Anonimo veneziano. Note a margine di una sinfonia

Come nessun uomo vive e muore per se stesso, nessuna esperienza vive o muore per se stessa. In completa indipendenza dal desiderio o dall’intenzione, ogni esperienza continua a vivere nelle esperienze future.
John Dewey

Una volta mi chiesero se mi sarebbe piaciuto scrivere a proposito di Anonimo Veneziano e di Giuseppe Berto, risposi che l’avrei fatto con molto entusiasmo. Ma quando il tempo è arrivato, una volta seduta di fronte al computer, mi sono chiesta se sarei stata in grado di farlo e sopratutto in che modo ne avrei scritto.

Da dove comincio? Cosa scrivo per essere coerente con la narrazione? Non è certo una recensione quella che si aspettano da me. Cosa posso dire a coloro che leggeranno il libro o vedranno il film? Come accostarmi a coloro che lo videro tanto tempo fa?

Sono tante le cose che puoi omettere. Cose che hai visto, pensato, ascoltato attorno ad un’opera, lacerti che si ricompongono e divengono d’un tratto musica.

Quindi non già della morte si parla, ma dell’eternità: “Hemingway diceva che uno scrittore, se è abbastanza buono, deve misurarsi ogni giorno con l’eternità, o peggio, con l’assenza di eternità. Io non posso giurare d’essere uno scrittore abbastanza buono, però la fatica di misurarmi con l’eternità o con l’assenza di eternità, la conosco anche io…” (dalla prefazione di Giuseppe Berto all’edizione del 1976 di Anonimo Veneziano).

La sinfonia da cui prende il nome il romanzo è il Concerto in Re minore per oboe, archi e basso di Alessandro Marcello, di cui fu scelto il secondo movimento che seguirà il destino dell’opera cinematografica.

Si differisce dal suonarlo, o si pensa di iniziare a provarlo, solo quando sia arrivata l’ora: per affrontare i temi di Anonimo Veneziano, si è sempre troppo giovani o troppo vecchi. Per confrontarsi onestamente con essi, siamo sempre troppo impegnati o troppo allegri, troppo tristi o troppo pieni di dolore.

Quel timor sacro lo si domina come si fa con le bestie feroci in un circo, o se ne è sedotti come dal serpente, cui troppo spesso si vorrebbe estrarre il dente del veleno. Più spesso della morte se ne discorre come dello spirito dei natali passati, con riguardo alle ombre.

Secondo Sai Baba, il guru indiano: “il secondo strumento sacro è la parola, quello attraverso cui ogni verità (anche a riguardo della morte) può essere diffusa. E le parole, aggiunge, hanno un grande potere: possono abbassare o elevare l’uomo, quando l’intento sia onesto”.

Oggigiorno, in cui il valore di chi scrive si misura in base ai followers o alle copie vendute, parlare di onestà in letteratura è un discorso specioso.
Eppure la coscienza di uno scrittore è il suo cimento più assiduo, di un bravo scrittore, voglio dire. Se non fosse così, se la volubilità dei tempi avesse aberrato ogni virtù, ascoltare la trasparenza di Giuseppe Berto, autore di Anonimo, fa venir voglia di essere come lui:

“….Questo non vuol dire che penso di produrre ad ogni passo opere immortali, ma semplicemente che ho l’abitudine di lavorare con serietà e purezza di propositi, anche mirando al successo, com’è lecito, purché la ricerca del successo non comporti alienazione. Quindi se mi accusano di furberia, di venire a compromesso con l’industria culturale, io mi addoloro e mi offendo”.

Cosa indusse Berto a scrivere queste parole?

Consideriamo il paradigma rovesciato: Anonimo nacque da un’esigenza cinematografica. Enrico Maria Salerno, uno degli attori più apprezzati di quegli anni, volle esordire come regista e commissionò al romanziere lo script nel 1967. Un’operazione commerciale, commentarono i soliti maligni, ideata per cavalcare il successo di un’altra pellicola, Love story. Quest’ultimo, tratto dal romanzo omonimo di Erich Segal, fu scritto in prima stesura ben due anni dopo, perciò l’accusa non regge.

Nondimeno Berto ne rimase ferito.

Sostiene Abraham Maslow che “alcune nevrosi comportino desideri frustrati di sicurezza, di appartenenza e di identificazione, di relazioni autentiche di amore e non solo di rispetto o di prestigio… l’essere privati di alcune soddisfazioni, cui si impone il nome di bisogni primari, al pari dell’acqua, degli amminoacidi e del calcio, conduce alla carenza, che porta alla malattia”.

Quel male oscuro che travolge certi spiriti lucidi, un male che Berto conobbe bene, descrivendolo nel suo romanzo del 1964, che vinse il premio Campiello ed il premio Viareggio. Chi meglio di Mario Monicelli, che a sua volta aveva guardato nel fondo del baratro, poté curarne la trasposizione cinematografica?

Anche Ernest Hemingway, che aveva considerato Berto uno dei tre migliori scrittori italiani, riuscì a trarsi fuori dalla depressione, al costo della perdita dei suoi ricordi sul tavolo dell’elettroshock. Anni dopo decise di morirne.
Pertanto mi auguro che si riconosca a Berto, oltre al talento di scrittore, il pregio poco comune di non vestire i panni della domenica.

E parlando di onestà, non si può non parlare di sacrificio. Sacrificando il mito della letizia, si ripercorre il golgota della sofferenza; una ricerca personale di cui la storia è preambolo, come annunciano nella quarta settimana Le meditazioni di Sant’Agostino.
Anonimo veneziano usa lo stesso preambolo storico delle meditazioni e Agostino stesso vi aveva cercato sollievo alle sue angosce (il medico gli aveva prescritto di non pensare cose tristi).

E mi chiedo se il contesto emotivo delle vicissitudini umane non celi altrettanta sacralità delle grandi teologie. D’altra parte, se le storie dei popoli fossero narrate in base al quotidiano, vi sarebbe compreso l’ethos e l’epos, e non ci si potrebbe esimere dal considerare una sola razza comune a tutte le genti.

Il recente provvedimento che ha eliminato la traccia storica dall’esame di maturità nelle scuole superiori, sembra averlo dimenticato.

La storia personale è anch’essa parte della storia dei popoli, e quest’ultima presuppone “un metodo di conoscenza che si basa sul sapere critico, sul rifiuto di verità ufficiali e precostituite e sul confronto pluralistico di idee e punti di vista”, scrive Umberto Gentiloni su “La Repubblica” (10 ottobre 2018) : “Perché il passato aiuta a comprendere il presente”.

Considerando una memoria digitale sempre più pervasiva ed eludibile, i libri come quelli di Berto diverranno preziosi allo stesso modo di quelli cui Guy Montag appiccava fuoco, nel profetico Fahrenheit 451.

Con questi pensieri scrissi al direttore di quel giornale: “… Sto lavorando a quel che ti dissi e mi piacerebbe confrontarmi con te su certi argomenti. Ad esempio circa la personalità di Berto ed il suo scrivere Anonimo per Salerno…”
Ricordo che l’operazione fu appoggiata da uno scrittore e produttore noto, ex fascista, di area cattolica. Una produzione che non poté celare l’intento di condannare il divorzio.

Pochi anni dopo l’uscita del film, nel 1974, il mio nonno materno, malato terminale di mieloma multiplo all’ospedale San Giovanni di Roma, faceva propaganda nei reparti a favore del divorzio; sebbene fosse felicemente sposato, sosteneva che la possibilità di divorziare dovesse divenire una libertà fondamentale.

“Che c’entra questo con Berto?”, osserverai allora. Forse no, non c’entra.
Però credo che occorra ricordare ai ragazzi di oggi quali inferni si schiudessero ad una donna che abbandonava il marito. I pregiudizi culturali, e non solo la religione cattolica, impedivano di riappropriarsi della propria libertà emotiva, senza tener conto delle pastoie burocratiche in cui si incorreva nel caso si avessero figli.

E questo lo si intende da una prospettiva personale, assistendo al film, anche se vi traspare una considerazione reazionaria: qualora i sostenitori del divorzio l’avessero avuta vinta, il rappacificarsi di quella coppia di sposi sarebbe divenuta impossibile.

Ma poi capiamo che la love story sarebbe finita lo stesso, dato che il protagonista è malato. Nel film, divorzio e morte sembrano rispecchiarsi l’uno nell’altra. Anche se Berto non lesina rasoiate all’indirizzo dell’istituzione matrimoniale.

A distanza di quasi due lustri assisteremo, non senza polemiche, al film Kramer contro Kramer, storia di un divorzio voluto da una moglie, nella pur evoluta New York. Chissà se a Berto sarebbe piaciuto?

Ma nel film Anonimo Veneziano, gli attori sono comprimari di una Venezia ritratta in modo mirabile dal fotografo Marcello Gatti e Florinda Bolkan non somiglia a Meryl Streep: mi ricorda di più il personaggio di un altro film, la Lea Massari di Una vita difficile.

Chi volesse indugiare su di una ricerca di frequenze lessicali, si accorgerebbe che gli amanti veneziani sono braccati nella patetica di Berto e nessun lieto fine, per quanto prosaico, si può profilare all’orizzonte: Venezia non è Roma, né la Versilia, e affonda irrimediabilmente.

L’amore, che è inaspettato eros, riemerge sul terreno farraginoso del thanatos, proprio come accade nelle corsie degli ospedali, dove lo slancio si consuma e arde prossimo alla morte. E gli attori sono bravi, belli, giovani, accattivanti, tanto da farci dimenticare il tema centrale del libro.

Era un tempo di transizione quello in cui fu girato il film. Le sinistre detenevano l’arbitrio sul cinema e la democrazia cristiana lasciava fare, mentre, zitta, zitta, si accaparrava la tv. Nessuno pensò di limitare quelle produzioni inadatte al grande schermo, spesso girate in velocità 16 o addirittura 25 mm e poi gonfiate a 35 mm per la stampa. Fu una delle ragioni per cui il cinema italiano iniziò ad affondare e per salvarsi iniziò a produrre per la tv.

Enrico Maria Salerno ebbe un’ispirazione indispensabile, ma per nulla rassicurante: raccontare una storia intima, la storia delle storie, che in fondo si voleva commuovesse gli spettatori. In quegli anni di realismo socialista, uno sguardo privato equivaleva ad inneggiare alla borghesia. Così la versione internazionale del film fu una scelta mirata: girato in inglese e poi doppiato in italiano, ebbe la colpa di fare cassetta.

Salerno veniva spesso a pranzo dai nostri vicini di casa, lo osservavo sulla veranda dirimpetto alla nostra. Aveva una figlia che, a me bambina, appariva altissima e bellissima.

Berto invece non l’avrei mai incontrato.

Seppi che avuto esperienze simili al fratello di mio padre, che si era arruolato volontario nella Guerra d’Africa e, come Berto, era stato fatto prigioniero; quell’esperienza spronò mio zio a capire l’assenza di libertà in cui aveva vissuto e tutto il marcio di una politica volta ad impressionare i giovani. Berto rimase per tutta la vita un liberale, forse un po’ anarchico, come dimostra Oh Serafina, la prima sceneggiatura di cui mi innamorai.

Spirito contraddittorio ed eterodosso, scrisse il romanzo La gloria, o la storia di Giuda Iscariota scritta in prima persona, precisava mio padre, che lo stava leggendo poco prima di morire.

Accadde di sabato, in un pomeriggio estivo in cui faceva molto caldo. All’accorrere delle mie sorelle, aveva detto loro in tono ironico: “State tranquille, per oggi non muoio”.

Come Berto, aveva sempre irriso alla morte. Invece morì proprio quel giorno di un’aneurisma dell’aorta. Come accadde a Berto, quando mio padre morì non ero in casa.

Il primo atto della mia vita si concluse.

Il sipario si riapre a Venezia, città della mia trisavola Rosa, dove si va per dimenticare un amore o per dimenticare se’ stessi. Come nel film, era novembre e l’odore di marcio delle calli era dovunque. Anche io ero alle prese con un amore, malinconica come Thomas Mann, in Morte a Venezia.

“Questo popolo per mille anni lottò coraggiosamente per la vita, poi per altri trecento non fece che invitare la morte” recita John Ruskin nel paratesto di Anonimo voluto da Giuseppe Berto.

Lo rilessi in Piazza San Marco, seduta sotto il colonnato.

I brani della seconda stesura “scritti con fatica puntiglio e ambizione per raggiungere un maggiore approfondimento psicologico” , mi parvero frutto di una profonda riflessione. Quel libro aveva procurato all’autore più dispiaceri che altro. Faceva notare che il merito della sua rielaborazione andava all’ispirazione tratta da un’edizione inglese e ad una traduttrice, Valerie Southorn, che manovrando le didascalie aveva trasformato il dramma in un racconto, per lui illuminante”.

Berto concludeva che alle critiche si sarebbe anche rassegnato, ma l’idea di una nuova edizione italiana cui conferire maggior spessore, aveva finito per sedurlo: “Bene o male l’avevo scritto misurandomi con l’eternità, magari sognando di rifarmi dopo morto”.

Che si tratti di uno scrittore come Giuseppe Berto e del suo Iscariota o di un giovane padre, spacciato dal male, come in Anonimo, convenitene: di costoro ci appare prima la sconfitta.

Perché nel tradire le aspettative, nel rompere con la tradizione, si rischia di essere considerati eretici.

Penso che un’opera immortale sia come quella gloria, silenziosa, e che fatalmente si scomponga nei destini di tutti: nelle apologie pronunciate e in quelle dimenticate, nei sogni vissuti e in quelli traditi, ma anche nell’onestà di saperli distinguere, e poi nelle lacrime di ciascuno di noi.

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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