Il futuro dell’arte italiana #3 – L’arte è il destino della destinazione

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Roma Pop City, MACRO, Roma, 2016 - ph. P. Di Pasquale

Dopo uno specifico articolo e altri pubblicati, che intendono fare il punto sul presente e il futuro dell’Arte italiana e del Sistema connesso, contribendo all’individuazione di soluzioni a una crisi profonda dell’intera filiera dell’apparato afferente, e più in generale di quello culturale tutto, sono stati sollecitati alcuni operatori di settore a partecipare a questa sorta di indagine sia attraverso una serie di domande, sia liberi di inviare un proprio approfondimento in merito.
Dopo il contributo, già pubblicato, di Donato Di Pelino, ecco, di seguito, quello di Livia Cannella alla quale abbiamo posto alcune domande-campione, da considerarsi uno spunto per più ampie e personali valutazioni.

Sei a conoscenza dell’esistenza del piano Churchill-Roosevelt, che dal 1943 ha modificato gli assetti culturali e dell’arte europei, che si è palesemente rivelato nella famosa Biennale del 1964 e che ancora oggi vede impostato su quelle tassative imposizioni tutto il Sistema dell’Arte?

Non ero a conoscenza delle ricadute dirette del piano Churchill-Roosvelt sugli assetti culturali europei, ma non si fa fatica ad accorgersi di quanto questo sia accaduto e continui ad accadere da allora; un fenomeno costante e reiterato, a cui si è sommato nel tempo quello di una più universale globalizzazione dei processi, con evidenti dominanze consolidate. In tal senso la ricchezza e la differenziazione che aveva caratterizzato la vastità dell’espressione culturale ha finito per appiattirsi su riferimenti e tensioni omogeneizzanti, sottraendo ricchezza e spazio operativo a una moltitudine di forme espressive e realtà culturali locali.

Trovo questo fattore agente su vari piani, sia sull’impronta della produzione, sia sulla scala operativa.

Credi sia vero che l’autorevolezza storica dell’arte contemporanea italiana sia “ridotta a zero”, come sostiene, in una nostra pubblicazione, anche Massimo Cacciari? Se condividi, perché, secondo te?

Non credo che sia ridotta a zero l’autorevolezza dell’arte contemporanea, probabilmente la sua rappresentatività, ciò che si promuove e come si promuove probabilmente non sono identificativi della reale consistenza, ma di ciò che si pensa possa in qualche modo competere con l’internazionalità (vendibilità?) dell’espressione artistica, rischiando di spostare l’asse delle attenzioni più sulla competizione di mercato a pari condizioni che sulle specificità di linguaggio e produzione culturale.

Per ritrovare certa autorevolezza bisognerebbe forse esplorare territori più minuti e interstiziali, e meno avvezzi agli onori della visibilità.

Ritieni fondamentale avviare un’opera sistematica di decolonizzazione culturale come il primo passo per la riconquista di un ruolo guida nell’arte da parte dell’Italia e quindi delle istituzioni e professionalità di settore? E se sì, perché? Come procedere per modificare questo stato delle cose?

Che si voglia definire decolonizzazione o meno, è certamente importante che l’espressione artistica sia connaturata alla sua radice culturale, che ne sia rappresentativa e ne conservi l’originalità e la trasmissibilità. E’ fondamentale che le sia consentito uno spazio di azione e di consistenza in grado sostenersi e riprodursi con continuità e metodo.

Personalmente individuo nel legame con lo spazio uno dei fattori centrali della ragion d’essere dell’arte. Occupandomi sostanzialmente della dimensione pubblica dell’espressione culturale/artistica, identifico nel legame con lo spazio collettivo uno dei fattori centrali dell’identità dell’arte e del suo radicamento culturale, e per questo capace di rigenerare di continuo la sua originalità.

In quest’ottica, consideri necessaria una radicale riorganizzazione del nostro Sistema dell’Arte secondo gli interessi geopolitici italiani – pur se, ovviamente, con una visione non localistica nè protezionistica –, e se sì, quali modifiche proporresti?

Tradurrei questa domanda sul consentire piena espressione ed emanazione di quanto ci sia da dire e manifestare della produzione italiana, nella enorme e spesso sconosciuta disseminazione di produzioni e valori che spesso viene confinata all’inesistenza, mortificando molte realtà artistiche/espressive (individualità, soggetti plurali, iniziative e quant’altro)  e condannandole alla trasparenza, spesso perché non connesse ai livelli e alle potenzialità della comunicazione globale.

Uno degli aspetti più insidiosi e sensibili è certamente l’enorme confusione che si sta facendo tra l’espressione artistica e la sua comunicazione, che non di rado confonde la visibilità delle soggettività espressive con l’effettiva consistenza delle loro produzioni culturali.

Ecco, riuscire a discriminare tra espressione e comunicazione, per quanto banale possa sembrare (e non lo è più) è uno dei punti centrali per fare chiarezza, anche di tipo qualitativo.

Inoltre sento necessaria una sensibile inclusione, nella opportuna e corretta distinzione, di ogni forma espressiva/artistica, commisurata alla rispettiva sfera di azione e alle compatibili operatività, facendo nel contempo maggior ordine in un contesto che non di rado mescola – con criteri incoerenti e confusionari – ambiti, discipline, operatività, abilità in una sorta di rischiosa intercambiabilità. Credo, pur nella compresenza, sia necessaria un po’ di distinzione di ambiti e competenze, affinché ciascuno operi nell’ambito e nelle condizioni ottimali, riducendo la trasversalità alle particolari e rare abilità.

(Meriterebbe un interessante confronto il concetto di rarità dell’espressione)

Sei d’accordo che questa riorganizzazione inter e post Coronavirus passi, in seno al MiBACT, per la creazione di una Rete Nazionale dei Centri per l’Arte Contemporanea? Se sì, la sosterreste e come?

Certamente una disseminazione di soggetti di matrice istituzionale in grado di orientare la produzione e le condizioni di lavoro di artisti, professionisti, etc. consentirebbe – se ben congegnato – la possibilità di creare le basi di una equità di condizioni nella differenziazione della proposta e degli sviluppi culturali. Certamente uno degli aspetti centrali è la adeguata considerazione e il riconoscimento di ogni forma espressiva, alla luce delle evoluzioni culturali, degli sviluppi tecnici e tecnologici, e della variabilità degli assetti sociali, che in questo momento diventano una priorità assoluta da assumere come invariante di processo.

Pensi che gli artisti e i loro compagni di viaggio (leggi: storici, critici, curatori, ma anche collezionisti, galleristi etc.) abbiano qualche responsabilità della loro mancanza di potere e autorevolezza nel Mercato e Sistema internazionale? Perché? Se sì, in che misura?

Credo esista una sostanziale responsabilità nel creare filiere di garanzia che consentono a soggetti concatenati di consistere nel tempo aldilà dell’effettiva rilevanza della propria produzione, sostenendosi più su logiche di marketing soggettivo che sulla rilevanza culturale.

E’ necessario porre al centro della questione l’operato e non la soggettività artistica.

Personalmente tendo a considerare l’arte più un servizio alla collettività, che bene di scambio di interesse privatistico, il cui mercato nasce dall’implementazione di valore diretto e indiretto attribuito allo spazio di espressione e allo sviluppo di una fruizione in relazioni ad indotti importanti.

Abbiamo assistito al proliferare di comunicazione, informazione, lavoro, tentativi di formazione e produzione di contenuti artistici e culturali online; abbiamo, quindi, percepito anche fisicamente oltre che idealmente la cosiddetta virtualità, la società liquida, dipendente da connessione e schermi che in massima parte ha anche rivelato un’arretratezza del nostro paese e sistema rispetto all’alfabetizzazione digitale e alla non democratica (perché parzialissima) penetrazione relativa a tutto ciò che è concernente l’online (nei mesi di obbligatoria didattica a distanza, da remoto, la negazione del diritto allo studio per molta parte della popolazione ne è stato l’esempio lampante). Dunque proprio la virtualità – visite online di mostre, Musei, Siti culturali etc. – è stata temporaneamente un’alternativa: finita (più o meno…) l’emergenza, di tutto questo cosa è bene che resti?

A mio giudizio è fondamentale discriminare con scrupolo tra la produzione che nasce dalla dimensione virtuale, e trova in essa l’origine creativa e il naturale veicolo di espressione, e l’utilizzo strumentale dei linguaggi della virtualità per adattare proposte, offerte e produzioni che al momento non possono aver luogo nei naturali contesti fisici. Ecco, il concetto fondamentale è proprio il trovare/avere luogo, ossia attribuire ad ogni espressione, disciplina, arte l’opportuna via di emanazione, che quanto più possibile ne possa rappresentare la natura.

Credo che buona parte dell’utilizzo delle soluzioni virtuali/immateriali/non fisiche attualmente praticate, non possa che essere legato alla temporaneità del momento, tenendo bene presente la rotta del percorso verso una normalizzazione.

E’ evidente che se questo percorso accidentale emergesse forme inedite in cui arti e discipline dovessero trovare agio di rappresentarsi, ci troveremmo davanti a nuove modalità di azione/divulgazione/fruizione in grado di arricchire il parterre di accesso alla cultura. Tuttavia riguardo a questo non mi sento particolarmente ottimista, intravedo invece i rischi di ulteriori semplificazioni in grado di attrarre frange di dilettantismo verso l’illusione di accesso a un mestiere (la cultura, appunto…) già ampiamente attraversato da masse produttive di dubbia qualità, certamente clonata in infinite (mediocri?) soluzioni. Ma aperta una via sicuramente con questo fenomeno dovremo avere a che fare, e con buona approssimazione questo impegnerà parte delle nostre occupazioni future. Proprio per questo è molto importante chiedersi, ciascuno di noi, in quale casa vogliamo abitare… 

Puoi fare una previsione su quali potranno essere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto, relativamente alla cultura e alle arti visive?

L’immissione prepotente di un ulteriore senso di precarietà ed evanescenza, ma anche una forte spinta per la creatività e l’immaginazione. Paradossalmente, sarà proprio il senso di precarietà costante delle categorie professionali/artistiche a divenire un fatale vantaggio; l’allenamento all’insicurezza potrà consentire agio territoriale nel districarsi nell’universo delle sollecitazioni con ansie conosciute, già gestite, già trasformate in espressione, che potranno ulteriormente arricchirsi di un senso e una percezione nuova. Il senso della p-recluzione nel distanziamento e confinamento che lo stato delle cose ci ha consegnato, deve necessariamente tradursi in esperienza da testimoniare al futuro. Come artisti, e come cittadini, abbiamo il compito fatale e inderogabile, di essere testimoni del tempo che stiamo scrivendo in tempo reale, di trovare parole, segni, gesti, significati trasmissibili, ciascuno nella forma espressiva che gli è propria.

Una cosa è importante: prendersi il tempo e lo spazio interiore per farlo – almeno inizialmente – senza finalità immediate, senza l’urgenza che diventi mercato e vendita. Questo lo sarà.

Accettare che le difficoltà, la fatica della sopravvivenza creativa (e non solo) e le condizioni di limitatezza siano LA condizione attuale, che come tale va sentita, percepita e vissuta. E’ proprio nell’accettazione del presente, come dato REALE, che risiede il centro dell’esperienza da vivere in questo momento; noi operatori e attori dell’espressione artistica, che così abbiamo scelto di vivere e rappresentarci – abbiamo il dovere di permanere in questa condizione per esserne i narratori futuri, abbiamo quindi una responsabilità che non può ammettere né inganni, né furbizie, né scorciatoie. Ci tocca capire…

 Nell’ipotesi di una profonda modificazione del variegato lavoro afferente alla materia arte contemporanea, come dovrebbe cambiare quello della Galleria? E in quest’eventualità, che ruolo deve o dovrebbero avere la critica militante e gli spazi no-profit?

Afferendo ad un versante dell’espressione artistica connessa – come già accennato – a spazi e contesti ricadenti nella sfera pubblica, non riesco a sviluppare una risposta sulla materia galleristica. Ribadisco tuttavia la necessità di intercettare attraverso l’azione dell’arte pubblica tutti gli ambiti di ricaduta positiva (anche economica) in grado di migliorare ed implementare la rappresentatività della dimensione pubblica e condivisa dello spazio e della produzione culturale, in grado di divenire strumento di politica e gestione della qualità urbana e di rigenerazione dei sistemi insediativi e sociali, nel senso più ampio del termine.

In tale direzione la critica militante ha una responsabilità e un compito importantissimo, proprio nel creare il fondamentale discernimento di ambito e di qualità indispensabili per uscire dalla confusione lingustica e dalla sfera del moderatamente accettabile.

Pensi sia utile la presenza di un più forte giornalismo culturale capace di leggere bilanci di istituzioni culturali e museali pubbliche e compensi dei suoi stipendiati e, insomma, di un’informazione d’inchiesta capace di mettere il dito nelle piaghe?

Certamente sì, nella medesima misura di tutte le altre figure professionali ed operative in grado di concorrere alla buona pratica delle discipline artistiche.

Valuti imprescindibile oppure no una normativa per inquadrare gli artisti come categoria creativa e lavorativa, creando una sorta di Albo professionale? Se sì, quali requisiti e criteri mettereste alla base di tale inquadramento?

Essendo un’iscritta ad Albo Professionale, e vivendone quotidianamente le molteplici inutilità, credo sia molto rischioso creare ulteriori soggetti di mediazione la cui rappresentatività dovrebbe essere talmente complessa da divenire pachidermica. Direi di no.

Altra cosa è definire un quadro normativo, che ne identifichi ruoli e potenzialità, e inclusione rispetto ad altri fenomeni della vita sociale. Nel mio intendimento prioritario, questo significa connettere l’espressione artistica – nelle forme e modalità compatibili – alla visione territoriale e paesaggistica, considerando gli artisti come attori di una conformazione armonica dell’habitat antropico.

Stesso dicasi per Critici e Curatori: servirebbe una normativa per inquadrarli all’interno di una sorta di Albo professionale? Se sì, quali requisiti e criteri mettereste alla base per entrare in un tale inquadramento?

A questo, non ho elementi, conoscenza e pratica tali da dare una risposta.

Cosa indicheresti di non negoziabile all’interno di una pianificazione a lungo termine per attuare un equo sostegno economico-culturale del settore?

Garantire, in una concezione sussidiaria dei valori costituenti il benessere pubblico e la qualità della vita, l’irrinunciabile livello di opportunità e pertinenza da destinare alla sfera artistica, facendola rientrare tra i parametri prestazionali fondamentali del grado di civiltà della popolazione. In tal senso, un conseguente e paritario accesso alle risorse. E’ una questione di presupposti e di scale di valori.

Ambiresti o no a un aumento di presenza creativa e umanistica all’interno di Comitati e gruppi  di esperti (insomma, le tanto decantate  task forces), politici, scientifici e in generale istituzionali (carenti anche di una rilevante presenza femminile!)? In ogni caso, che apporto potrebbero (dovrebero) darvi artisti e intellettuali?

In linea di massima sì, ma le task forces mi fanno sorridere… Organi di rara ininfluenza di fatto, sotto il profilo della costruzione di senso… Altro discorso è la gestione e la distribuzione del potere, ma lasciamolo fuori da questo confronto.

 Per rifarci a quanto sopra affermato: per voi l’arte è destino o è arte della destinazione?

Dipende da chi se lo chiede… e comunque, pur non essendo certa di cogliere pienamente l’intento del quesito, forse… arte della destinazione…

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Architetto e artista, vive e lavora a Roma. Dopo un decennio di attività svolte prevalentemente nell’ambito della progettazione urbana e della pianificazione urbanistica e territoriale, segue la direzione di un sopraggiunto interesse per la scenografia teatrale, che percorre in questo contesto fino ad individuare un ambito di applicazione e ricerca artistica intorno ai temi della valorizzazione della scena urbana e dei beni culturali, in una concezione degli spazi come luoghi di “rappresentazione”, combinando armonicamente le esigenze/finalità di espressione artistica di comunicazione visiva, con l’obiettivo fondamentale di
concorrere ad una progressiva sensibilizzazione dell’approccio al patrimonio culturale. In tal senso, la sua attività si è quindi concentrata nell’ideazione, progettazione e realizzazione di eventi scenografici ed installazioni artistiche prevalentemente incentrati sull’uso della luce e dei linguaggi multimediali/audiovisivi, con particolare riferimento al patrimonio storico-monumentale e archeologico, ai siti museali e, complessivamente, alla scena urbana. Nel contempo ha ampliato le proprie attività anche ai contesti di impresa, nell’ambito dei quali tali esperienze hanno trovato applicazione presso prestigiosi siti di rilevanza rappresentativa.

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