Accademiste ad Orvieto e una graphic novel sulle atlete del ventennio

immagine per La Grandezza dell'ora. Accademiste ad Orvieto e una graphic novel sulle atlete del ventennio

Quand’è l’ultima volta che avete ardito? Ardimento, arditismo, termini squisitamente novecenteschi che possiamo associare tanto al Vate “Ardisco non ordisco”, tanto alle cattivissime sezioni speciali degli Arditi nella prima guerra mondiale col pugnale tra i denti. Personalmente, mi sono di recente ritrovata a lascare e cazzare questo termine in un piccolo dighy, una barchetta a vela pericolosamente abbattuta lateralmente.

Alchè io, prudentemente, chiedo al bel velista al timone, con il ciuffo riccio al vento:

“Ma non siamo forse troppo abbattuti? Non rischiamo di capovolgere questo guscio di noce?”

E il velista mi risponde:

“Ma no, niente affatto! Stiamo solo ardendo!”

Questo sembrerebbe dunque essere l’arditismo, penso tra me e me. Spingersi giusto un po’ più in là del proprio punto di equilibrio, della propria zona franca.

E così, le vele si gonfiano, il dinghy prende un bel po’ velocità.

Ma che c’entra l’arditismo con il femminismo? A quanto pare, tutto.
In tempi in cui le atlete, italiane e non, trionfano alle Olimpiadi, in tempi in cui la cultura finalmente comincia a riconoscere le esperienze femminili presenti e passate, è bene andare alle radici, e rintracciare il ruolo fondamentale delle sportive nel processo di emancipazione della donna.

Tutto comincia con una scuola esclusiva, una scuola per formare allieve eccezionali. No, questi non sono gli X-Men, e non c’è nessuno Professor Xavier. C’è però una comandante, chiamata Elisa Lombardi.
Sono gli anni ‘30, siamo in pieno regime, e il regime ha un piano. Quello di diffondere lo sport a livello nazionale, formando insegnanti di educazione fisica da mandare in ogni angolo dello stivale.
Si è scritto già molto sul ruolo del corpo atletico nei totalitarismi del ‘900. Per i fascisti, corpo e ideologia andavano a braccetto. Educando il corpo dei giovani, si mirava a possederne anche l’anima.
Anche i fascisti parlavano di arditismo, e ne parlavano come un “valore morale.”

Chi poteva immaginare dunque che in seno al patriarcalissimo ventennio, fosse occorso un sotterraneo processo di emancipazione femminile? Non ne è stata meno sorpresa la scrittrice e giornalista Ritanna Armeni, nella sua ricerca per il suo romanzo Mara, dove pure parla dell’Accademia di Orvieto.
I momenti di emancipazione femminile all’interno del programma fascista non sono stati però mai realmente previsti, tantomeno auspicati. Si è trattato piuttosto effetti collaterali. Collaterali e inevitabili.

Già; non si potevano proprio evitare. D’altronde come si sarebbe convinta la popolazione femminile, impiegata in ogni sorta di lavoro pesante dopo che gli uomini erano andati alla Grande Guerra, di essere fragili fiori inadatte alla fatica. La consapevolezza della propria forza, fisica e morale, era ormai evidenza per le donne degli anni ’30.

D’altronde il regime fascista aborriva i cosiddetti “gretagarbismi”, ovvero la svenevolezza da diva del cinema: siamo pur sempre all’epoca dei falsi svenimenti e dei “portate i sali!”
Il programma nazionale di educazione fisica allargato alle donne, inizialmente promosso dal governo al fine di formare “madri in buona salute”, finisce per alimentare nelle donne forte senso di sé, consapevolezza della propria forza, e uno forte spirito di indipendenza. Non dimentichiamo che veniamo dall’800 che voleva una donna del tutto inerte e passiva. “Intanto prendiamoci questa proposta,” si sono silenziosamente dette la comandante e le insegnanti dell’Accademia di Orvieto, “e vediamo come muoverci da qui.”

Nel ‘32 viene quindi fondata l’Accademia Femminile Fascista di Educazione Fisica della GIL di Orvieto, riprendendo un edificio preesistente, con il compito di formare le future insegnanti di ginnastica. Il corso durava due anni e dava diritto all’insegnamento nelle scuole pubbliche e private. Al termine del triennio le diplomate erano proiettate immediatamente nel mondo del lavoro, un privilegio non da poco.

Le materie di insegnamento erano varie e non prevedevano solo l’attività fisica. Erano previste lezioni di tirocinio di comando, danza, musica, pedagogia, lingue straniere e molto altro. Fiore all’occhiello dell’Italia fascista, la stampa si occupava spesso di quelle che erano chiamate le orvietine.

Vediamo quindi come nella figura della donna sportiva del ventennio, così come nel programma dell’Accademia di Orvieto, si realizza l’apogeo della donna fascista, e allo stesso tempo la contraddizione in termini di questo modello. Sebbene molte di queste arditissime donne fresche d’Accademia diventeranno poi mogli e madri, avranno comunque il raro privilegio di realizzarsi anche professionalmente, nell’insegnamento dell’educazione fisica. Come faccio a saperlo? Perché mia nonna, Claudia Fattorusso, era una di loro.

Il nome di questa Accademia, che mia nonna frequentò a partire dai diciassette anni, è sempre aleggiato nelle stanze delle mia infanzia e gioventù come un luogo lontano di d’incantata disciplina. Dal carattere forte, tenace e determinato, dopo l’accademia Claudia si è sposata e ha attraversato la seconda guerra mondiale. Ha avuto ed educato cinque figli, e nel frattempo ha sempre lavorato come insegnante di ginnastica, educando generazioni e generazioni di sorrentini, in un periodo in cui l’idea, a noi cara, di equilibrio tra vita e lavoro era del tutto inesistente.

Nella ricerca delle foto di famiglia l’ho ritrovata ritratta con le sue amiche in Accademia, indossando le varie divise dell’Accademia di Orvieto che, va detto, erano elegantissime, e al mare, eccellente nuotatrice. Compare anche nelle fotografie all’interno del libro Accademiste a Orvieto. Donne ed educazione fisica nell’Italia fascista (1932-1943) a cura di L. Motti, M. Rossi Caponeri pubblicato da Quattroemme, che ha illuminato molti altri aspetti di questa esperienza unica.

L’estate scorsa mi sono ritrovata a leggere delle accademiste con crescente curiosità, e persino con una sorta di slancio verso quella vita ordinata e orientata verso un obiettivo. Nello sport, noi che bazzichiamo l’arte contemporanea tendiamo a dimenticarcene, è sempre così. Ero affascinata dall’idea di una dimensione fisica che potesse solidificare un senso di sé e consacrarlo, persino in una società così poco aperta nei confronti delle donne.

In quei giorni di ricerca, l’altro libro che avevo in borsa e leggevo la mattina sui gradini di un basso a Castellammare del Golfo, era il classico Lo Zen e il Tiro con l’Arco di Eugen Herrigel. In questo testo lo scrittore tedesco racconta la sua esperienza con la filosofia zen, appresa attraverso il tiro con l’arco, proprio negli stessi anni in cui le accademiste compivano le loro evoluzioni alla sbarra.

Da praticante di arti marziali io stessa, ho avuto modo di sfiorare, non solo con la mente ma anche col corpo, i concetti di tensione senza intenzione e di vincere abbandonando la volontà di vittoria. Leggere invece del regime fascista che aveva fatto, al contrario, di vincere la parola d’ordine, e dell’eliminazione dei concetti di debolezza, di indugio e dubbio la propria religione, mi ha creato interessanti collegamenti. Cosa voleva dire essere presente per i fascisti, cosa vuol dire essere presenti per i monaci zen? E in che modo il corpo si fa portavoce di queste due visioni del mondo?

Tutte queste riflessioni e suggestioni, a partire dall’ardimento, dalle veleggiate nel Golfo di Napoli, l’esperienza dell’Accademia, la donna atleta, la tensione senza intensione, si sono per me concretizzati nella creazione di una graphic novel dal titolo: La Grandezza dell’Ora.

Una circostanza fortuita ha voluto che questa uscisse qualche giorno fa, proprio in concomitanza con le Olimpiadi di quest’anno. La storia della mia protagonista, Italia Rossetti, parte dall’esperienza dell’Accademia per poi prendere il volo, espandendosi fino ad includere un altro importante evento di quegli anni, le Olimpiadi di Berlino del 1936. Sono quelle filmate da Leni Riefenstahl in Olympia, quelle in cui l’ostacolista e velocista italiana Ondina Valla riportò a casa l’oro olimpico.

La Grandezza dell’Ora è dunque una storia concepita come autoconclusiva, una storia di sport, amicizia, di cadute e riprese, ma è anche parte della mia serie a fumetti Vince Chi Dimentica, che esplora e trasfigura alcune figure femminili chiave del ‘900, tra cui anche Palma Bucarelli. Figure che emergono dal passato, eppure quanto mai rilevanti se calate nel contesto contemporaneo.

L’accademista e tuffatrice olimpionica Italia, protagonista di questa graphic novel, ha infatti qualcosa da dire sul titolo della saga:

“No, non è vero che vince chi dimentica. Vince chi ricorda. Quel che siamo stati è qualcosa che non potremo mai più perdere, l’unica cosa per sempre nostra.”

Così, persino nel marciume dell’ideologia fascista, c’è qualcosa che si salva, che si riscatta. Questo è lo spirito dell’individuo e della collettività di un gruppo di donne controcorrente, che si afferma e sovverte i dettami del regime dall’interno. E’ da queste ceneri che può nascere un nuovo mondo.

Tutto sta nell’essere disposti ad ardire.

immagine per La Grandezza dell'ora. Accademiste ad Orvieto e una graphic novel sulle atlete del ventennio

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Naima Morelli è una critica e giornalista specializzata in arte contemporanea nel Sudest Asiatico e Medioriente, ed è un'autrice di graphic novel. Scrive regolarmente per Middle East Monitor, Middle East Eye, CoBo, ArtsHub, Art Monthly Australia e altri. Collabora con gallerie asiatiche come Richard Koh Fine Arts, Lawangwangi Creative Space, Tang Contemporary con testi critici e come liason tra Italia e Sudest Asiatico. E’ autrice di due libri-reportage intitolati “Arte Contemporanea in Indonesia, un’introduzione” e “The Singapore Series”. Sotto lo pseudonimo “Red Naima” ha pubblicato le graphic novel “Vince Chi Dimentica”, incentrato sulle tensioni artistiche di inizio ‘900, e “Fronn ‘e Limon”, realismo magico all’italiana.

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