Fratelli di mare

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Ci sono storie meravigliose, difficili da dimenticare, altre che addolora ricordare, su cui la mente si impiglia, come presa in una rete: la nostra civiltà incagliata in uno scoglio.
Nel silenzio prima dell’alba, quando i pensieri ti appartengono davvero, spesso mi torna in mente un pescatore. Mi capita di pensare a lui, alla luna dei naviganti, alle sue storie marinaresche, che assicurava si tramandassero di padre in figlio.

Partiti alle 4 del mattino dal porto di Ancona, al seguito delle paranze, un po’ per la passione del mare, un po’ per curiosità, io e alcuni amici facemmo la conoscenza di un vecchio uomo di mare.
Dopo un primo momento di esaltazione, tra lo sciabordio delle onde nella notte liquida, senza luna, le luci del porto in lontananza e la brezza salmastra, giravamo infreddoliti sul ponte, con una tazza di caffè caldo tra le mani, in attesa di vedere lo spettacolo dell’alba dal mare.

Una volta che i pescatori avevano gettate le reti, il più anziano degli uomini a bordo si sedeva accanto a noi e accendeva la pipa. Era il segnale che stava per iniziare a raccontare. Come avrebbe fatto un’altra volta ed un’altra ancora, tutte le volte che saremmo tornati con nuovi amici.

Quel tabacco esalava un profumo dolce, la sua voce era priva di sfumature, le narrazioni affascinanti, ma anche terrifiche. C’erano tesori favolosi custoditi nei fondali, mostri marini o pesche miracolose, pirati, schiavi e galeotti, ma anche navi fantasma avvistate veleggiare senza nessuno a bordo. Ognuno aveva il suo motivo per solcare il mare e quel motivo apparteneva alla natura di quell’uomo e solo alla sua.

Il mare ti obbliga sempre a rivelare chi tu sia, ammoniva il pescatore.
…Tra la gente che affronta il mare corre un filo sottile, se hanno una speranza nel cuore, il mare li terrà uniti dovunque andranno, qualunque cosa avvenga, per sempre, saranno fratelli di mare…
Il mare è di tutti, seguitava, il mare è generoso o avaro, ma da sempre custodisce i sogni della gente…

 

Di tutti coloro che lo hanno solcato per procurarsi il cibo di cui sfamare la famiglia, alla ricerca di fortuna, o di un posto migliore dove vivere. Dall’alba dei tempi…

Come il mio bisnonno Angelo, che nel 1905 si imbarcò per l’America: discendeva da quella che fu detta la stirpe del barile perché il padre, un irlandese che si sospettava essere stato un galeotto, si era salvato aggrappandosi ad un legno, dopo aver fatto naufragio durante una traversata a bordo di una nave inglese.

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La via del mare la prese pure Leone, detto Carnera, figlio di Angelo. Il mio prozio era un ragazzone che tirava di boxe nei tornei ed era uno strenuo ammiratore del grande campione del pugilato, ad un certo punto attraversò il Mediterraneo per recarsi in Etiopia, dove comprò una fattoria, mise su famiglia e non tornò più.

Anche quella del regista Gianfranco Rosi, è una storia di mare. Il suo film vinse l’Orso d’oro al festival di Berlino, oltre a molti altri riconoscimenti; nel 2017, il suo lavoro venne candidato all’Oscar nella sezione documentari.

La storia si svolge a Lampedusa, un sasso nel Mediterraneo, dove tutti sono marinai e dove un bimbo di nome Samuele apprende l’arte di andare per mare. Siamo nell’odierno, ma potrebbe essere ambientato 50 anni fa. Le anziane donne osservano il mare e sperano che i loro uomini tornino salvi a casa. In tempo di guerra, di notte, ricorda la nonna del piccolo Samuele, passavano le navi militari lanciando razzi luminosi e il mare arrossava… come in un vecchio swing, che risuona dalla radio della cucina: Fuocoammare.

Potrebbe essere una storia di mare come tante altre, fatta di bramosie e attese, mentre ci si misura con la forza degli elementi, perché il mare non è sempre calmo e pescoso. Ad assisterli un vecchio medico dell’isola, Pietro Bartolo, che accoglie chi abbia fatto affidamento su questa vita per sostentare la famiglia ed è avvezzo alla rudezza, alla caparbietà della sua gente, il cui orizzonte è segnato dai flutti. Ma un giorno Bartolo ha iniziato ad avere nuovi pazienti da curare e ne arrivano sempre di più.

Nel film, la marina circondariale risponde ad un’ennesima richiesta di soccorso, elicotteri e la guardia costiera si attivano per rintracciare il natante che ha lanciato l’ SOS. Il medico non è un attore, svolge davvero quella professione sull’isola. E’ stremato, come ripeterà nel suo libro Le stelle di Lampedusa, dove mette a nudo la sua rabbia e il suo rancore, ma anche la sua speranza. Nel film mostra una foto di un barcone con a bordo 860 persone, narra di chi non ce l’ha fatta.

La parte finale del film è quella che fa incagliare la ragionevolezza, quella che causa più sofferenza. Illustra come si svolga il viaggio di queste persone scampate a fame, miseria e persecuzioni, disposte a tutto per conquistare una vita diversa. Mostra come si muore di sete e per fame d’ossigeno, ammassati uno sull’altro nelle stive…

Il mare è di tutti, il mare è generoso o avaro e da sempre custodisce i sogni della gente. Ci sono storie che è difficile dimenticare, ma che addolora raccontare.

 

La storia di Jamal

 Il mio nome è Jamal, avevo 17 anni quando partii, la mia era una famiglia felice in Nigeria, i miei curavano un piccolo spaccio e io e mio fratello andavamo a scuola. Purtroppo mio padre un brutto giorno morì e mio zio, cioè suo fratello, cercò di accaparrarsi lo spaccio in ogni modo: mia madre, per paura, glielo cedette.

Sperava di aver sedato la sua cupidigia, ma lo zio era cattivo. Era anche amico dello stregone del villaggio e intratteneva rapporti con molti personaggi importanti e capoclan. Quindi iniziò a perseguitarci. Ci aveva sempre odiati perché mio padre aveva avuto figli maschi e lui no. Visto che i primogeniti maschi delle famiglie hanno un’importanza speciale nel clan familiare, decise che dovevamo morire.

Prima di tutto se la prese con mio fratello e gli avvelenò il pasto, lui stette malissimo e quasi morì in ospedale. Quando tornò a casa era dimagrito di 20 kg. Però lo zio non era soddisfatto e ci odiava talmente tanto che una notte, mentre ero fuori con la mia fidanzata, entrò in casa nostra armato di ascia e tagliò di netto la testa a mio fratello che dormiva.

Quando tornai, le grida di mia madre si sentivano di lontano, entrato in casa la trovai imbrattata di sangue e all’inizio pensai che si fosse ferita, poi vidi che su tutte le pareti c’erano schizzi di sangue. Fu lei che, tra le lacrime, mi diede tutto il denaro che aveva messo da parte con mio padre e mi pregò di scappare prima possibile, visto che al villaggio erano tutti amici dello zio, nessuno ci avrebbe difesi.

Così mi organizzai con la mia fidanzata e ci affidammo a certi conoscenti che organizzavano carovane verso il deserto del Sahara per raggiungere la Libia, dove Gheddafi stava costruendo strade ferrate e assumeva manovalanza. I soldi non bastavano per il viaggio di noi due, ma ci dissero che appena arrivati avremmo trovato lavoro e allora qualcuno ci avrebbe contattati e avremmo saldato il debito.

Cominciò in questo modo il nostro viaggio a bordo dei pick up; la mia fidanzata, che era al terzo mese di gravidanza, vomitava spesso, anche perché a volte ci toccava un posto sul fondo del veicolo e capitava che prendesse calci e contraccolpi. I pochi viveri terminarono presto, ma ancora ci si fermava ogni 10 ore a rifornirsi, invece, quando il convogliò cambiò di mano, i nuovi arrivati non ci facevano scendere e allora la gente orinava o defecava dentro la vettura.

Iniziammo a patire la sete e la mia fidanzata piangeva così tanto che io volevo interrompere il viaggio prima di arrivare a destinazione, per farle riprendere le forze, ma non era possibile: ci avrebbero lasciati indietro e avremmo perso tutti i soldi. Fu lei a volere che proseguissimo.

Desideravamo con tutto il cuore una vita in pace, un lavoro, la nostra casa e il nostro bambino e tutto questo sembrava troppo vicino per rinunciarci. La prossima tappa era il deserto ed era quello che ci faceva più paura, ma eravamo giovani e lo affrontammo senza pensarci troppo.

Finché non lo attraversi non puoi capire cosa ti aspetti, anche se hai sentito altri che te lo raccontavano. Noi lo abbiamo attraversato con la forza della disperazione, spesso a piedi in marcia forzata. L’ultimo tratto è stato fatale alla mia fidanzata. Era notte e tremava, io cercavo di coprirla col mio corpo dal freddo. All’improvviso mi ha dato un bacio e mi ha fatto un sorriso strano, io credevo che stesse meglio e mi sono addormentato. La mattina dopo era morta.

Non l’abbiamo neanche potuta seppellire, la dovetti abbandonare così, dietro di noi, come tanti altri corpi che avevamo visto lungo quella strada, accanto alle carogne di animali. I carovanieri erano gente con cui non si poteva scherzare, erano armati e pericolosi, mi avrebbero fatto proseguire comunque. Non so come ho avuto la forza di ricominciare a camminare. Pensavo a mia madre, pensavo che sarebbe stato quello che lei e mio padre avrebbero voluto e che, un giorno, sarei tornato al villaggio per darle una vita decente.

Arrivati in Libia, dopo un periodo durissimo negli smistamenti, ho ottenuto un lavoro e un luogo dove vivere. C’era molto da fare a costruire le autostrade e assumevano anche gente senza esperienza. Fu meglio, perché non c’era tempo per pensare. La notte per fortuna ero troppo stanco per guardarmi indietro e piangere.

Pochi mesi dopo ci fu la caduta di Gheddafi, ma non posso dire che le cose siano andate meglio. Rimasi senza lavoro, completamente sbandato; nei centri di accoglienza seppi che certa gente stava organizzando un battello per raggiungere l’Italia. Io avevo risparmiato qualcosa durante i mesi di lavoro, così pensai che la cosa migliore fosse proseguire e cercare di raggiungere la Germania dove lavorava un mio cugino.

immagine per Fratelli di marePagai con tutto il denaro che avevo, in fretta e furia, sperando di partire subito. Invece passò un mese, in cui riuscii a sopravvivere solo grazie a questi amici di un paese non lontano dal mio, che mi diedero anche un numero di telefono di connazionali da chiamare quando fossi arrivato in Italia: gente che poteva aiutarmi, dissero.

Io non ero mai andato per mare nella mia vita e quello che vidi fu quasi peggio del deserto. La gente sul barcone era assetata e affamata, tutti stipati, io sul ponte, assieme ad altri e molti, molti altri nelle cabine e sottocoperta. Sopratutto uomini, ma anche donne, alcune incinte, e bambini, alcuni molto piccoli. Non saprei dire chi fossero perché era vietato aggirarsi per l’imbarcazione. L’odore di nafta rendeva l’aria irrespirabile, quel combustibile si spargeva anche sul ponte e procurava brutte scottature che buttavano pus e divenivano maleodoranti; all’inizio qualcuno cantava, ma poi delle urla provenivano dalle stive ed era vietato alzarsi e men che meno andare ad aiutare.

Ce la faccio, mi dicevo, resisto. All’arrivo ero febbricitante, ma vivo. A Lampedusa sono stato curato e accompagnato in un posto dove ci hanno dato da mangiare e da bere. Molti erano morti nella traversata e venivano portati via in sacchi neri. Oramai ero abituato a vedere gente morta. Giorni dopo un interprete mi spiegò che avrebbero avviato una procedura che prevedeva un processo dove dovevo dimostrare di non essere un clandestino sbarcato illegalmente, ma un rifugiato, così mi avrebbero assegnato un avvocato.

Ma io non potevo, gli dissi, non potevo testimoniarlo perché la mia storia era diversa, avevo un altro motivo grave per scappare dal mio paese e speravo che il giudice avrebbe capito. Ora sono in questa città delle Marche insieme ad altri profughi e ho ripreso a sperare, ma vorrei lavorare; abitiamo in 5 in un appartamento e abbiamo cibo in abbondanza, aspetto che il mio avvocato mi faccia sapere del procedimento, perché intanto ho fatto ricorso contro la sentenza di espulsione… altrimenti dovrò tornare al mio paese e lì, di certo, sarò morto, e tutto sarà stato inutile.

Quando con mio marito incontrammo Jamal all’uscita di un centro commerciale, rimanemmo subito colpiti dalla sua mitezza e pensammo di trovargli un lavoro con l’aiuto della Caritas. Un giorno lo invitammo a pranzo e Jamal ci raccontò la storia che ho appena riassunta. Lo incontrammo ancora e fu straordinariamente affettuoso e felice di vederci, ci abbracciava, ci presentava ai suoi amici ed ebbi a riflettere sui valori di fratellanza e scambio sincero che nella nostra società abbiamo perduto.

Ma quel che si rischia, in queste amicizie, è di mantenere un atteggiamento occidentale, paternalistico, e quindi ho voluto che fosse lui a raccontare. Anche se la traduzione dall’inglese è mia, sono sue le molte pause, gli occhi arrossati di lacrime, la ricerca del termine esatto e la voce, a volte stentorea, a volte risonante o stridula, l’interrompersi inaspettato per dirci che noi italiani mangiamo “crudo” (pensai che si riferisse alla frutta e volesse dire acerbo, ma mi corresse: tutto il cibo che consumate è crudo, rispetto a quello frollato dal sole di mamma Africa).

Non lo vedemmo più, non sappiamo se sia stato reinstradato nel suo paese. Appresi da alcuni volontari che non avrebbe potuto impiegarsi in alcun lavoro finché non avesse risolto i suoi problemi legali, ecco perché si offriva di riporre i carrelli all’uscita dei supermercati, in cambio di qualche spicciolo.

Sono uno scafista come Mosè

L’istinto di viaggiare per cercare posti migliori in cui vivere è insito nell’uomo, ma dovunque ci sono persone che lucrano su queste traversate. Tempo fa lessi che uno di questi scafisti aveva asserito di essere come Mosè e che Mosè era stato il primo scafista della storia.

A pensarci bene, gli uomini si sono sempre spostati da prima che inventassero le frontiere, ma oggi è il nostro mondo capitalistico ad incrementare una vera e propria imprenditoria criminale. Armi, droga, ma anche uomini. Così come ci sono popoli in fuga in molte parti del mondo, diretti verso nuovi Eldorado e altrettanti scafisti pronti a farti varcare tutte le frontiere.

Ci sono scafisti in Libia, scafisti in Siria, scafisti in Turchia, scafisti in Messico… ma sono solo pesci piccoli al soldo di complicatissime organizzazioni criminali. La caratteristica struttura di network che posseggono questi business, li rende diversi da quelli mafiosi ed è il motivo per cui riescono a far perdere le tracce ai magistrati italiani che indagano.

Queste reti si interconnettono tra di loro e molte società vengono aperte e chiuse, o scompaiono, o lavorano a progetto. Si può tentare di risalire al proprietario di qualche flotta battente bandiera serra leonese, moldava o di qualche paese dove i controlli non siano così capillari, che magari aveva trasportato armi o droga, prima di trasportare un altro carico lucroso… persone.

Come nell’inchiesta condotta dal giornalista di Avvenire Nello Scavo, la verità giornalistica può avvalersi di indagini impossibili per un magistrato e portare alla luce correità insospettabili, giungendo a personaggi di alto profilo, tanto in là da mettere in pericolo la vita del giornalista stesso. Scavo è sotto protezione a causa delle minacce ricevute.

Nel racconto di Jamal molti particolari rimanevano oscuri. Chi fossero gli uomini che lo avevano spronato a partire dalla Nigeria, offrendo di coprire il costo del viaggio, per esempio. Chi quelli che lo attendevano in Italia, pronti a riscuotere il loro credito (basisti per lo smistamento in nord Europa?).

In quali attività lo avrebbero impiegato, se l’infinita attesa dei processi italiani lo avesse esasperato e fosse caduto nelle grinfie di queste persone? Che fine avrebbe fatto? La fiducia su base etnica, o religiosa, è uno dei motivi per cui molti disperati si affidano a personaggi sinistri, che promettono una vita diversa e che contano su veri e propri stipendi messi a disposizione dagli imprenditori del crimine.

 Il cargo fantasma

 Nel 2014, un non meglio identificato vascello si dirigeva verso le coste italiane. Alle capitanerie di porto non giungeva alcuna risposta che potesse permettere di identificare la nave, già segnalata dalle autorità greche. Così decollarono due elicotteri militari che riuscirono ad identificare il cargo: Blue Sky M era il nome inscritto in caratteri scoloriti sullo specchio di poppa della nave.

La notizia giunse alla Farnesina e, nel timore di un’operazione terroristica, fu ordinata un’azione congiunta tra guardia coste e marina militare: alcuni militari sarebbero dovuti sbarcare sul cargo, prima che potesse arrivare nel porto pugliese dove sembrava dirigersi. Il mare era agitato, il vento soffiava a 50 nodi, mantenere l’assetto del velivolo non era facile, ma 3 militari furono coraggiosissimi: si fecero verricellare sull’imbarcazione, che intanto beccheggiava pericolosamente tra i marosi.

Appena sul ponte, scoprirono che alla guida non c’era nessuno: la cabina di pilotaggio era deserta. Un cargo fantasma?

La sorpresa li attendeva nella stiva: vi scoprirono 798 migranti.

Questo racconto non è un film, ma ricostruisce la prima di ben 17 operazioni di contrabbando di uomini che furono denominate dalla stampa i cargo fantasma, perché tutte condotte con la stessa strategia operativa e forse ideate da un’unica mente.

Sbarcarono in Italia 5000 migranti siriani in 2 mesi. Da cinque a ottomila euro il prezzo del biglietto, 30 milioni di euro la cifra intascata dagli organizzatori che tenevano al soldo altri siriani, turchi, egiziani per fare da intermediari. Le tratte erano addirittura pubblicizzate su Facebook da social media manager opportunamente reclutati: rendevano appetibile il viaggio con foto dei viaggi precedenti.

Fiducia etnica, si diceva: viaggi andati bene incrementavano la speranza e l’affidabilità degli organizzatori per convogliare la fiumana di disperati in fuga dalla guerra in Siria ed incanalarla nei flussi diretti in Italia. Ma pure fiducia tra i nodi del network connessi al business criminale.

Quindi non solo la Libia: altra frontiera, altri scafisti.

Ma come si svolge una tale operazione in concreto?

Nel caso del Blue Sky M, un ferro vecchio di 100 metri che batteva bandiera moldava, definito dagli stessi scafisti uno scolapasta, era partito da Costanza diretto in Croazia, passando da Varna e poi dallo stretto dei Dardanelli, ma in seguito la rotta era stata modificata.

Non c’è un sistema capace di tracciare tutte le imbarcazioni che solcano il Mediterraneo, anche se il Financial Times ricostruì in un reportage un gran numero di traffici sospetti lungo le rotte marittime, segnalandone almeno 540. Eppure, in epoca di satelliti, non dovrebbero sfuggire ai controlli… quindi c’è qualcosa che non va nel sistema di tracciamento: i punti poco chiari sono molti.

Il Blue Sky M aveva cambiato nome già tre volte da quando era uscito dai cantieri di Amburgo nel 1976, poi era stato acquistato da una società di Costanza, città che accoglie una vasta diaspora siriana. All’epoca un giornale romeno titolò che la nave fosse stata venduta durante la traversata ad un cittadino siriano che ne avrebbe fatto sostituire l’equipaggio, impartendo gli ordini via radio. Sempre durante il viaggio, avrebbe fatto sollevare dall’incarico il precedente comandante. La compravendita del natante, invece, era stata conclusa con un altro siriano che era stato condannato a 7 anni in Romania, per aver protetto il suo socio, implicato nel rapimento di due giornalisti romeni in Iraq.

Gli ultimi controlli del cargo in viaggio, avvennero a Istanbul e poi a Korfez, ma secondo il comandante della nave, che dapprima si era finto un migrante, era a Izmit che erano saliti a bordo alcuni suoi parenti siriani per scappare dalla guerra. In seguito si apprese che la moglie del comandante era colei che si era occupata di dividere i compensi inviati dall’organizzatore proprietario del cargo. Il comandante disse pure di aver ricevuto un ordine via radio di recarsi in un porto turco per un carico di cemento ed è lì che sarebbe stato circondato dai battelli degli scafisti armati che lo avrebbero obbligato a far salire a bordo la gente

Giunto presso l’Egeo, la presenza del cargo era stata notata dalla guardia coste greca che aveva inviato segnalazione all’Italia. Ma perché la nave non era stata soccorsa dai greci a largo di Corfù? E perché l’SOS, che avvisava della mancanza di acqua e cibo, la presenza di donne incinte e bambini, era stato dapprima ignorato? Da quando fu lanciato, erano trascorse 12 ore.

Qualcuno ricorderà che in quei giorni la nostra marina era stata impegnata nell’incendio della nave traghetto Norman Atlantic, a tre miglia dalle coste di Leuca, oltre a ciò si adducono i tempi tecnici, perché da Roma si decidesse sul tipo di intervento. Queste le ipotesi, l’altra è quella che atterrisce di più. E ci si chiede: quante imbarcazioni saranno affondate nel tentativo di raggiungere le coste italiane?

D’altro canto, la lotta a queste organizzazioni criminali, che tengono in ostaggio migliaia di vite e fanno delle frontiere il loro business, è impari, perché sono organizzazioni flessibili a geometria variabile: passaggi di consegne, nuovi ingaggi e personaggi come gli smuggler, che curano il trasporto di armi o esseri umani.

Un puzzle sempre più complesso che forse si potrebbe pensare di arginare solo con uno sforzo congiunto degli stati Europei verso azioni di controllo più capillari, aiuti concreti, che non si risolvano in operazioni puramente rappresentative, come la missione Sofia, ma con l’istituzione di corridoi umanitari e politiche in grado di assorbire i flussi in modo proporzionale. E, da parte di tutti, la volontà di capire che i trafficanti non sono i trafficati e che il problema dei migranti non si risolve con i respingimenti di Frontex.

 Ci sono storie che è difficile dimenticare e che addolora raccontare.

Eppure è dal coraggio di non ometterle che nasce la passione per una storiografia non fatta di conteggi, che può rendere onore a chi giaccia con i propri sogni sul fondo del mare.

 Tra la gente che affronta il mare corre un filo sottile, se hanno una speranza nel cuore, il mare li terrà uniti dovunque andranno, qualunque cosa avvenga, per sempre, saranno i miei fratelli di mare…
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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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