La mostra che non ho visto #71. Serafino Amato

Serafino Amato in un ritratto fotografico di Beatrice Talamo
Serafino Amato
in un ritratto fotografico di Beatrice Talamo

“… Robusti Tintoretto Domum Vetustam…”

A Venezia ero arrivato di mattina presto, da tanto non ci andavo. Uscire dalla stazione e guardare il canale, un’emozione, per la mia prima visita a una Biennale. Mi ero preso tre giorni dopo mesi di assistenza a un padre malato, un lavoro impegnativo e mal pagato, e due figli piccoli per i quali mi sentivo indispensabile.  Con i biglietti per la Biennale, pochi soldi e un paio di numeri di amici da chiamare per avere ospitalità, dalle parti dell’Arsenale, ero entrato in una chiesa. All’ingresso, sopra la porta, stava una gigantesca “Ultima Cena”. Non sembrava particolarmente bella ma mi aveva colpito che di fronte ci fosse un vecchio tavolo di legno scuro con del cibo sopra. Quel tavolo, quel cibo per i poveri, di fronte a quello degli apostoli, prendeva nella penombra un colore ed evocava un ricordo: la pagnotta infilzata di spilli alla prima mostra di arte contemporanea che avevo visitato, ancora ragazzo, nei garage di Villa Borghese. Il pane già mezzo secco pieno di spilli mi aveva fatto sorridere di ribrezzo, quello nella chiesa no, pareva piuttosto un’installazione al bisogno vero. Seduto sulla panchina, davanti ai leoni dell’Arsenale, ero pronto al mio panino farcito di Asiago e San Daniele, ma a bocca aperta, prima di addentare, mi ero accorto che il mio portafoglio non era dove doveva essere. Riavvolto il panino, messo lo zaino per metà sulla spalla, acchiappata la macchina fotografica, ero corso, sbilenco, fino al negozio appena chiuso. Lo ricordavo il portafoglio nero poggiato sulle Fiesta snack, mentre cercavo spicci in tasca. Chiuso: dall’una e trenta alle sedici, e incominciava a piovere. Ero tornato nella chiesa ad aspettare l’apertura, un’attesa difficile pensando ai miei tesori: biglietti, anche quelli del vaporetto, e le poche e indispensabili lire, oltre alla tessera telefonica da diecimila. Era il tempo dei no-cellulari, no-carte di credito per tutti. Mangiare in una chiesa mi sembrava mancare di rispetto, ma farlo di fronte ad un’ultima cena nemmeno troppo blasfemo. A Venezia a pranzo non si prega, e se piove, in quella zona non passano turisti. In due ore e mezzo sempre pioggia, vedevo l’acqua scivolare sulle vetrate colorate, disteso sulla panca di fronte al quadro, cercando nella penombra, non tanto di riconoscere gli apostoli ma di comprendere le espressioni di Giuda e di Gesù. Avevo anche dormito, recuperato un po’ la brutta notte passata in cuccetta. Uscito dalla chiesa, l’alimentari era già aperto. “No, mi dispiace, non ho trovato niente, ma è sicuro?” – “L’ho lasciato sulle Fiesta!” – “Non abbiamo trovato niente, glielo assicuro!”. Pioveva troppo, ero di nuovo in chiesa. La giornata era andata, il portafoglio e i documenti anche, ma ora il cibo poggiato aveva preso un colore fra il giallo e il rosa, il riflesso della vetrata colorata illuminava quelle povere cose. Buio tutt’intorno, anche il quadro ormai in penombra. Le quattro scatole che restituivano luce riflessa, interrogavano… quel cibo non era lì per chi lo voleva, ma a chi era indispensabile. Chi avrebbe rotto quella scultura di pasta Antonio Amato, lo stesso nome di mio padre, zucchero Eridania, biscotti Oro Saiwa, sapore con il quale ero cresciuto, e i due pelati Arlecchino da mezzo chilo? Non pioveva più, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quel tavolo nel silenzio della chiesa vuota. Me ne ero andato solo quando oramai i riflessi non centravano più le scatole ed erano finiti a illuminare il pavimento. Fine della mia Biennale, pensavo, ma senza troppo dispiacere, anche se, per “dignità verso se stessi” non sarei tornato a casa subito. Mio nonno ripeteva sempre questa frase, uno che fino al giorno prima di morire non si era dimenticato di radersi. Avrei dormito sulle panchine, pensavo. Camminando passo passo ero arrivato all’Accademia, San Trovaso mi sembrava un buon posto per passare la notte. Mi ero infilato per i vicoli, c’erano quattro saracinesche di fila, una dietro l’altra, tutte deformate verso l’interno, quando vedo un uomo grandissimo con un elegante cappotto blu che mi viene incontro scivolando, poggiato sulla spalla contro la saracinesca, completamente ubriaco. Elegante, ma con la spalla destra del cappotto lacerata, non doveva essere la prima volta che faceva quel percorso, perché le stesse saracinesche portavano un colore blu e forse era stato proprio lui nel tempo a deformarle. Provava a camminare eretto, ma poi ricadeva pesantemente sul metallo, tentava poi di ripartire, e boccheggiava a cercare aria. Mi aveva fermato, “ciancicando” le parole mi chiedeva di portarlo al motoscafo, ed effettivamente un motoscafo era lì ad aspettarlo accanto all’albergo Accademia: voleva lo accompagnassi fino a casa, mi fece il gesto di salire. A Venezia, nel buio, sui canali, ogni angolo sembra uguale a quello precedente, solo il rumore cambia. Lo avevo sostenuto e spinto su per le scale della casa, portato fino alla stanza da letto, aiutato a stendersi, tolto il cappotto e le scarpe, fatto rotolare verso il centro del suo enorme letto… e già russava. Avevo trovato un bel divano bianco nel salone, e pure io, poco dopo, mi ero addormentato, guardando le travi sul soffitto. La notte era sembrata breve, la luce già forte entrava nella casa, avevo preso le mie cose, era solo l’alba di una mattina luminosa, un bar dall’altra parte del canale apriva in quel momento. Chiuso il portone, alzato lo sguardo al lato in alto sulla destra della casa, che la sera prima mi era sembrata meno grande e meno bella, su una targa in marmo era scritto: Ne Praeterias Viator Jac. Robusti Tintoretto Domum Vetustam… Una fotografia e alla stazione di corsa per il treno delle sette: anche se senza dignità tornavo dai miei figli.

+ ARTICOLI

Nato mezzo secolo fa a Roma e morto nel futuro, non attraversa di buongrado la strada senza motivo. Impiegato prima in un forno in cui faceva arte bianca poi del terziario avanzato, da mancino dedica alle arti maggiori la sola mano sinistra. Allestisce, installa, fa deperire, dimostra, si confonde, è uno scadente imbonitore, intelligentissimo ma con l’anima piuttosto ingenua. Ha fondato in acqua gli artisti§innocenti, gruppo di artisti e gente comune, che improvvisa inutilmente operette morali. Tra suoi progetti: la Partita Bianca (incontro di calcio uguale), una partita notturna tra due squadre vestite di bianco, a cura di ViaIndustriae, Stadio di Foligno 2010 e, in versione indoor, Reload, Roma 2011 e Carnibali (per farla finita con i tagliatori di carne), Galleria Gallerati, Roma 2012.
Ha contribuito alla performance collettiva TAXXI (Movimento di corpi e mezzi al riparo dalle piogge acide contemporanee) prodotto dal Dipartimento Educazione del Maxxi nel 2012. Sua la cura del Premio città etica (per l’anno duemilae...) e del Premio Retina per le arti visive.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.