Benjamin Skepper, l’olandese tra Australia, Tokio, Russia, resto del mondo e bellezza. L’intervista

Al termine della mia intervista con Benjamin Skepper, ci siamo fermati in una galleria di amici in Via Giulia, a Roma.
Mentre io chiacchieravo amabilmente, sento di sfuggita Benjamin rispondere alla domanda della gallerista che gli chiedeva di dove fosse.
“Sono olandese”, disse l’artista con una nonchalance che mi fece ridacchiare tra me e me.

A parte per l’altezza, uno e novanta o giù di lì, Benjamin Skepper ha ben poco dell’olandese.
Capelli neri lunghi fino alla schiena, occhi a mandorla incorniciati da una montatura ray-ban, folti baffi, naso asiaticamente all’insù, zigomi pronunciati. Incisivi leggermente più grandi, i quali combinati ad un accento australiano lo rendono immediatamente simpatico, nonostante l’inquietante mise completamente nera.
Così come ad una prima occhiata è complicato individuare la provenienza geografica di Benjamin, è altrettanto difficile catalogarlo in una particolare categoria artistica. L’ex bambino prodigio della musica classica, nato a Melbourne da genitori di origini europee e giapponesi, si è fatto conoscere internazionalmente grazie alle sue performance sonore, spesso accompagnate da videoarte o da installazioni.

Nelle sue esibizioni l’artista veste panni stravaganti, giacche variopinte, cappelli di piume di pavone, kimono (“quello lo indossavo anche per andare a scuola da piccolo!”) e suona clavicembalo e violoncello:

“Solo sul palco mi sento veramente nel mio elemento. E la mia musica è mirata proprio a modificare la percezione dell’ambiente circostante. Quando mi trovo in ambienti industriali tendo a suonare melodie armoniose. Mi piace creare un paesaggio sonoro che possa modificare la percezione di uno spazio considerato brutto. Quando sono invitato in ambienti barocchi, come mi è capitato in Italia, Francia e Russia, suono al contrario una musica industrial, quasi disarmonica, così da sfidare tanta bellezza.”

Nel 2010 Benjamin si è esibito per la prima volta in Italia a Palazzo Reale, per l’inaugurazione del Museo del Novecento:

“Quando mi hanno chiesto di suonare lì ero felicissimo! Il Palazzo Reale è una struttura di un fascino speciale, arricchita dal fatto di non essere stata completamente restaurata. Non potevo smettere di guardare quella cariatide senza testa, senza braccia, mezza distrutta dalle bombe… corrispondeva esattamente alla mia estetica, quella di una bellezza spezzata.”

Eppure l’attuazione di questo suo primo progetto italiano è stata un’odissea:

“Per via dell’instabilità politica ed economica italiana di allora, e quindi di repentini cambi di budget, fino all’ultimo minuto non si è saputo se la performance si sarebbe fatta o meno. Io però ero pronto a tutto pur di suonare in quel meraviglioso spazio.”

Benjamin mi racconta che il concerto sarebbe dovuto essere sabato sera e lui venerdì notte era ancora nella sua casa a Tokyo:

“Mi sono addormentato nella preoccupazione e nell’incertezza mentre fuori c’era una terribile tempesta. Ho cominciato a sognare che la mia casa era stata risucchiata da un ciclone, il che mi ha fatto risvegliare di colpo. Guardo l’orologio e sono le 5 del mattino. Scendo dabbasso, controllo la mail e ricevo la conferma del concerto a Milano. Merda! Dovevo muovermi, perché sai com’è, non è che da Tokyo al Museo del Novecento siano esattamente due passi! Cerco di prenotare il volo, il primo disponibile era alle 10.30 del mattino, arrivo in aeroporto e a causa della tempesta tutti i voli erano stati rimandati di cinque ore! Fantastico! Perfetto!
Miracolosamente riesco a partire ed arrivare in Italia poche ore prima del concerto. Ma non è finita qui! Il mio ingegnere del suono giapponese non era potuto venire con me, quindi sono ricorso ad un ingegnere italiano. Il problema era che io non parlavo italiano e lui non parlava inglese, quindi non riuscivamo a capirci! In questi casi penso che l’unica soluzione è agire senza troppe spiegazioni! L’ingegnere è dovuto salire sul palco con me ed in un certo senso è diventato parte della mia installazione. Mi dispiaceva per lui perché lo vedevo sudare come nella peggiore delle estati tropicali! Avere un ingegnere sul palco è una cosa completamente non ortodossa, specialmente quando io indossavo questo bellissimo copricapo mohawk di pavone creato dalla mia sorella cappellaia Rachel, questa sontuosa giacca di broccato confezionata a Vienna, gli antichi pantaloni da samurai appartenuti a mia nonna… e poi ti giravi e vedevi questo tizio seduto lì in maglietta e salopette proprio di fianco a me!”

Alla fine, racconta Benjamin, tutto è andato come previsto ed il concerto è stato un successo. Tranne che per un ultimo piccolo dettaglio:

“C’era un momento della mia performance in cui ero al massimo della mia intensità, completamente immerso in uno spazio spirituale, sacro. Ero in contatto con un’energia che andava oltre me stesso ed allo stesso tempo scorreva sotto la mia pelle. Proprio in quel momento sentii un ticchettio sulla spalla. Era il coordinatore della produzione che mi chiedeva di fermarmi. Ed io: che cazzo… che cazzo… che cazzo!!! (in italiano ndr). Nessuno deve osare salire sul mio cazzo di parco, cominciare a parlare con me e prendere che io gli risponda!”

Il coordinatore della produzione spiega a Benjamin che il sindaco di Milano vuole parlare con lui:

“Io gli faccio: Che cosa? Cosa!?! Ok. Certo. Sai che c’è, stacca… stacca la spina. Stacca quella cazzo di spina! Smetto di suonare, scendo dal palco e faccio conoscenza con il sindaco di Milano che mi racconta quanto le piace Tokyo e della sua predilezione per il sushi. Fantastico.”

Dopo la chiacchierata Benjamin torna sul palco e ricomincia a suonare. All’improvviso l’intero vociante Palazzo Reale si zittisce. Non vola una mosca.
Per venti minuti l’artista delizia un pubblico completamente rapito. Ventiquattrore dopo il suo sogno della tempesta a Tokyo, il suo aereo rimandato, l’arrivo a Milano, era tutto finito.

Abituato a destreggiarsi nelle situazioni organizzative più difficili, Benjamin continua a spostarsi continuamente, questa è infatti la sua formula contro la stagnazione creativa.
L’anno scorso l’artista è stato nominato ambasciatore culturale per l’Australia in Russia, quindi nei prossimi mesi sarà a Mosca e San Pietroburgo. A causa delle frizioni tra il governo australiano e quello russo, la sua posizione di ambasciatore culturale è stata però minacciata; ribadisce l’artista con veemenza:

“Ma a me non interessa l’investitura del governo australiano.
Non mi faccio dire da nessuno cosa devo e non devo fare. Andrò comunque in Russia, un paese che dal punto di vista artistico, filosofico, culturale, politico e personale è estremamente interessante per me.”

Benjamin fa una pausa e si butta la chioma nera dietro la spalla:

“ Per essere un guerriero culturale devi partire, condividere la tua storia, aprirti alla conoscenza e a nuove esperienze. Al momento sono alla ricerca di un nuovo posto dove vivere, magari mi trasferisco a Mosca!”

Avendo antenati che hanno calpestato una buona parte del globo terrestre, l’artista non ha difficoltà a vedersi come zingaro bohemien per le strade del mondo:

“La gente poi si potrà chiedere: dove sarà Benjamin adesso? Starà bevendo champagne nei salotti buoni, starà suonando in completa solitudine, sarà ricco, sarà povero, chi lo sa? Il fatto di non poter prevedere nulla fa parte dell’essere un artista. Io mi sento una marionetta del cosmo. Aspetto sempre un segno dal cielo che mi consenta di procedere. Non so da dove possa provenire la prossima opportunità per me, e in che modalità, ma faccio in modo da essere sempre aperto ad ogni possibilità. E’ così che io vivo la mia vita!”

Benjamin mi spiega che nella sua pratica artistica è basata su un’interazione con gli stimoli circostanti, e si arricchisce di collaborazioni con artisti di altri campi, dalla moda, all’artigianato all’architettura.
Più di tutto, la sua ricerca ha come fine ultimo la bellezza, che per lui è una presa di posizione sociale ed estetica:

“Voglio lasciare un’impressione positiva per il futuro. Tutti non fanno che ripetere che il mondo è fottuto, che moriremo tutti, e quindi finiscono per arrendersi! Io penso invece che ci sia bisogno di unire le forze per creare bellezza e una vita che valga la pena di essere vissuta!”

Sei anni fa Benjamin si era trasferito a Tokyo. A quei tempi non voleva nient’altro che andarsene dall’Australia per ritrovare le proprie radici.
L’artista era fortemente affascinato dalla forte identità nazionale giapponese, con la quale poteva relazionarsi pur non essendo nato nella terra del sol levante.

“Crescendo ho sempre sentito di non appartenere a nessun posto, di non sapere dov’era veramente casa mia. Non ho una casa di proprietà, il mio unico possedimento di valore è il mio violoncello.
Ho avuto la fortuna, e mi sono anche preso il rischio, di vivere una vita nomade. Continuo a viaggiare senza nessuna promessa di futuro, esponendomi alle situazioni fiducioso che qualcosa accadrà.
Ma dopo aver viaggiato molto, parlato molto con la gente, e credimi, bisogna parlare con la gente, una conversazione ha più valore di qualsiasi libro, ebbene, solo ora capisco quanto sia fortunato a non essere legato a nessun posto.
Non sono olandese, non sono inglese, non sono russo, non sono giapponese, non sono italiano, non sono francese e sicuramente non sono australiano. Sicuramente non sono niente di tutto ciò. E perché non sono niente di tutto ciò, sono tutte queste cose.”

Info: benjaminskepper.com/


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Naima Morelli è una critica e giornalista specializzata in arte contemporanea nel Sudest Asiatico e Medioriente, ed è un'autrice di graphic novel. Scrive regolarmente per Middle East Monitor, Middle East Eye, CoBo, ArtsHub, Art Monthly Australia e altri. Collabora con gallerie asiatiche come Richard Koh Fine Arts, Lawangwangi Creative Space, Tang Contemporary con testi critici e come liason tra Italia e Sudest Asiatico. E’ autrice di due libri-reportage intitolati “Arte Contemporanea in Indonesia, un’introduzione” e “The Singapore Series”. Sotto lo pseudonimo “Red Naima” ha pubblicato le graphic novel “Vince Chi Dimentica”, incentrato sulle tensioni artistiche di inizio ‘900, e “Fronn ‘e Limon”, realismo magico all’italiana.

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