L’amica ritrovata

Marie Curie

Una vita avventurosa, una mente prodigiosa, una personalità complessa ed articolata, il disinteresse per il danaro, la semplicità dei costumi: potrei ricostruire con buona approssimazione il ritratto di una delle più grandi figure che hanno fatto la storia del novecento, se a tutto questo aggiungessi  generosità, memoria brillante ed un grande amore per la natura e gli sport.

Già, ma allora perché Marie Curie fu per me un’amica ritrovata?

Marie Curie

Un essere umano dalla cui vita si potrebbe imparare molto, una scienziata insignita due volte del premio Nobel: La ricerca scientifica è un campo gratificante dal punto di vista morale per il piacere della scoperta, anche se essa è di debole importanza, piuttosto per il piacere di aver superato le difficoltà incontrate, nella gioia un po’ puerile che si prova a guardare i fenomeni naturali anche se sono già conosciuti (come il veder luccicare nell’oscurità una sostanza radioattiva) e il piacere che ogni conoscenza nuova è definitivamente acquisita per l’umanità e sarà utile per studi successivi.
(Dal bollettino dell’associazione Joliot-Curie, 1938).

 Ho chiesto ad un amico, giovane medico molto in gamba, laureato cum laude, impiegato in un ospedale, cosa ricordasse a proposito di Marie e Pierre Curie. Ha risposto di non conoscerli perché “non li aveva studiati”, adducendo la mole di argomenti che opprimono gli studenti di medicina, impedendo loro di farsi una cultura generale.

Non dico che questo sia valso a depennarlo dagli amici, ma quasi.

Poi ho riflettuto sul fatto che alla gente del nuovo mondo, immersa nell’overload  di informazioni e abbacinata dalle nuove tecnologie, non sembrò strano omettere di approfondire donde alcune scoperte rivoluzionarie avessero avuto origine, o i sacrifici che erano costate.

La tentazione di dimenticare fatti ed antefatti storici è fortemente radicata e abbastanza convenzionale ai nostri tempi, tanto da minacciare i programmi scolastici.

Nel corso dei secoli è sempre avvenuto che menti illustri ci facessero a riflettere e, in certi momenti,  ci inducessero a sperare, ad avere fiducia e ad essere forti per impegnarci positivamente nella società.

A differenza del medico, per conto mio, non ebbi scusanti per il mio disinteresse. Mio padre era appassionato di ricerca in campo medico, così all’età di 40 anni, al termine di una giornata di lavoro e dopo aver messo a dormire le figlie piccine, si applicava per superare gli esami universitari di medicina. Da ragazzo aveva studiato ingegneria, preso il posto del padre ammalato nella ditta di famiglia, si era ammogliato, ma sognava di dedicarsi alla ricerca quando fosse andato in pensione. Fu di quest’amore elitario che fui messa a parte sin da bambina, ricevendo in regalo diversi libri su lavori scientifici e ore di dialoghi.

Osservando Marie Curie nelle foto, così seria e dimessa nel vestire, mi sembrò simile alle sorelle di mio nonno, con quegli abiti leggeri di cui vestivano le vaporose ragazze dei primi decenni del secolo, che da anziane le facevano apparire gualcite indelebilmente.

Quando appresi che il papà di Pierre Curie, medico, catturava nei boschi gli animaletti per analizzarli nel suo laboratorio casalingo e che Pierre aveva fatto lo stesso, invero per pochi mesi, dopo aver provato su sé stesso gli effetti del radio sui tessuti, mi distolsi definitivamente dall’entusiasmo per i Curie e misi da parte la storia della ricerca.

Incapace di contestualizzare, con l’intransigenza dei ragazzini, abbandonai anche Marie, curandomi appena di alcuni momenti della sua giovinezza.
Ignoravo che avesse avuto una vita difficile, perché Madame Curie non si era mai lagnata delle sue traversie.

Nata nella Polonia dominata dagli zar, dopo la morte della madre e la caduta in disgrazia del padre a causa di cattivi investimenti, Marie si era dovuta impiegare come governante. Ma prima aveva vissuto una stagione magnifica da certi parenti, forse l’unica spensierata della sua vita: da come la descrisse si intese il vigore e l’entusiasmo del suo temperamento.

Nella tradizione del carnevale polacco viene organizzato un ballo che non è solo un ballo. È un viaggio avventuroso e fiabesco cui Manya (come era chiamata Marie in famiglia) partecipò appena sedicenne, abbigliata da contadina cracoviana, assieme a tre cugine.

Immaginate una carrozza che avanzi nella neve, accompagnata da suoni di campanelli, attorniata da cavalieri in abiti tipici che impugnano torce per farsi strada nella notte. Nel bosco, altri baluginii, altre fiaccole e il suono dei violini che si fanno sempre più prossimi: a bordo di una slitta i musicanti intonano arie di walzer, cracoviane e mazurche. La farandola notturna si muove di casa in casa, i cavalieri si apprestano a bussare alle porte, ricevuti dai proprietari festanti e sui tavoli appaiono cibi e bevande. Poi gli ospiti si uniscono al corteo, con altre carrozze al seguito, fino alla prossima abitazione dove vengono accolti da altre tavole imbandite.

Il sole sorge, i musicisti riposano in qualche fienile e si riprende la strada all’imbrunire, reclutando di casa in casa truppe fresche. Finalmente, al secondo giorno, si fermano di fronte al luogo del ballo vero e proprio, dove Manya scende di carrozza ed offre il braccio ad un ragazzo vestito di lana bianca. Lei indossa una casacchina di velluto con le maniche a sbuffo e dai capelli le scendono nastri dai colori vivaci intrecciati in una coroncina…

Le gote accese e gli occhi trepidanti di quell’eccezionale energia che presto, giunta in Francia, avrebbe impiegato in un laboratorio buio e diaccio, dove una grande scoperta stava per compiersi. Felice di donarsi per sempre alla sua più grande passione, la scienza.

Marie Curie premio nobel scienza

Una vita avvincente, dentro e fuori del gabinetto di ricerca, un’inclinazione per l’incognito e l’avventura, una docente appassionata che spiccò tra molti scienziati per la disposizione con cui si dedicò all’insegnamento.

Quando, nel 2016, il film Marie Curie fu presentato al festival di Toronto, iniziai a chiedermi quando sarebbe stato distribuito in Italia.

Il film si incentra su di un episodio della sua vita che destò scandalo, avvenuto tra il 1905 e il 1911, cioè tra la morte del marito ed il conferimento del secondo premio Nobel. La morale dell’epoca condannò apertamente una fine ricercatrice che si era risolta a vivere liberamente una relazione con un uomo sposato. Una volta che il suo amante, già assistente di laboratorio, tornò dalla moglie, la cosa si tacitò.

Straniera in terra francese, in sospetto di essere ebrea (non lo era, ma il cognome aveva attratto la ferocia degli antisemiti e come l’affaire Dreyfus aveva diviso l’opinione pubblica), subì una reprimenda insensata e meschina, che però non la dissuase dal ritirare il premio Nobel e pronunciare il discorso al conferimento.

Il suo fine, quello di sostenere la ricerca, le diede la forza di affrontare il disastro.

Potremmo riflettere su come Marie intimorisse coloro che non credevano nella parità delle donne, con la sua levatura di scienziata, la superiorità intellettuale e poi con il mostrarsi al di sopra della morale corrente.

Un’allieva prediletta descrisse Marie Curie tanto timida da sembrare gelida, ma in grado di farsi fregio di una determinazione e di una volontà che destava ammirazione. Manya non fu solo una grande mente, ma divenne un simbolo per tutte le donne che aspirassero ad affrancarsi dalle limitazioni imposte dalla società, divenendo un emblema fulgente del femminismo.

Su questo vorrei che si incentrasse un film: sulla sua forza d’animo, sul temperamento perseverante, sull’inclinazione al sacrificio in nome degli ideali, sulla parsimonia e sul grande amore per la ricerca, assieme al disinteresse che nutriva per la ricchezza pecuniaria, alla generosità con cui insegnava, fino ai motti che condivideva con il marito, come quello che recitava “Fai della vita un sogno e del sogno una vita…”.

Maria Sklodowska, questo il nome da nubile, sprezzante della sottomessa umiltà che si pretendeva dalle donne della sua epoca, trovò nel marito Pierre Curie non solo l’amore, ma anche il collega di lavoro ideale; la celebre coppia franco-polacca divenne nota per la scoperta del polonio nel 1898 e quindi del radio nel 1902, una collaborazione che rivoluzionò il mondo scientifico e non solo quello.

Nel 1903 fu conferito loro il Nobel per la fisica, mentre da successivi studi presero l’avvio molteplici scoperte sulla radioattività, che videro protagonista la sola Manya. Rimasta vedova, proseguì infaticabilmente la sua ricerca ed l’insegnamento, passando dall’Ecole Normale Supérieure di Sèvres alla Sorbona di Parigi, dove occupò la cattedra del marito. In seguito coadiuvò gli studi della figlia Irène e del marito di lei, Frédéric Joliot, e furono tutti e tre insigniti del premio Nobel (1911 a Marie per la chimica, nel 1936 ai due Joliot-Curie, quali scopritori della radioattività artificiale).

Tutto questo grazie ad indefesso lavoro, ad una costanza e coerenza quasi maniacali, un amore totalizzante, un senso di sacrificio oggi estraneo ai più, doti senza le quali certi risultati sarebbero stati impossibili.

Anni più tardi Irène scrisse: “Come Pierre Curie, ella -Marie Curie- sperava nella scienza per risolvere i problemi umani, nel senso di una vita più felice e la sua utilizzazione a scopi distruttivi le pareva una profanazione. Ai suoi occhi nessuna considerazione politica avrebbe potuto giustificare l’impiego di una bomba atomica”.

Per i coniugi Curie, l’impiego a scopi bellici dell’energia atomica era un’eventualità remota, ciononostante Marie commentò: “Possiamo pensare che in mani criminali il radio possa diventare pericolosissimo, possiamo domandarci se l’umanità saprà trarre vantaggio dalla conoscenza dei segreti della natura, se è matura per approfittarne o se, al contrario, la conoscenza di questi segreti non le sarà nociva… Gli esplosivi potenti sono dei terribili mezzi di distruzione tra le mani dei grandi criminali che trascinano i popoli verso la guerra…”.

Del grande scienziato che sposò, apprendiamo una dimensione più personale dal racconto delle passeggiate, delle escursioni che amavano compiere insieme, sempre assorti nei problemi scientifici, senza tralasciare di godere di bei panorami e dell’aria salubre. I ricordi radiosi dei prati dell’Aubrac e delle sue vette o quando, giunti alla gola della Truyère in una giornata di sole, scorsero una barca lungo il fiume da cui proveniva della musica, un’aria popolare. Avevano parlato di come sarebbe stato bello vivere in posti selvaggi e potersi dedicare unicamente alla ricerca senza altri pensieri. Quel pomeriggio si erano attardati e non riuscirono a tornare in albergo che prima dell’alba, costretti a tagliare per campi perché una carovana di carretti passava sulla strada principale e la loro vista aveva fatto imbizzarrire i cavalli. Marie scrisse che la luna splendeva luminosissima quella notte, mentre attraversavano i recinti dove riposavano le mucche.

Trovava comprensione e sostegno nello sguardo di Pierre, che la considerava una compagna speciale, unica. Doveva essere stato un amico molto tenero, oltre che un marito, non era mai combattivo, incapace di incollerirsi con chiunque, non aveva alcun nemico perché non arrivava mai ad essere veramente offensivo, neanche inavvertitamente; ma non ti riusciva di farlo deviare dal suo proposito e per questo il padre lo aveva soprannominato il dolce ostinato.

Marie e Pierre non furono solo collaboratori di talento e spiriti complementari, ma anche due persone forti tanto da sopportare enormi sacrifici e privazioni per il compito che si erano prefissi.

Al ritorno a casa, dopo essersi spesi tra il lavoro in laboratorio e l’insegnamento, i coniugi si dedicavano alle figlie che erano state accudite dal nonno durante il giorno. Non potendosi permettere personale di servizio dovevano occuparsi di tutto, sobbarcandosi di ogni onere: mettere le casseruole sul fuoco per la cena, sbrigare le incombenze domestiche. Alla fatica si sommarono le complicanze dovute agli effetti del contatto con le sostanze radioattive; entrambi i coniugi erano consci di potersi ammalare nel portare avanti la loro missione, così Pierre esortava: “Qualunque cosa accada dovremo essere un corpo senz’anima e lavorare lo stesso”.

Ma il destino era all’erta e un giorno, all’uscita di una riunione di professori, Pierre Curie era stato travolto da un camion su Rue Dauphine.

Pierre morto? Veramente morto?”, mormorò Marie apprendendolo, senza versare una lacrima, perché era troppo impossibile per essere vero.

Pallida, fredda, vestita di nero andò ad annunciare la terribile notizia alle figlie. Per loro lei era Douce Mè (dolce mamma), come la chiamavano, sulle cui ginocchia salivano per farsi coccolare e fu difficile far capire che Doux Pè non sarebbe più tornato a casa.

Marie fece trasportare Pierre nel cimitero della cittadina dove si erano conosciuti, Sceaux, dove in seguito si sarebbe trasferita a vivere con la famiglia. Fu inumato senza pompe, sotto un filare di ippocastani, lungo il muro di cinta. La moglie rimase a lungo lì accanto, con lo sguardo fisso e duro, e d’improvviso iniziò a staccare uno ad uno i capolini di un mazzo di fiori ed a gettarli sul feretro, macchinalmente, prima che il suocero che la sorreggeva, la inducesse a smettere per ricevere le condoglianze dei pochi convenuti.

Scompariva un padre e un marito molto amato, uno scienziato fecondo. Portava nei fenomeni fisici quella fine intuizione che gli faceva capire analogie non supposte e lo faceva orientare in un dedalo di apparenze dove altri si sarebbero persi.

Ora Marie rincasava sola ogni sera, oppressa dalla fatica, dopo le lezioni alla Sorbona e le interminabili ore in laboratorio.

Al ritorno trovava la famiglia riunita intorno ad un focolare un po’ stravagante, dove il suocero faceva ciò che poteva per aiutare la nuora a prendersi cura di due bambine piene di vita. La casa era di grande modestia, il mobilio robusto e un po’ tetro, ma in compenso c’era un giardino dove Marie voleva che le figlie sostassero per molte ore al giorno e con qualunque tempo, dato che lo riteneva indispensabile alla loro salute.

Marie trasmise alla figlia maggiore la sua passione, coinvolgendola giovanissima, durante la prima guerra mondiale, nelle missioni di aiuto negli ospedali da campo, procurando mezzi di fortuna per il trasporto di apparecchi radiografici. La diagnosi tempestiva di fratture e la localizzazione dei proiettili tramite lastra, consentì ai medici di intervenire al meglio sui feriti.

Impegno altruistico e senso di responsabilità costituiscono un sigillo di fermezza cui ispirarci,  specie quando il mondo sembra andare allo sbando.

Come ebbe a scrivere Pierre: Ci siamo promessi, non è vero? Di avere l’uno per l’altra almeno una grande amicizia. Purché non cambi opinione! Perché non c’è promessa che tenga, sono cose a cui non si comanda. Sarebbe però una bella cosa, a cui non oso credere, passare la vita uno vicino all’altra, ipnotizzati nei nostri sogni: il tuo sogno patriottico, il nostro sogno umanitario, il nostro sogno scientifico.

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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