Aspettando Alice. Ma Alice non verrà

Teatromania, Emersioni sceniche - Aspettando Alice

Nell’ambito della manifestazione Teatromania, Emersioni sceniche che si è tenuta dal 27-29 giugno presso l’Accademia di Romania  (Villa Borghese, di fronte alla Galleria Nazionale di Arte Moderna: uno scenario ricco ed allusivo), ho partecipato allo spettacolo “Aspettando Alice”  -di e con Oana Mardare; regia di Doru Talos-, prodotto da una compagnia indipendente, Compagnia Atelier 45 (Clui-Barcelona).

Ho “partecipato”: ma in che senso?
A questo spettacolo, un monologo dallo sviluppo potentemente drammatico, gli spettatori sono i compagni della protagonista, figure -come lei- nell’ombra e che la sua voce richiama, di volta in volta a nuova, momentanea vita.
L’ambientazione si presta, naturalmente, ad uno svolgimento circolare, a imbuto, a “risucchio”;  la scena consiste nel semplice pavimento di un cortile circolare che ha uno sviluppo però verso l’alto, un ballatoio, una balconata a emicerchio le cui colonne terminano in un tetto fatto di rampicanti le cui punte si perdono nel cielo. In un giro di pochi metri, un piccolo spazio si fa quindi simbolo della vita: la terra, su cui la protagonista cade ripetutamente, e il cielo, a cui tende vanamente le mani.

Seduta in alto, dalla balconata, assisto al progressivo smarrimento di Vivian, una bambola (lo si capisce appena dopo un po’, quel tanto che basta a generare quella che i tedeschi chiamano Spannung, la tensione) che aspetta che la sua Alice -la sua padrona, la sua liberatrice e anche la sua aguzzina- la venga a riprendere e la riporti in vita, con sé. Il meccanismo circolare a cui ho accennato è tale per cui di  Vivian, in un monologo in cui a parlare è l’intero corpo, veniamo a sapere la storia, la felicità, le attese, le speranze disilluse. Vivian emerge e rientra, scandendo così il tempo, da uno scatolone, segno dell’angusto spazio della cantina-passato in cui si ritrova e che condivide con altri scarti, che lei rianima con le sue affettuose invocazioni, ma che non parlano, mai. Solo Vivian parla, ci parla: siamo noi i suoi compagni di sventura, e nessuno può dirle che la sua attesa è vana, che Alice non verrà mai a riprenderla (in fondo chi siamo, noi, per stabilire se davvero Alice verrà o meno?).

Il tempo passa, ma si avvolge su se stesso e precipita, non tanto riducendosi quantitativamente, ma comprimendosi. Ogni mattina Vivian esce dallo scatolone e preannuncia, piena di gioia e speranza, che “questo” sarà il gran giorno, quello in cui finalmente potrà riconquistare la sua libertà; e ogni mattina, però, Vivian perde un pezzo: le scarpette si bucano, le ciglia posticce cadono, le ciocche di capelli rimangono intrappolate nella spazzola. Ogni giorno la piccola bambina perde un pezzo di speranza, un pezzo di sé. I rituali del tè, della conversazione con i compagni perdono via via il loro nesso con la – pur fittizia, ma non per la protagonista- realtà circostante; la memoria ripercorre un viaggio inverso: dal passato epico della liberazione (l’essere stata acquistata, la trionfale marcia fuori dal negozio, l’approdo nella principesca casa della sua padrona/liberatrice), alla sottomissione ai capricci di una bambina che cresce e piano piano la dimentica. La bambola è affamata, disperatamente, di amore, e Alice, con tutta la crudeltà dei bambini la maltratta, la butta, la lancia al cane, ma Vivian interpreta questi comportamenti come “giochi” e sebbene sbattuta qua e là (e l’attrice racconta col corpo tutto questo), lei è la sola ad amare veramente la padrona, lei è la sola che la potrà difendere. Vivian non vuole vedere altro che questo. E quando ci racconta di questo passato, lo stridio che provoca l’urto tra la dolcezza del suo animo e la ferocia degli eventi, noi soffriamo con lei, per lei, per le nostre illusioni, per tutte le volte che a tutti i costi abbiamo voluto leggere la realtà secondo le nostre aspettative.

Il crollo si preannuncia nel momento in cui la memoria del passato si incontra con la durezza del presente, e il velo dell’illusione si squarcia, così come si squarciano i vestiti, così come il corpo stesso di Vivian diventa preda di  singulti e sussulti che la sbatacchiano come un burattino.
Come una menade impazzita, Vivian capisce. Il suo corpo capisce. Un ultimo frenetico giro, un ultimo dissennato e insensato balbettio, e poi, il silenzio.

In poco più di un’ora, accompagnati da un’attrice-danzatrice straordinariamente espressiva (tanto da far dimenticare completamente l’ostacolo linguistico) e da un contrappunto musicale scarno e proprio perciò capace di esistere come voce pienamente alla pari, ho partecipato allo svolgersi di un dramma che è sociale ed esistenziale al tempo stesso: esistenziale, nella misura in cui esso smaschera le illusioni di cui ci pasciamo, fatte spesso di frasi fatte che pronunciamo senza nemmeno più ascoltarci (“ma venga a prendere il tè!“; “oh, ma non va forse tutto bene?” A mo’ di simbolo) e di comportamenti che denunciano la schiavitù invece che affermare la libertà; sociale perché la società dei consumi, che getta tutto ciò che passa di moda o si usura, annichilisce il bagaglio di ricordi, di storia, di memoria…insomma, uccide se stessa.

Una parola sul nome: Alice. Non può ovviamente sfuggire il richiamo al paese delle meraviglie, ma qui, il paese delle meraviglie si è tramutato, come in una grottesca erma bifronte, in una cantina buia sovrastata da un sogno che non si realizza.

Doloroso, certo. Ma potente e cattura a sé lo spettatore.

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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