto, poi di nuovo quelle che si facevano tutti assieme. Lalbero di Natale con le palline che solo a sfiorarle si infrangevano. Vincenzo, vai a comprare il puntale dell’albero, diceva ogni anno mia nonna al marito e lui prendeva ombrello e cappello e si avviava, tornando invariabilmente con un puntale che veniva acclamato il più bello di tutti i Natali. Le luci intermittenti, il presepe di nonno Arnaldo che era un teatro vivo di trame, dove dar voce ad ogni statuina. Poi il pranzo con i parenti, i ravioloni sabini di nonna Agnese, la crostata trasteverina di nonna Jolanda. Il primo pandoro che assaggiai, custodito in quell’armadietto laccato, con i vetri sottili su cui facevo scorrere la lingua di nascosto, perché li pensavo fatti di zucchero, visto che ad aprirli si diffondeva un profumo dolce di cognac.
Era un tempo in cui le radici della mia presa di coscienza non si erano fatte largo nella vita: troppa esibizione, troppo consumismo, basta cenoni e regali, risolsi da adulta, optando per feste più sobrie.

Cosè allora questa malinconia?
Unesplorazione ricca di scarti e di sorprese, scommesse e peregrinazioni che poi ci hanno coinvolto per unintera vita, a volte rovesciando i ruoli che avevamo assunti. Generazioni nellera della crisi, inadeguate, sradicate, appannate prima ancora di essere composte di imputati, i baby boomer. Invece quello era un tempo in cui tante cose ci dividevano, ma ci accomunavano anche. Non solo tra i corrilegionari cera un concetto di unione, anche tra religioni diverse, perché la pace appariva lunico criterio in sintonia con la vita.

Nei giorni che non torneranno più, cera la mia famiglia riunita a guardare i film di Frank Capra con la sua Vita meravigliosa; oppure Pomi d’ottone e manici di scopa e ci stava una prova di balletto di fronte alla tv, assieme a Mary Poppins sui tetti con lo spazzacamino.
E poi arrivò Borotalco, con Lucio Dalla che cantava della settima luna che era quella del luna park
(a che luna siamo arrivati, secondo voi?)

Non fu un film di Natale, ma poi lo diventò, di quei film che si rivedono per divertirsi e star bene. Con Enrico Oldoini (un grande creativo, “padre” tra laltro, di Don Matteo), Carlo Verdone scrisse una storia speciale: “Fantasticate, fantasticate, qualcosa resterà”, consigliò.
Film, i suoi, non solo divertenti: cera poesia, semplicità, romanità, ma anche verità.
A dirla tutta mi sento impari al compito: che si può dire di uno come Verdone, dato che ha accompagnato la mia vita con i suoi film? Dentro i suoi lavori si trova di tutto. Cosa può fare una cantastorie come me? Non molto, temo, solo raccontare quello che fu.
Per esempio, ricordo una festa presso gli Studi di Cinecittà. Tanto lontana nel tempo da rammentarne solo alcuni frame, proprio come un film. Io, una ragazzina ipnotizzata da una madrina sfavillante, Gina Lollobrigida; Carlo Verdone che giungeva sul palco rombando su di una moto per presentare un altro suo film, sempre straordinariamente generoso di sé…

Ancor oggi sarebbe l’unico capace di farci sorridere e commuoverci, magari con una nuova favola, simile a quella di Borotalco: agile, delicata, allegra, intelligente.
Verdone in unintervista affermò che non sono più quei tempi, che ai nostri giorni avrebbe dovuto cambiare situazioni e battute di quel film. Come Thomas Wolfe concluse che, tutto sommato, tornare a casa non fosse possibile.

Ma io di quel film sento nostalgia, perché Borotalco è intriso della speranza che ci animava allora. Una storia che non era solo gags e virtuosismi comici della commedia brillante di quegli anni, Verdone ne curò i dettagli, la ammorbidì; lui era sempre presente senza sovraesporsi e ci offriva una trama plausibile, condita di humor.
Fu indubbiamente un lavoro ben costruito, accattivante.
Geniale già dalla sequenza iniziale, che fece scuola: Nadia– una romantica, bravissima e bellissima Eleonora Giorgi– si prepara per recarsi ad un colloquio di lavoro. Parallelamente, in una seconda inquadratura, un personaggio goffo e trafelato, Sergio (interpretato da Carlo Verdone) fa da contraltare alla sequenza, in un susseguirsi di scene comiche.
Ecco che il film si avvia con mano descrittiva lieve, senza pretese di approfondimenti.

Poco per volta il sipario si apre sulla storia damore, sul gioco del protagonista, che diviene abile nel cimentarsi in un altro sé stesso, un io fragile che diventa coraggioso in una commedia umana sempre in bilico tra farsa e favola.
(Quello di cui ho bisogno adesso: di nessuna architravatura culturale, di nessun antidoto disincantante, solo di levità).
Il giorno in cui i due personaggi del film, complici nelle loro ambizioni fantastiche, decidono di vivere la loro storia, deflagra la realtà clownesca della commedia ad equivoci, del parossismo comico.

Ai versi immaginifici di Dalla corrisponde un senso di tenerezza crescente, in mezzo a tante risate, qualche sferzata sarcastica, che irrompe con quel gusto tutto romano per la dissacrazione che Frank Capra avrebbe fatto fatica a capire. Spazi impercettibili, affissi allombra della nostra cultura, che a saperli leggere divengono spiragli di luce, talismani fatati contro la sfortuna.
La parte distruttiva conviveva con quella costruttiva perché gli argomenti positivi potevano tradursi in negativi e viceversa, così da far affiorare diversi aspetti della realtà.

La quinta luna fece paura a tutti
Era la testa di un signore
che con la morte vicino giocava a bigliardino…

Un film dove i comprimari sono a loro modo protagonisti, felici emanazioni dell’autore e della sua cartapesta. Nel 2022 saranno trascorsi 40 anni e ancora ripetiamo le battute di Isa Gallinelli, l’amica di Nadia che si interrogava sugli attori più sexy (“E tra… Burt Reynolds e Robert Redford ?”); chi riuscì a redimersi dagli atteggiamenti della fidanzatina perfetta e noiosa (Roberta Manfredi)? Chi si ritrovò nell’ardimento e nella viltà dell’amico di Sergio (interpretato da Christian De Sica, che è sempre stato troppo bravo per qualsiasi cinema, un attore completo). In tempi cinematografici che definire felici è riduttivo, Verdone libera dall’immaginario figure come il playboy di borgata, Manuel Fantoni, l’indimenticato Angelo Infanti (m’imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana) o il mitico Mario Brega che diede vita al pizzicagnolo arricchito (Assaggia st’olive, so’greche…; Arzate a cornuto, arzate) e le cui clip sono ancora plurigettonate su Youtube.
Il divertimento fu assicurato.
Persino la sensualissima Moana Pozzi divenne liquida in quel sogno.

La terza luna uscirono tutti a guardarla
era così grande che più di uno pensò al Padreterno
sospesero i giochi si spensero le luci e cominciò l’inferno
la gente corse a casa perché per quella notte
ritornò l’inverno

L’autorealizzazione personale di un regista non ha niente a che fare col successo, ma col coraggio di essere se’ stesso, disse Frank Capra.
Oppure di capire che la vita è un gioco, interpretazione, gusto affabulatorio, che non vuol dire essere meno seri, ma di sicuro rende allegri.
Oppure non lo so. Occorre addentrarsi nel mondo della celluloide in punta di piedi per non turbare la materia di cui sono fatti i sogni. E forse a capirlo prima di tutti fu Vittorio Cecchi Gori che di quel film fu il produttore.

La seconda luna portò la disperazione tra gli zingari
qualcuno addirittura si amputò un dito
andarono in banca a fare qualche operazione
ma che confusione

Il grande Lucio Dalla accompagnò la regia dell’allora giovane Carlo Verdone con una canzone dalla musica travolgente, dai versi poetici, ricchi di paradossi e figure retoriche, di dicotomie: orrore e speranza, tenerezza ed odio.

Oggigiorno lorizzonte è cambiato: è indispensabile essere concreti, realistici e responsabili. Non cè spazio per la nostalgia, si sente dire.

Eppure…
Ehi Manuel, ti ha più chiamato Dustin Hoffman? Domanda Nadia nella scena finale di Borotalco, invitando Sergio a fingersi ancora una volta il playboy avventuriero che l’ha fatta innamorare…

Mentre raduno i fogli di questo racconto che volge al termine, mi dico che Thomas Wolfe ebbe torto.
Dopotutto grazie al cinema si può tornare a casa.

L’ultima luna la vide solo un bimbo appena nato
aveva gli occhi tondi e neri e fondi
e non piangeva
con grandi ali prese la luna tra le mani
e volò via
era l’uomo di domani

(Dedicato ai miei nipoti, Patrizio e Francesco, uomini di domani)

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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