La globalizzazione nel mondo dell’arte? Non esiste. Intervista a Xiaoyu Weng, curatrice alla Kadist Foundation di San Francisco

Xiaoyu Weng
Xiaoyu Weng

Avevo incontrato Xiaoyu Weng a Torino durante la fiera Artissima. Aggirandomi per i padiglioni, avevo già notato questa graziosa ragazza con il caschetto nero aggirarsi con piglio sicuro e chiacchierare con un espansivo accento americano con le varie gallerie, prima ancora di sapere chi fosse.

Trattasi della curatrice del Contemporary Asian Art Consortium e responsabile del programma asiatico della Kadis Foundation di San Francisco; durante l’intervista avevo avuto modo di apprezzare il suo andare dritto alle problematiche senza troppi giri di parole, e la sua chiarezza di visione, virtù rara tra i curatori che di solito si impelagano in labirinti verbali e finiscono per parlare la vaghezza dei comunicati stampa. Affascinante, concreta, intelligente e curiosa, Xiaoyu costituisce uno di quegli indispensabili costruttori di ponti culturali che collegano oriente e occidente, travalicando stereotipi.

Xiaoyu Weng mi racconta che per lei è la prima volta nella commissione curatoriale di una fiera, e il processo è risultato per lei più arduo di quello che credesse, specialmente per la costrizione a scegliere artisti legati a delle gallerie:

“In genere non frequento molto le fiere d’arte. Per dire, non sono mai stata a Basilea, alla FIAC o ad altre fiere europee. L’unica eccezione è Art Basel Hong Kong, dove vado regolarmente, sfruttando l’occasione anche per vedere altre mostre che si svolgono contemporaneamente. Trovo difficile relazionarsi con i lavori o scoprire nuovi artisti in mancanza di un contesto, così come accade in fiera. A volte per riuscire ad approcciare le opere devi necessariamente parlare con l’artista o il gallerista. A parte questo, però, trovo che Artissima sia una fiera molto sperimentale, con gallerie che osano. Ho apprezzato il fatto che non sia incentrata esclusivamente sulle vendite, ma anche sull’aspetto relazionare dei lavori.”

Accanto al suo lavoro per le summenzionate Kadist Foundation e Contemporary Asian Art Consortium, Xiaoyu si dedica anche a progetti indipendenti. La curatrice mi racconta che in realtà non c’è mai stato un momento in cui si è trovata disoccupata, essendosi sempre affiliata ad istituzioni.

“A lato però ho sempre coltivato progetti indipendenti e la scrittura. Sono tutti processi paralleli. Ovviamente come curatrice indipendente non devo rappresentare una certa identità istituzionale e sono più flessibile. Per la Kadist Foundation ad esempio il mio compito è curare i programmi relativi all’Asia, quindi mi occupo della collezione, di residenze e di scambi legati strettamente ad un contesto asiatico. Nella mia pratica indipendente invece posso approcciare discorsi più ampi, slegati dalla provenienza geografica.”

Un aspetto al quale Xiaoyu si è interessata con i suoi progetti indipendenti sono le corrispondenze tra diverse culture, come ad esempio quella del processo di feroce urbanizzazione che accomuna l’Asia e il Sud America.

“Si possono tracciare dei paralleli tra i discorsi coloniali di posti come il Messico, l’Argentina e il Brasile e Macau, l’Indonesia e la Tailandia. Mi interessa trovare collegamenti, possibili narrative comuni ancora da esplorare”

Nel chiacchierare con la curatrice, mi accorgo che utilizza spesso la parola “esotico”. Incuriosita, le chiedo cosa intenda con questo termine in relazione all’arte contemporanea.
Xiaoyu mi ricorda come in passato “chinoiserie” come stampe, pitture di paesaggi e vasellame dalla Cina e dal Giappone fossero collezionate dagli europei come curiosità, e come gli artisti occidentali abbiano pian piano cominciato a inglobare influssi asiatici nella loro pratica, senza però riconoscere che quelle stampe e manufatti fossero effettivamente arte. Secondo la curatrice questa visione non è poi così tanto cambiata nel tempo.

 “Non mi riferisco solo ad un pubblico non informato, parlo anche di coloro che sono addentro all’arte contemporanea. La gente cerca costantemente qualcosa che sia diverso dalla propria esperienza pregressa, e questo va bene. Quello che trovo problematico è la sussistenza di un’idea stereotipata legata ad alcuni paesi. Le persone pensano Amazzonia! Animali esotici! Uccelli variopinti! Serpenti, tigri, coccodrilli! Per quanto riguarda la Cina invece la gente è ancora legata all’idea di un’arte pop pesantemente influenzata dalla politica. Se un artista cinese non soddisfa queste aspettative, il fruitore rimane inevitabilmente deluso.”

Anche se non si dovrebbe mai rinnegare il proprio contesto, ragiona la curatrice, molti artisti al giorno d’oggi sono di fatto dei nomadi. Si muovono in giro per il mondo e questo risulta evidente nelle loro opere. Il ruolo del curatore e delle istituzioni è proprio quello di introdurre le complessità del lavoro di un artista ad un pubblico ignaro o carico certe aspettative errate. Un ruolo di ponte, se volete.
Xiaoyu mi racconta di aver vissuto il peso di queste aspettative sulla propria pelle, cercando per anni di evitare in tutti i modi di essere considerata una curatrice cinese, un problema che a sua detta riguarda molti altri artisti e curatori della sua generazione. Col tempo ha capito che non è corretto ragionare in bianco e nero, ed ha finalmente accettato l’influenza del proprio pregresso culturale e delle questioni ad esso legate:

“La chiave di volta è articolare tutte queste problematiche attraverso il proprio lavoro e renderle un punto di forza.”

Le differenze esistono, non ha senso negarle. Serve piuttosto indagarle e valorizzarle.
Xiaoyu ribadisce convinta di non credere all’universalità:

“Ci sono senz’altro certi aspetti che sono universali, come l’empatia, i sentimenti umani. Quando si tratta di arte però non penso sia corretto parlare di un mondo dell’arte globalizzato. Basti pensare quanta difficoltà c’è nell’approcciare lavori prodotti da artisti con un retroterra culturale diverso dal nostro. Credere che tutti i lavori siano leggibili da chiunque allo stesso modo è un’idea ingenua o utopica. Tanto per cominciare, non tutti parlano inglese. Poi c’è il problema dell’esotismo di cui parlavamo prima. Nella mia pratica curatoriale non mi interessa creare l’illusione di un mondo globalizzato, ma piuttosto di creare scambi genuini tra due posti, magari anche molto specifici, trovando però punti di contatto piuttosto che evidenziare le differenze.”

Xiaoyu si ferma un attimo, poi riprende con rinnovata convinzione:

“In passato eravamo già globalizzati, se ci pensi. Esistevano culture sviluppatesi fianco a fianco con molte somiglianze, ma poi queste similitudini sono state nascoste dal tempo e dalla storia. Nel mio lavoro da curatrice voglio portare alla luce questi collegamenti.”

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Naima Morelli è una critica e giornalista specializzata in arte contemporanea nel Sudest Asiatico e Medioriente, ed è un'autrice di graphic novel. Scrive regolarmente per Middle East Monitor, Middle East Eye, CoBo, ArtsHub, Art Monthly Australia e altri. Collabora con gallerie asiatiche come Richard Koh Fine Arts, Lawangwangi Creative Space, Tang Contemporary con testi critici e come liason tra Italia e Sudest Asiatico. E’ autrice di due libri-reportage intitolati “Arte Contemporanea in Indonesia, un’introduzione” e “The Singapore Series”. Sotto lo pseudonimo “Red Naima” ha pubblicato le graphic novel “Vince Chi Dimentica”, incentrato sulle tensioni artistiche di inizio ‘900, e “Fronn ‘e Limon”, realismo magico all’italiana.

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