Ah, della traviata sorridi al desïo;
a lei, deh, perdona, tu accoglila, o dio
Violetta Valery canta stupendamente bene per essere una malata di tisi. In questa versione del melodramma verdiano la giovane soprano Claudia Pavone dà corpo e voce a una figura angelica, un’immagine di donna salvifica che all’attuale stato delle cose abbiamo perso il gusto di desiderare.
E’ una visione gentile, prigioniera della vita, come la signorina Benjamenta in un racconto di Robert Walser che scriveva: “E quando piange! Vien da pensare che la terra debba balzar fuori dai suoi punti d’appoggio, per la vergogna e il dolore di vedere quel pianto”.
La Traviata (1853) di Giuseppe Verdi è stata in scena nel mese di gennaio al Teatro dell’Opera di Roma con la regia di Sofia Coppola, la direzione del Maestro Pietro Rizzo e i costumi di Valentino Garavani (che è anche produttore dello spettacolo assieme a Giancarlo Giammetti).
Questo l’allestimento riproposto dopo il debutto di circa due anni fa proprio a Roma e che di recente è arrivato anche in Giappone.
Il libretto di Francesco Maria Piave, accademico dell’Arcadia e critico d’arte, scolpisce in un endecasillabo risorgimentale la storia d’amore difficile tra Violetta, la giovane donna diffusamente amata dalla Parigi bene, e il tutto d’un pezzo Alfredo Germont, in questa versione interpretato magistralmente dal tenore Antonio Poli. E’ forse il potere della letteratura minore da cui La Traviata ha origine, quella signora delle Camelie di Dumas figlio, di cui Verdi aveva intuito la forza simbolica.
Il punto di vista di Sofia Coppola si colloca a metà tra lo sfarzo e l’irriverenza della regia-svolta di Visconti del ‘56 (dove la Callas lanciava via le scarpe durante una delle arie) e il minimalismo di Strehler, tornando alla classicità sobria degli arredi e dei costumi con una grande attenzione simbolica. Ciascun atto accoglie in scena un oggetto muto ma potentissimo sul piano evocativo.
Il primo, dalla lunga scala che accompagna l’entrata in scena di Violetta, il secondo, che sposta l’ambientazione in un casale fuori Parigi, dalle due piante dentro i grandi vasi ai lati del palcoscenico. Il terzo atto, il più tragico, trasforma il letto su cui Violetta è annientata dalla malattia in un macigno, un ingombro attorno al quale tutti i personaggi sono costretti a girare in attesa della fine.
E’ forse la discrezione con cui introduce una poesia profonda un aspetto tipico della Coppola, che ha reso musica le dissonanze della nostra epoca, lo straniamento, il significato perduto durante la traduzione appunto.
Il femminile è al centro delle sue storie nel cinema, dove spesso la donna è narrata attraverso la sua aggregazione in gruppi, o gang, ad iniziare dal suo primo cortometraggio Lick the Star (1998) sino al Giardino delle vergini suicide (1999) o Bling Ring (2013). In tutte queste vicende, per le ragazze protagoniste l’adolescenza è una lama che affonda nel senso comune, che innesca una guerra fredda tra i sessi dove la donna è pervasa da un costante cinismo.
Nel contesto de La Traviata Violetta è da sola contro la vita che le ruota attorno, solamente in apparenza una figura superficiale, dedita agli agi. E’ una donna in grado di considerare il sentimento dell’amore nella sua accezione complessa, la più contraddittoria, la più vera.
www.operaroma.it/spettacoli/la-traviata
Donato Di Pelino (Roma, 1987) è avvocato specializzato nel Diritto d’autore e proprietà intellettuale. Scrive di arte contemporanea e si occupa di poesia e musica. È tra i fondatori dell’associazione Mossa, residenza per la promozione dell’arte contemporanea a Genova. Le sue poesie sono state pubblicate in: antologia Premio Mario Luzi (2012), quaderni del Laboratorio Contumaciale di Tomaso Binga (2012), I poeti incontrano la Costituzione (Futura Editrice, 2017). Collabora con i suoi testi nell’organizzazione di eventi con vari artist run space.
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