La mostra che non abbiamo visto #36. Botto e Bruno

Gianfranco Botto e Roberta Bruno in un ritratto fotografico di Manuela Giusto
Gianfranco Botto e Roberta Bruno
in un ritratto fotografico di Manuela Giusto

Quando ci è stato proposto di scrivere un testo su una mostra che avremmo voluto vedere ma che abbiamo perso ci è venuto subito in mente quando, finita l’accademia, utilizzavamo tutte le nostre risorse economiche (alquanto scarse) per andare a vedere le mostre in giro per l’Italia e la Francia presi da un desiderio incontrollato e vorace di vedere tutto quello che ci interessava. La necessità di ricevere stimoli da ciò che vedevamo era per noi fondamentale, crearci un bagaglio anche visivo ci sembrava assolutamente meraviglioso.

In parte è ancora così, sono cambiate le tempistiche e le modalità, abbiamo meno tempo e non possiamo essere sempre in giro a vedere ciò che ci interessa. Siamo diventati più riflessivi e selezioniamo ancora con più rigore.  Ma quell’emozione, lo stupore che avevamo ogni qual volta ci trovavamo di fronte ad un’opera che ci piaceva, ecco quello lo abbiamo mantenuto e conservato in questi anni di lavoro. Un approccio forse un po’ fanciullesco ma proprio per questo da preservare.

Troppe sono le mostre che abbiamo perso e che avremmo voluto vedere. Impossibile riuscire a seguire tutto, dovremmo essere sempre in giro per il mondo.

Ma c’è una mostra che avremmo voluto vedere  e che non abbiamo visto non per pigrizia ma semplicemente per una questione anagrafica, eravamo davvero piccoli e cioè When attitudes become form alla Kunsthalle di Berna curata da Harald Szeemann.

Non stiamo qui a soffermarci sull’importanza di quella mostra e sul cambiamento della figura del curatore che Szeemann ha saputo offrire al pubblico.

Quando è stata inaugurata, eravamo tutti e due intenti a fare i primi passi verso il mondo, iniziavamo a fare i primi scarabocchi ed eravamo assolutamente ignari che in quella mostra ci sarebbero state delle persone che poi, nel corso della vita, avremmo incontrato nel nostro percorso scolastico e lavorativo.

Al liceo artistico ed all’Accademia abbiamo avuto diversi insegnanti appartenenti all’Arte povera.

Sono stati anni di studio molto intensi per la vicinanza di quegli artisti che cercavano di offrirci degli sguardi molteplici sulla realtà.

Ma sicuramente l’incontro con Harald Szeemann è stato quello più intenso, non solo da un punto di vista professionale (per l’invito alla Biennale), ma soprattutto per aver avuto la possibilità di trascorrere un po’ di tempo con un geniale pensatore anarchico, un uomo che affascinava con le sue parole ma anche con la semplicità dei sui gesti.

Ci sarebbe piaciuto incontrarlo all’inaugurazione della sua mostra nel 1969, lui più giovane, sempre con la sua barba, sicuramente meno bianca, con un atteggiamento sempre aperto e mai supponente.

Ci sarebbe piaciuto fargli delle domande sulla sua mostra e sentire le sue gentili risposte.

Ci avrebbe fatto piacere far parte di quell’evento per capire il clima artistico di quegli anni, vedere gli sguardi degli artisti non ancora del tutto consapevoli del successo che avrebbero incontrato.

Sarebbe stato bello vedere l’allestimento innovativo ma soprattutto respirare quell’atmosfera che si percepisce guardando le foto di quegli anni.

Quello per lui deve essere stato un momento importante perché quando ci siamo visti  ne ha parlato come una tappa fondamentale del suo percorso.

In questi anni di lavoro abbiamo imparato a non farci venire i sensi di colpa se non riusciamo a vedere tutto quello che ci interessa; compriamo magari il catalogo e cerchiamo di fare un altro percorso di conoscenza.

In un periodo di iperinformazione paradossalmente diventa più difficile seguire le attività espositive.

Forse con un po’ più di silenzio, di calma, rallentando un po’ si potrebbe recuperare la necessità di vedere fisicamente le cose. E’ diventato troppo facile accedere agli eventi anche in modo virtuale, ma tutto rimane a livello superficiale. E’ importante portare il proprio corpo dentro gli spazi e sentire i muri, gli odori, la fatica dello scoprire le cose. I sensi devono essere riportati allo stato naturale, essere messi in azione; è necessario riscoprire la bellezza del rielaborare senza fretta quello che si è visto, senza essere aggrediti da nuovi eventi, nuove informazioni, nuove immagini ed essere costretti a dimenticare le emozioni  che si sono appena vissute.

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Nato mezzo secolo fa a Roma e morto nel futuro, non attraversa di buongrado la strada senza motivo. Impiegato prima in un forno in cui faceva arte bianca poi del terziario avanzato, da mancino dedica alle arti maggiori la sola mano sinistra. Allestisce, installa, fa deperire, dimostra, si confonde, è uno scadente imbonitore, intelligentissimo ma con l’anima piuttosto ingenua. Ha fondato in acqua gli artisti§innocenti, gruppo di artisti e gente comune, che improvvisa inutilmente operette morali. Tra suoi progetti: la Partita Bianca (incontro di calcio uguale), una partita notturna tra due squadre vestite di bianco, a cura di ViaIndustriae, Stadio di Foligno 2010 e, in versione indoor, Reload, Roma 2011 e Carnibali (per farla finita con i tagliatori di carne), Galleria Gallerati, Roma 2012.
Ha contribuito alla performance collettiva TAXXI (Movimento di corpi e mezzi al riparo dalle piogge acide contemporanee) prodotto dal Dipartimento Educazione del Maxxi nel 2012. Sua la cura del Premio città etica (per l’anno duemilae...) e del Premio Retina per le arti visive.

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