Il futuro dell’arte italiana #2 – L’arte è il destino della destinazione

immaginerei Il futuro dell’arte italiana
Alfredo Jaar, Che cento fiori sboccino, 2015, fiori, neon, Foto Andrea Guermani, courtesy Fondazione Merz

A seguito di un primo, precedente articolo su questa rivista, che intende fare il punto sul futuro dell’Arte italiana e del Sistema connesso, contribendo nel trovare soluzioni ad una crisi profonda dell’intera filiera dell’apparato afferente, sono stati sollecitati alcuni operatori di settore a partecipare a questa sorta di indagine attraverso una serie di domande o liberi di inviare un proprio approfondimento in merito. Qui un ulteriore intervento: di Donato Di Pelino.

Credete sia vero che l’autorevolezza storica dell’arte contemporanea italiana sia “ridotta a zero”, come sostiene anche Massimo Cacciari? Perché, secondo voi?

Un artista cinese dipinge come un artista di New York, dice Cacciari. È vero ma solamente a livello di massa, di mercati dell’arte. In definitiva sono d’accordo con Cacciari comunque. I mercati propagano l’idea di un artista alla ricerca di una dimensione “comunitaria”, che mira ad abbandonare il concetto “territoriale” della cultura in favore di uno spazio sovranazionale. Una terra promessa mai mantenuta. Questa unificazione, oggi più che mai, è falsa. Lo è specialmente su un altro piano, quello della vita civile e dei diritti, che rimane nella pratica estremamente disomogeneo. Il fatto che l’artista cinese dissidente venga qualificato come tale, faccia una mostra in Europa su un problema europeo, il suo gentile interessamento non soddisfa le enormi lacune esistenti, né aiuta a colmarle. Solo conferma un movimento di assetti che poco ha a che vedere con l’arte.

Ciò posto, l’arte che prende le distanze dalle strategie esiste eccome ed esiste soprattutto in Italia. Il problema è quanto questa arte sia in grado di rappresentare la contemporaneità. Su questo, nonostante gli sforzi e le buone intenzioni, è impossibile operare.

Ritenete fondamentale avviare un’opera sistematica di decolonizzazione culturale come il primo passo per la riconquista di un ruolo guida nell’arte da parte dell’Italia e quindi delle istituzioni e professionalità di settore? E se sì, perché? Come procedere per modificare questo stato delle cose?

Io sono convinto che in realtà, al di là di tutto, l’Italia abbia già un ruolo guida nell’arte. Noi semplicemente paghiamo le conseguenze di un assetto statale che ha bisogno in tutti i settori di essere aggiornato.

In quest’ottica, considerate necessaria una radicale riorganizzazione del nostro Sistema dell’Arte secondo gli interessi geopolitici italiani e, se sì, quali modifiche proporreste?

Parto dalla dimensione che mi è più vicina e che forse mi compete di più, quella privata. La prima cosa necessaria sarebbe fare in modo che chi opera nell’arte possa farlo. Chi intende aprire una galleria non può essere vincolato da una normativa comunale che lo ostacola, da una pressione fiscale eccessiva, da una lacuna nella legislazione che dovrebbe disciplinare la fattispecie. La galleria deve essere prevista come attività commerciale nell’ambito culturale con una disciplina che tenga conto di una serie di parametri che aiutino a creare condizioni proporzionate alla realtà di ciascuno.

Dovrebbero essere incentivati i contratti tra le figure principali (artista, gallerista, curatore, trasportatore, assicurazione etc.) così da garantire a tutti una certezza nei rapporti e nelle transazioni. A questo dovrebbe seguire una condotta omogenea in tutte le realtà nazionali che sono, al momento, troppo diverse per approccio. Tra la realtà di Milano e quella di Roma c’è un abisso, non per contenuti ma per modalità di gestione delle realtà culturali.

Per quanto riguarda il settore pubblico, non è il mio campo di lavoro e pertanto esprimo solo un’opinione. Credo che occorra considerare un modo per avere disponibilità di fondi di cui gli enti museali possano usufruire. È assurdo che se un museo italiano intenda fare qualcosa non può perché non ha le risorse. Vincenzo Trione riporta di un ente americano con sede a New York che si è già riunito a tutela delle figure professionali dell’arte: incisori, coloristi, trasportatori. È sorto in pochissimo tempo a seguito del lockdown, non vedo perché da noi non si possa pensare a un movimento simile.

Pensate che gli artisti e i loro compagni di viaggio (leggi: storici, critici, curatori, ma anche collezionisti, galleristi etc.) abbiano qualche responsabilità della loro mancanza di potere e autorevolezza nel Mercato e Sistema internazionale? Perché? Se sì, in che misura?

Non credo si possa parlare di responsabilità ma solamente di centri in cui le cose accadono. Al contrario della falsa idea che i poteri vogliono far passare, le cose si concentrano in determinati modi per delle motivazioni, per delle differenze che grazie a Dio esistono.

Il sistema dell’arte italiano è certamente diverso da quello americano o asiatico, non perché sia “di meno”, solamente perché alcuni meccanismi della contemporaneità sono meglio soddisfatti da impianti sociali differenti per lingua, usi, abitudini, scelte di gestione, economie. I nostri artisti, i nostri critici, curatori, galleristi etc. SONO autorevoli e sono riconosciuti come tali a livello internazionale dagli addetti ai lavori. Certo, quando si tratta di strategie legate alle grandi manovre, agli interessi in cui spesso l’arte sconfina ad alti livelli, l’autorevolezza per forza di cose cede il posto ad altre doti.

Quello che si può fare in questi casi è aprire dei dialoghi con le realtà straniere e organizzare delle comuni intenzioni, delle regole decise di comune accordo tra le parti.

Abbiamo assistito al proliferare di comunicazione, informazione, lavoro, tentativi di formazione e produzione di contenuti artistici e culturali online; abbiamo, quindi, percepito anche fisicamente oltre che idealmente la cosiddetta virtualità, la società liquida, dipendente da connessione e schermi che in massima parte ha anche rivelato un’arretratezza del nostro paese e sistema rispetto all’alfabetizzazione digitale e alla non democratica (perché parzialissima) penetrazione relativa a tutto ciò che è concernente l’online (nei mesi di obbligatoria didattica a distanza, da remoto, la negazione del diritto allo studio per molta parte della popolazione ne è stato l’esempio lampante). Dunque proprio la virtualità – visite online di mostre, Musei, Siti culturali etc. – è stata temporaneamente un’alternativa: finita una prima emergenza, di tutto questo cosa è bene che resti?

Tutto ciò che la maggior parte delle volte è inteso come progresso in realtà o non lo è affatto (le ciminiere delle fabbriche che nel dopoguerra sbuffavano nelle città erano l’orgoglio di tutti, oggi un abominio) oppure è una proiezione, uno schermo, come giustamente lo hai definito. Anche nel lavoro di artisti che intenzionalmente dichiarano di indagare, con la loro arte, la scienza, già questa dichiarazione annuncia un probabile fallimento. Da un lato perché la vita del cittadino comune oggi, in un mondo dominato dalla tecnologia, è lontanissima dalla scienza stessa.

Un individuo non ha contezza di cosa effettivamente la scienza faccia, né è in grado di comprenderne i codici. Quello che viviamo è una mera applicazione delle scienze tecniche che talvolta è in grado di rendere la vita più comoda ma che in fin dei conti rappresenta un apparato facilmente sacrificabile. L’arte più che mai cela l’ancestrale onnipresenza dei gesti primordiali del forgiare, lavorare la terra, plasmare, vivere ed essere destinati allo spazio. L’arte ci ricorda che la civiltà ha sempre una dimensione rurale, anche quando lo dimentichiamo.

Potete fare una previsione su quali potranno essere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto, relativamente alla cultura e alle arti visive?

Spero che l’esigenza del mondo culturale sia quello di indagare sull’assenza di rapporto tra individuo e realtà scientifica ma anche sulla estrema fragilità di un mondo che pareva inarrestabile. A New York, capitale dell’occidente, hanno scavato delle fosse comuni e la gente non sa ancora esattamente come e perché questo sia avvenuto proprio oggi, nel 2020. Mi sembra ci siano tutti i presupposti non dico per dei cambiamenti ma quantomeno per mettere in moto dei ripensamenti.

Nell’ipotesi di una profonda modificazione del variegato lavoro afferente alla materia arte contemporanea, come dovrebbe cambiare quello della Galleria? E in quest’eventualità, che ruolo vedete per la critica militante e gli spazi no-profit?

La Galleria dovrebbe prima di tutto essere libera di svolgere la propria attività senza impedimenti burocratici. Gli spazi in generale, almeno per la città di Roma, dovrebbero tutti essere meglio disciplinati per quanto riguarda permessi, agibilità etc.

Valutate imprescindibile oppure no una normativa per inquadrare gli artisti come categoria creativa e lavorativa, creando una sorta di Albo professionale? Se sì, quali requisiti e criteri mettereste alla base di tale inquadramento?

Questo è uno dei punti che più ci differenzia, a mio parere in meglio, da altri tipi di realtà. Nei paesi che offrono tutele, incentivi, categorie, l’artista viene fatto accomodare in un campione sociale di altri individui, i suoi colleghi, che vivono i suoi stessi gesti quotidiani. Per di più nei paesi di cultura anglosassone o nordica (quelli forse più dominanti dal punto di vista del mercato) la radice medio-bassa dell’arte esprime una vocazione luterana più di quanto noi la nostra matrice cattolica.

Per la grossa parte degli artisti di quei paesi, l’arte è una forma di esternazione di un’interiorità basata su un sentimentalismo mediocre. In Italia, con tutti i difetti e le motivazioni storiche, l’arte non è intesa come un momento di intervallo, una “ricreazione” da un dettame morale o spirituale, è libera, più libera che da altre parti.

Io mirerei di più a organizzare i rapporti tra le figure (gallerie, musei, enti, critici, curatori) ma senza creare rappresentanze.  L’artista non deve essere rappresentato, da chi poi?

Stesso dicasi per Critici e Curatori: servirebbe una normativa per inquadrarli all’interno di una sorta di Albo professionale? Se sì, quali requisiti e criteri mettereste alla base per entrare in un tale inquadramento?

Non essendo un critico o un curatore né per studi né per professione (almeno principale) non mi sento di esprimere un giudizio per la categoria.

Ambireste a un aumento di presenza creativa e umanistica all’interno di Comitati e Task Force politici, scientifici e in generale istituzionali (carenti anche di una rilevante presenza femminile!)? Che apporto potrebbero darvi artisti e intellettuali?

Certamente gli artisti dovrebbero essere coinvolti, con estrema attenzione però, anche sui piani gestionali della cultura. Questo aiuterebbe a fargli avere voce, a creare assemblee eterogenee di personalità del settore.

Per rifarci a quanto sopra affermato: per voi l’arte è destino o è arte della destinazione?

L’arte è il destino della destinazione.

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Donato Di Pelino (Roma, 1987) è avvocato specializzato nel Diritto d’autore e proprietà intellettuale. Scrive di arte contemporanea e si occupa di poesia e musica. È tra i fondatori dell’associazione Mossa, residenza per la promozione dell’arte contemporanea a Genova. Le sue poesie sono state pubblicate in: antologia Premio Mario Luzi (2012), quaderni del Laboratorio Contumaciale di Tomaso Binga (2012), I poeti incontrano la Costituzione (Futura Editrice, 2017). Collabora con i suoi testi nell’organizzazione di eventi con vari artist run space.

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