La libertà è la base di tutto. Intervista a Dolorosa Sinaga

 “Lui è seduto su una roccia poiché non gli è rimasto nulla. L’intera storia è perduta, persino il padre, la madre, non c’è rimasto più nessuno. Tutto è perduto. Il disastro di Lapindo ha ucciso così tante persone, per questo ho deciso di realizzare questo monumento. Voglio che la gente sappia. Voglio che la gente sia consapevole dei disastri che la cupidigia degli uomini, il capitalismo, possono scatenare. Tutto ciò che è realtà, tutto ciò che è finzione. Questa è la vita.”

Quando l’artista indonesiana Dolorosa Sinaga spiega inspirata uno dei suoi lavori, e farlo le piace moltissimo, si capisce subito che le sue sculture sono di quanto più lontano possa esistere dall’art pour l’art. Le sue opere sono infatti profonde espressioni di temi collettivi, sociali e politici.

Sebbene in vena di critica al capitalismo, ironia della sorte io e Dolorosa siamo sedute ad un tavolino di Starbuck, al centro di Giacarta. Purtroppo non ci sono moltissime altre alternative a quest’ora di sera, quindi accettiamo il fatto di comune accordo. Sorridente, sguardo vivace e capello brizzolato, Dolorosa Sinaga è a metà strada tra Patti Smith e una saggia di un villaggio giavanese:

“Quando ero bambina l’unica cosa che mi interessava era giocare con il mio cane. E certo, ero anche impegnata a imparare a suonare il pianoforte, a modo mio s’intende. Mio padre non prestava troppa attenzione al mio potenziale artistico, quindi non ho mai studiato musica come si deve. Ma dopo aver finito le scuole medie non avevo nient’altro in mente che andare in una scuola d’arte”

 Dal pianoforte alla scultura. Cos’è che ti ha motivato?

“Devo essere onesta, è stata tutta colpa del mio compagno di banco. Disegnava troppo bene! Ogni volta che lo vedevo disegnare sembrava completamente immerso nel proprio mondo, ti dava l’idea di essere veramente libero. Lo guardavo incantata e desideravo avere anch’io un intero mondo nell’ anima. Da allora ho sempre pensato all’arte come la base della libertà. Ho scelto l’arte perché mi rendeva libera.”

Hai studiato al Jakarta Institute durante gli anni del regime di Suharto, in un momento in cui gli studenti erano consapevoli del ruolo politico e sociale dell’arte.

“A quei tempi usavamo l’arte per rendere le persone coscienti di quello che stava succedendo. L’arte era un strumento per noi, un’arma. Io e i miei amici facevamo attivismo. Lavoravamo insieme cercando di esprimere i sentimenti delle persone dei villaggi, dalle campagne, i contadini e tutti quelli che vivevano ad un livello di sussistenza. Il nostro nemico erano i militari. Diamine, erano ovunque! Ovviamente la caduta di Suharto non è dipesa da noi, ma credo che in un certo modo noi studenti di arte abbiamo dato il nostro contributo nel costituire una presa di coscienza.
(Dolorosa afferra uno dei cataloghi delle sue personali sparsi sul tavolo e indica una statua che rappresenta un gruppo di persone strette tra di loro.)
Per esempio questa immagine. Nel 1998, data della caduta di Suharto, ci furono rivolte contro il governo, e i militari entrarono nelle università uccidendo e ferendo gli studenti. Nel creare quest’opera mi riferisco alla loro sofferenza, voglio che la gente veda, non dimentichi quello che è successo.”

Come vi siete comportati voi artisti nel periodo che è seguito?

 “Il seguente periodo di riforma per noi artisti è stato strano. Suharto non c’era più, quindi non capivamo più chi e cosa combattere. Cominciammo ad assistere allo sviluppo dell’arte contemporanea in Indonesia, la rinascita dei mercati… c’era qualcuno fra di noi che però aveva identificato altri problemi sociali per cui valeva ancora la pena di lottare. Nodi insoluti. Nuove problematiche.”

Nell’83, ti trasferisti da Giacarta a Londra per seguire i corsi alla Central Saint Martins, immagino che la situazione che avevi trovato in Europa era molto diversa!

 “Per me è stato un cambiamento radicale. A Londra la metodologia di insegnamento era completamente diversa, sai com’è, in Indonesia non studiavamo molto della nostra cultura o la storia dell’arte. Eravamo spontanei, istintivi. Ci affidavamo alla nostra sensibilità.
A Londra ho conosciuto i maestri che ancora adesso ispirano il mio lavoro, Giacometti, Rodin, Balla…e Duchamp sopratutto!”

 Da Londra a Giacarta. Come mai questa decisione così estrema?

“Perché ci tenevo a frequentare proprio la Saint Martin. Avevo letto che si trattava di una scuola molto radicale, ed è proprio quello che ho trovato andando lì. Eh si, era radicale sul serio!
A Londra continuai con l’attivismo, ad interessarmi delle problematiche del mio paese, e continuo tutt’ora. Credo fermamente in un’arte impegnata nel sociale, sono una delle poche donne artiste e ci tengo ad esprimere il mio peculiare punto di vista.”

 Ti consideri una femminista?

 “La maggior parte delle mie sculture rappresentano delle donne, perché credo che ci sia ancora bisogno di sostenere la loro causa. Spero di vedere la fine di questa lotta, prima o poi.

Per esempio, questa scultura…
(mi indica sul catalogo una scultura dorata di una donna)
… sai che in Indonesia usiamo ancora le lanterne…. questa forma rappresenta il petrolio, la donna scaturisce da essa… lei è luce. Le donne sono la luce.”

Di che materiale è fatta?

 “Quest’opera è l’ultima creatura nata dalle mie sperimentazioni con le buste di plastica. Realizzo la base con l’argilla, la copro con le buste di plastica e comincio a modellarle, pizzicarle. Uso la resina per fare uno stampo.”

Mi ricorda una statua che si trova a Napoli, nella Cappella di San Severo, chiamata Il Cristo Velato. E’ un’antica statua con un delicato velo poggiato sopra, interamente realizzata in marmo…

“Devo confessarti che ho i piedi un due scarpe. Una è il mio gruppo etnico giavanese Batak, l’altra è il mondo classico e rinascimentale.”

So del tuo legame con l’Italia. Ho visto la tua scultura fatta di barre di ferro nella Sol Gallery di Piero Giadrossi, nel parco di statue nel Chianti, in Toscana.

 “Sì, un’opera molto dolorosa, non c’è che dire…”

Mi piace come hai interpretato il corpo umano. Intendo, lavorando esclusivamente sul corpo umano è difficile trovare di volta in volta nuove soluzioni, ma tu non fallisci mai. A cosa si riferiva quella statua?

 “Le barre di acciaio sono simboli di sviluppo. I palazzi sono costruiti a partire da queste barre. Lo sviluppo però a volte trascura l’anima dell’essere umano. Questa è la ragione per cui la figura sembra imprigionata nelle barre di ferro, io la vedo come una vittima della modernità. In molti paesi in via di sviluppo la cosiddetta modernizzazione si confonde con motivazioni meramente politiche. Io ho intenzione di esprimere il cambiamento sociale attraverso i simboli.”

Ho notato che i tuoi soggetti derivano spesso dalla tradizione cristiana, o hanno si rifanno ad un certo tipo di visione…

 “Sì, provengo da una famiglia cristiana.”

Pensi di avere giovani artisti che seguono il tuo lavoro?

 “Penso di sì. Qualcuno in Indonesia parla di Doloismo”

 Carino, “Doloismo”… Credi che le nuove generazioni di artisti abbiano un legame con quello più vecchie?

 “Sì, secondo me sì. Adesso non è più come una volta, quando gli artisti non potevano avere una preparazione artistica formale. Adesso invece è possibile. Non è che i giovani diventino necessariamente adepti degli artisti più anziani, ma sicuramente li vedo interessati ad imparare.
Ovviamente non bisogna dimenticare che abbiamo a che fare con una generazione da cultura istantanea, come gli instant noodles, le zuppe di pomodoro preiscatolate e così via…”

Nel tuo percorso artistico hai avuto persone che ti hanno fatto da maestri?

“Non ho avuto veri e propri maestri. Sono stata influenzata di più dallo spirito dei maestri della storia dell’arte, dal loro idealismo. Il loro lavoro non mi ha ispirato necessariamente a livello puramente estetico.
Mi piacciono gli artisti che rendono la gente consapevole, che alimentano la coscienza sociale, che si pongono domande. Mi piacciono gli artisti che rendono le persone più ingegnose, produttive e volenterose. Se tu vuoi essere un creativo devi avere una mente libera. La libertà è la base di tutto.”

Naima Morelli è l’autrice di Arte Contemporanea in Indonesia, un’introduzione, un libro che racconta lo sviluppo dell’arte in Indonesia rispetto al proprio contesto culturale, sociale e politico. Il libro è acquistabile online.
Ulteriori informazioni sul sito personale dell’autrice (link: http://www.naimamorelli.com/arteindonesia/)

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Naima Morelli è una critica e giornalista specializzata in arte contemporanea nel Sudest Asiatico e Medioriente, ed è un'autrice di graphic novel. Scrive regolarmente per Middle East Monitor, Middle East Eye, CoBo, ArtsHub, Art Monthly Australia e altri. Collabora con gallerie asiatiche come Richard Koh Fine Arts, Lawangwangi Creative Space, Tang Contemporary con testi critici e come liason tra Italia e Sudest Asiatico. E’ autrice di due libri-reportage intitolati “Arte Contemporanea in Indonesia, un’introduzione” e “The Singapore Series”. Sotto lo pseudonimo “Red Naima” ha pubblicato le graphic novel “Vince Chi Dimentica”, incentrato sulle tensioni artistiche di inizio ‘900, e “Fronn ‘e Limon”, realismo magico all’italiana.

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