Summit fever: vi racconto i miei eroi #2

Everest. Parete Nord

Puoi ripeterti cento volte che quel che conta è ciò che si prova, la sensazione impagabile di guadagnare la cima assieme ai compagni. Ma quando sei lassù, forse, non è così. Anche questo sarà un effetto della Summit fever?

Reinhold Messner che di certo è un eroe romantico, sostiene il bello dell’impresa e la sua essenza eroica, indipendentemente da chi tocchi la vetta. Nel 1978 salì per primo sull’Everest senza ossigeno (e due anni dopo in solitaria) e affermò che scalare è un’esperienza sempre diversa a seconda di chi la provi.

Everest. Parete Nord

Eppure, a lui la montagna rapì due fratelli: il primo, Gunther, nel 1970 sul Nanga Parbat, travolto da una valanga, il secondo, Siegfried, sulle Dolomiti per colpa di un fulmine. Fu difficilissimo riprendersi dalla morte del fratello più giovane, che era con lui quel tragico giorno e sopportare le polemiche sollevatesi tutt’attorno, come affrontare gli occhi della madre e raccontarle di quell’ultimo saluto, quando lui e Gunther si erano stretti la mano sulla montagna assassina.

Ma la montagna insegna ad essere forti e a volte restituisce ciò che ha preso…

Tornando alla spedizione di Hillary sull’Everest, sappiamo che salì a 8840 metri, solo tre, quattro metri avanti rispetto a Tenzing, secondo la versione ufficiale. Misero a punto una strategia di risalita con una situazione meteo non sempre favorevole e toccarono la cima il 29 maggio del 1953 alle 11.30.

Violarono il tetto del mondo, che nel 1700 aveva preso il nome dal cartografo gallese George Everest. Anche se la montagna ha altri nomi: Sagarmatha in Nepal e Chomolungma in Tibet e Cina.

Fu un’impresa storica come lo sbarco sulla luna, se pensate che prima di loro si erano avvicendate ben undici spedizioni. Paragonato al turismo di quota dei nostri giorni, con le corde fisse, non si può immaginare cosa fosse allora l’alpinismo. Inoltre, quando si pensa ad una scalata, ci si raffigura sempre un’impresa solitaria: troppo spesso ignoriamo il lavoro del gruppo di supporto. Tra costoro c’era l’organizzatore, John Hunt, che aveva previsto al seguito 15 alpinisti, 20 sherpa, quasi otto tonnellate di materiali e 360 portatori. A volte, fino all’ultimo, non si può sapere chi sarà designato a toccare la vetta. Di certo quello più abile ed in migliori condizioni di salute, ma concorrono anche altri fattori…

A volte mi sono chiesta se sia vero quello che sostengono gli alpinisti professionisti, ovvero che le spedizioni sfortunate rimangono scolpite nella memoria della gente, più di quelle con un happy ending.

Dello stesso parere un californiano nato nel Montana, Conrad Anker, che iniziò a scalare a 14 anni rischiando più volte la vita, vivendo avventure drammatiche e collezionando grandi successi (nello Yosemite e nel Nepal).

Il primo maggio del 1999 gli accadde però qualcosa che sarebbe rimasto impresso a marchio di fuoco nell’immaginario collettivo e niente di quello che avrebbe compiuto in seguito avrebbe potuto oscurare quella scoperta.
Infatti, nel corso di una missione esplorativa, rinvenne il corpo di George Mallory, che aveva trovato la morte a ottomila metri di quota sull’Everest nel 1924.
Incastonato nel ghiaccio, la targhetta col nome cucita sul colletto della camicia e l’ultima lettera della moglie Ruth infilata in tasca.

Non sorprende che anche questo ritrovamento abbia avuto un seguito.

La figlia di Mallory sostenne che il padre avesse intenzione di deporre la fotografia della moglie sulla cima dell’Everest, ma quella foto non fu trovata negli abiti che indossava la vittima.

Il dubbio che Mallory e Irvine fossero riusciti nel loro intento di raggiungere la cima, balena d’improvviso come una possibilità, anche se la versione ufficiale è differente. Se potessero essere ritrovate le spoglie del secondo scalatore, come annunciato da Tom Holzen, che studia il mistero da vent’anni, il dilemma verrebbe chiarito, sopratutto se avesse con sé la macchina fotografica. Ma Irvine è davvero ancora lì nella fascia gialla dell’Everest, come sostiene Holzen?

Dopo aver raggiunto la cima, durante la discesa, potrebbero essere stati travolti da una valanga: Mallory fu ritrovato dopo 75 anni con la fronte sfondata e un piede spezzato.

Anker ha raccontato la storia nel suo libro Finding Mallory on Mount Everest ed è stato protagonista del documentario The wildest dream (nel quale impersona sé stesso alla ricerca).

L’amore, l’aspirazione, il mistero: gli ingredienti c’erano tutti per un altro grande film dal titolo Mallory. Nel 2010 sembrava che Julia Roberts fosse interessata ad interpretarlo e produrlo.

Poi un altro colpo di scena, quando pochi anni fa venne alla luce una corrispondenza amorosa tra Mallory ed una maestra del Galles, con lettere che vennero rese pubbliche. Una situazione abbastanza da gossip, visto che George non l’avrebbe mai incontrata. Ma di certo l’avventuroso scalatore ebbe le sue fans…

Apprendere che l’accesso all’Everest sia divenuto oramai una specie di Disneyland d’alta quota, con le scalette che portano in vetta anche 150 persone alla volta (ed un ascensore vetrato in progetto), ci sorprende un po’ e chiarisce perché Anker avesse deciso di salire con gli stessi mezzi del 1924, ovvero allo stesso modo di Mallory e i suoi. Comunque, grazie a questo stratagemma e ad alcune segnalazioni, il rinvenimento coronò quella spedizione.

Ma il regista delle grandi ascese fu di sicuro Norman Dyhrenfurth, una vera leggenda, morto lo scorso anno a 99 anni. Una vita ricca di colpi di scena e tanta fortuna dalla sua.

Era professore alla Ucla, dove insegnava teatro e recitazione, ma era anche appassionato di tennis da tavolo, come il Tom Hanks in Forrest Gump e come il protagonista del film, gli capitò d’incontrare tantissimi personaggi della sua epoca.

Con i presidenti americani la sua famiglia aveva avuto a che fare dagli anni trenta, quando sua madre Hettie era stata invitata alla Casa Bianca per aver raggiunto la vetta del Sia Kangri -7442 metri- in Karakorum. Costei aveva anche vinto l’Oro alle Olimpiadi del 1936, l’ultima edizione in cui venne giudicato l’alpinismo, ma in spregio al regime nazista, aveva disertato la premiazione.

Nel 1962, Norman tentò di presentare al presidente John Fitzgerald Kennedy la sua idea per una missione sull’Everest, ma quello era troppo occupato con i missili a Cuba. Vi riuscì l’anno seguente, ma non fu la sua prima salita sul tetto del mondo. Vi era già stato nel 1952 come cameraman, al seguito di una spedizione svizzera che aveva fallito. Quella del 1963 fu un’impresa che costò 400000 dollari: Norman salì con la sua pesante 16 millimetri fino a 8700, dando prova del talento che aveva coltivato fin da bambino, quando aveva assistito alla proiezione del film L’inferno bianco del Piz Palù con Leni Rifenstal.

Realizzò così il film Americans on Everest.

In seguito girò anche pellicole che non trattavano la sua passione per la montagna e come aiuto regista firmò Cinque giorni un’estate e Assassinio sull’Orient Express e fece la conoscenza di Clint Eastwood e Sean Connery.

Un fatto curioso gli era accadduto anche nel 1957: contattato da un ricchissimo possidente, Tom Slick, gli era stata proposta una spedizione alla ricerca dell’abominevole uomo delle nevi. Il film Search for the yeti fu distribuito nel 1988, ma dello yeti nemmeno l’ombra.

Mi sono chiesta spesso cosa possano aver provato questi eroi arrivando in vetta. Ma ancor di più vorrei sapere cosa si provi al cospetto di quel ricordo.
Molti confessano che sia non tanto la gioia finale, che spesso la mente tende ad oscurare, ma i momenti della scalata, le piccole e grandi conquiste che sono il cimento di ogni giorno.

Forse non è diverso da quel che accade a noi quaggiù.

Chi possegga l’atteggiamento dell’esploratore (e il gusto del ribelle), non si accontenta delle pianure della vita, ma vuole spingersi più in là, dove tutto sia più impervio, fino a conoscere il volto di Dio…

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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