Joel-Peter Witkin. Il lirismo della carne: Al PAN di Napoli

Il mondo di Joel-Peter Witkin è come quello spazio interstiziale sporco e dimenticato nascosto tra normali pareti domestiche. Tutto inizia da una bella e linda carta da parati leggermente scollata; poi si scopre una fessura, lo spiraglio diventa sempre più grande ed ecco ‘l’altra stanza’ col suo odore marcende che ti penetra nelle narici, con i suoi perversi segreti e le sue terrorizzanti storie inascoltate. L’irruzione del diverso.

“La fotografia è una mannaia che coglie nell’eternità l’istante che l’ha abbagliata.”
(Henri Cartier-Bresson, Il momento decisivo, 1952)

Un effluvio di morte, di carne e di fiori avvizziti. Una lama affilata che taglia e rincolla i pezzi ricreando nuove narrazioni secondo lo stato d’animo del sogno.

Sessualità e violenza si uniscono.

Carrucole, corde, cinghie, pungoli, fruste, lattice, bende, maschere per attività parafiliache mostrate nel loro compiersi da persone che provano normalmente piacere infilandosi aghi nello scroto e ganci nei capezzoli.

Non sono futuri tormenti infernali ma supplizi quotidiani.

Gli inquietanti abitatori di queste stanze nascoste sono gli esemplari di una nuova bellezza. I protagonisti di un perverso burlesque portato all’estremo.

Nelle mani dell’artista il deforme diventa armonico e il nostro sguardo bulimico, tra attrazione e repulsione, non può far altro che nutrirsi avidamente di tali immagini per poi rigettarle chiedendo a noi stessi l’origine di questa morbosa seduzione visiva.

La forma mentis di Joel Peter Witkin inizia con un macabro episodio legato all’ infanzia. Da bambino fu testimone di un tragico incidente d’auto avvenuto davanti alla sua abitazione in cui rimase decapitata una bambina. Quella testa recisa ritornerà spesso nel suo immaginario visivo.

Vede le fotografie della Grande Depressione, quelle dei campi di concentramento pubblicate su Life, quelle di Eugene Smith al ritorno dal Giappone post-atomico. All’inzio della sua carriera accetta di partire per il Vietnam come fotografo di guerra trovandosi a documentare i suicidi e le morti accidentali in servizio.

E’ il dramma, il sangue, la ferocia del Novecento che s’imprimono nei suoi occhi per riversarsi in creazione artistica.

La sua ricerca si concentra sul tema della morte, sull’anomalia fisica per poi arrivare alle rivisitazioni irriverenti di famose opere di Goya, Velazquez, Picasso, Max Ernst, Bosch, Caravaggio, Botticelli, Salvador Dalì, Beato Angelico, Rembrandt, ribaltandone l’intera iconologia con l’aggiunta di riferimenti all’attualità sociale e politica.

Molto tempo è impiegato per l’elaborazione dell’idea, la composizione spaziale e lo studio dei riferimenti simbolici. I suoi set durano mesi, iniziano da disegni preparatori per poi passare alla costruzione tridimensionale fino allo scatto vero e proprio.

Sono creazioni scenografiche studiate nei minimi dettagli, tableaux vivants con richiami mitologici, teatrini della crudeltà sadomaso. I suoi modelli, fuori dalla norma, vengono ingaggiati in incontri fortuiti o tramite inserzioni.

Carne ferita e torturata. Tutto passa attraverso la sofferenza. Un continuo martirio del corpo per trovare uno stato d’estasi seguendo proprie leggi.

Il lavoro procede in camera oscura dove Witkin da fotografo diventa un pittore informale. Interviene manualmente con graffi, colore, lacerazioni, bruciature, candeggina, prodotti chimici, collage, distorsioni tra il supporto e l’ingranditore.

La mostra Il maestro dei suoi maestri, promossa da Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia e dalla Galleria Baudoin Lebon di Parigi, presenta 55 opere del fotografo statunitense (Brooklin, 13 settembre 1939) la cui la visione è sconsigliata alle persone particolarmente sensibili e ai minori.

Dal 28 giugno al 20 ottobre 2013 negli spazi del PAN di Napoli saranno esibite le sue celebri Still lifes con membra umane, corpi mutilati magnificati come statue classiche, ermafroditi come veneri in Gods of Earth and Heaven (1988), obesi, nani, gigantesse.

In questo inno all’Elephant Man c’è ironia ma anche una continua insistenza sulla caducità e la fragilità del corpo umano.

Immancabile Woman once a Bird del 1990, richiamo all’opera Le violon d’Ingres (1924) di Man Ray a sua volta caustica citazione dell’opera La bagnante di Valpinçon (1808) di Ingres. Tre concezioni molto diverse dell’arte nell’evolversi dei tempi. La versione di Witkin è quella di un corpo femminile seduto di spalle stretto in vita da un inconcepibile bustino di metallo. Una punizione. Sulla schiena due profonde lacerazioni come traccia rimasta di ali strappate via.

Ogni artista è alla ricerca di quelle ali perdute per riuscire a riconsegnarle all’uomo.

Un’ossessione per la morte e il decadimento che la nostra società rifiuta propinandoci elisir di lunga vita, corpi perfetti, interventi chirurgici che rimpolpano carni flaccide. Invece Witkin vuole rapportare lo spettatore con quell’aspetto più terrifico e sacrilego in cui riecheggia assordante l’ammonimento del memento mori.

Utilizza cadaveri non reclamati presi negli obitori messicani, li scompone e ricompone nel suo studio in sfarzose nature morte. Nobilitazione o nefandezza?

Teste decollate poggiate su piatti, braccia e gambe amputate assemblate con fiori e oggetti secondo precise composizioni. Feti, organi sessuali, ossa, corpi ricuciti.

Una variazione, anzi meglio, una sovversione delle fotografie post mortem che si diffusero in epoca vittoriana per avere un ricordo del defunto in cui l’usanza più inquietante era posizionare il cadavere come se fosse ancora vivo, con gli occhi aperti e simulando qualche attività quotidiana.

Così si prova ad ingannare la morte strappando, anche all’ormai defunto, quell’ultima immagine di vita eternamente sospesa.

La morte è un prevedibile finale o l’inizio di un irrazionale che non possiamo dominare?

Lo squarcio adesso è abbastanza largo. La stanza segreta svela la sua poesia oscura. Non ci resta che entrare per calarsi nei suoi meravigliosi orrori.

Il cursore diretto sulle immagini visualizzerà le didascalie; cliccare sulle stesse per ingrandire.

Info mostra

  • Joel-Peter Witkin. Il Maestro dei suoi Maestri
  • Dal 28 giugno al 20 ottobre 2013
  • PAN | Palazzo delle Arti di Napoli, via dei Mille 60, Napoli
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“L’arte è l’anima del mondo, evita che il mio inconscio s’ingravidi di deformi bestie nere.” Laureata in Scenografia e in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Roma ha lavorato in ambito teatrale collaborando con esponenti della scena sperimentale romana come Giuliano Vasilicò e l’Accademia degli Artefatti e, come fotografa di scena, per teatri off. Negli ultimi anni, accanto alla critica d’arte affianca la critica cinematografica. Ha scritto per Sentieri Selvaggi, CineCritica e attualmente per Schermaglie oltre che per art a part of cult(ure). Nel 2012 ha curato la rassegna cinematografica “FINIMONDI: Cataclismi emotivi,cosmici ed estetici nel cinema” presso la libreria Altroquando di Roma.

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