Artefiera delle differenze. Di prezzi, atteggiamenti e qualità

Mario Schifano. Ph. di Federica Campochiaro

Si è conclusa l’edizione 2017 di Artefiera a Bologna, la prima diretta da Angela Vettese che succede, come si alternano i conduttori a Sanremo, al duo Spadoni &Vrzotti.

Quest’anno i padiglioni erano così organizzati: una Main Section, dei Solo Show su singoli artisti, il settore Nueva Vista dedicato a giovani e non, “meritevoli di una rilettura critica”, e la sezione Fotografia curata dalla stessa Vettese, oltre agli innumerevoli eventi disseminati in città. Molte le gallerie partecipanti, italiane e straniere, con le loro differenze, specialmente sulla rivelazione dei prezzi delle opere esposte. Alla chiarezza espositiva degli anglosassoni, si oppone la reticenza mistica dei nostri galleristi non appena si azzarda una curiosità sulle cifre. Così, quasi come in una commedia di Wilde, le farfalle di Damien Hirst sono vendute da una galleria londinese a 4.800 euro l’una con cornice e a 4.300 senza. Così preciso da essere buffo, se non fosse che poi, a sud della Manica, da noi, qualcuno che espone solo lavori di Pino Pascali trasecola, quasi trasuda, nel comunicare il segreto; “Quella è venduta”, sta per cedere, fin quando si riesce finalmente a conoscere il dato: tra 20 e i 30 mila euro per dei lavori su legno.

Gli illuminati che individuano in questa nostra epoca un’apocalisse dell’arte per la disgregazione di certi valori, spesso sono loro stessi occupati nel mestiere di gallerista, e accade che si lancino con le profezie, esagerando tanto da non badare a una serie di dati di fatto.

 “Gli artisti migliori erano disoccupati, erano disoccupati da molto prima, o comunque significativamente prima, che la crisi occupazionale rimbalzasse sulle prime pagine dei giornali.” (Ezra Pound)

Ezra Pound, in un saggio intitolato Assassinio a opera del capitale, poneva sul tavolo le ripercussioni di un’economia sempre più furiosa e famelica su tutte le arti, con parole straordinariamente vicine alle nostre. Il capitalismo forzava l’assetto sociale e, di riflesso, formava il mercato e l’intero sistema dell’arte, così come sarebbe stato poi definito. Oggi che la produzione non è più corrispondente al lavoro e al risultato, non solo nell’arte ma in qualsiasi attività, si affacciano nuove leggi e nuovi parametri.

Lo scorso anno avevamo incontrato Matteo Boetti e Andrea Bizzarro della galleria Bibo’s Place di Todi, che gentilmente si erano offerti da termometri per testare la temperatura di Artefiera dal di dentro. Li ritroviamo anche in questa ultima edizione, sempre con delle proposte non allineate, di qualità e soprattutto di ampio spettro di vedute e di prezzi. Tante gallerie ripropongono i classiconi che hanno fatto i numeri nelle aste durante l’ultimo anno e mezzo (Bonalumi e amici, Schifano), alcune si concentrano su figure specifiche come il grande artista-architetto Ugo La Pietra. Bibo’s espone opere di Sol Lewitt, Francesco Lo Savio, un Fontana da un milione di euro, accanto a ottimi lavori di giovani come Leonardo Petrucci e Davide D’Elia. I Bibo’s boys navigano con disinvoltura, ma non senza impegno, l’oceano di un’arte per certi aspetti sempre più simile alla finanza. Tanti prezzi e artisti gonfiati?

Afferma Matteo Boetti:

“Il tempo è galantuomo, ma, nel mentre, è ovvio che i mezzi per vivere non crescono sugli alberi e pertanto occorre far fronte alle regole del gioco ricercando sempre la qualità. L’affluenza dei collezionisti è molto buona e mi sembra che Angela Vettese quest’anno abbia fatto un ottimo lavoro, portando Artefiera su un piano più europeo e internazionale.”

L’aspetto dell’allestimento in una fiera è responsabile di tante considerazioni anche in merito a possibili polemiche. In pochi metri quadri di stand, tra quattro pareti di cartongesso, non tutte le opere sono uguali, a prescindere dal valore e da chi le ha fatte. Per questo si dovrebbe diffidare da chi predica la necessità del nuovo a tutti i costi poiché il nuovo non esiste di per sé, specialmente nel relativismo estremo in cui versa l’arte contemporanea. Bello, ad esempio, l’allestimento della galleria Il Ponte di Firenze in cui sfilano con grande eleganza, tra gli altri, ragazzi come Mauro Staccioli o Baruchello con due sue opere degli anni ’70 (90.000 euro ciascuna). Mario Mazzoli, nel suo spazio berlinese, affronta il tutto da una prospettiva decisamente più hipster, dedicandosi per lo più a giovani autori accomunati dall’operare tramite installazioni meccanico-sonore. Lo spettatore è ovviamente catturato, la folla circumnaviga il lavoro di Donato Piccolo L’ultima notte che ho capito di non essere io (5.000 euro). Berlino d’altronde è la città dove tutto è possibile, della libertà, dell’arte istituzionalizzata al punto di assicurare ai giovani artisti spazi e sovvenzioni comunali che però, in fondo, sono anch’esse parti di un disegno, o meglio, di un progetto. L’artista così finisce per accendere l’ennesima luce tra milioni di finestre uguali, dentro palazzoni in disuso adibiti a studio. Questo fino a quando uno si ritrova, inconsapevole e in buona fede, a sognare Brandeburgo per poi restituire in patria un polmone artificiale che suona per ore la stessa nota dentro le canne di un organo.

L’Italia con il suo sistema dell’arte disordinato e, per fortuna, ancora non istituzionalizzato, con tutti i suoi difetti, permette ancora all’artista un fatto fondamentale, di sviluppare, cioè, la sua identità. Questo da Artefiera emerge. Non tutti ci riescono ma è così, l’arte è difficile, lo è sempre stata.

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Donato Di Pelino (Roma, 1987) è avvocato specializzato nel Diritto d’autore e proprietà intellettuale. Scrive di arte contemporanea e si occupa di poesia e musica. È tra i fondatori dell’associazione Mossa, residenza per la promozione dell’arte contemporanea a Genova. Le sue poesie sono state pubblicate in: antologia Premio Mario Luzi (2012), quaderni del Laboratorio Contumaciale di Tomaso Binga (2012), I poeti incontrano la Costituzione (Futura Editrice, 2017). Collabora con i suoi testi nell’organizzazione di eventi con vari artist run space.

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