Più Libri Più Liberi #21. Generare fa rima con amare

Devo alle parole di Michela Murgia la soluzione (nel senso latino: solvo, is, solvi, solutum, solvere: sciogliere, dipanare, distendere, schiarire, risolvere) di un mio personale groviglio emotivo: il mio resoconto di oggi sarà personale, perché il tema mi riguarda tanto da vicino –tanto da essere “me”-, e pubblico, perché la mia storia, il mio dolore sono la storia e il dolore di tanti esseri umani che si sono visti privare – da una mentalità di tipo familistico – del diritto alla genitorialità, alla generatività: che, con il “fare figli” ha veramente poco a che vedere.

Nella conclusione di quella meraviglia che è il Simposio, Platone cede la parola a Diotima, una straniera di Mantinea, una donna, sapiente su Eros e su molto altro: “Pensi forse che sarebbe di poco valore la vita di un essere umano che mirasse a ciò, contemplando quel bello coll’occhio col quale va contemplato, e vivendoci in comunione? Non consideri – disse – che unicamente così, contemplando il bello attraverso ciò che lo rende visibile, gli avverrà di generare non immagini (eidola) di virtù, perché non afferra un’apparenza, ma virtù vera, in quanto afferra il vero? E che, avendo procreato e allevato virtù vera, gli sarà possibile diventare caro agli dei, e anch’egli immortale, se mai altro uomo? (212a)”. In qualche modo le parole di Michela Murgia hanno trovato collocazione accanto a queste, che, a dispetto di chi sostiene che la filosofia sia inutile alla società, chiariscono il senso profondo delle parole afferenti al campo semantico γεν/γον/γν (da cui gigno, gens, genero).

Madri sì, madri no, madri comunque. Ne parlano a Più Libri Più Liberi 2016 Lidia Ravera, Michela Murgia, Nichi Vendola.

Introduce e modera la conversazione Lidia Ravera, che pone immediatamente la questione cruciale: visto che l’introduzione della pillola contraccettiva ha permesso la separazione tra sesso e procreazione, che senso ha, oggi, parlare di “donne mancate” quando si tratta di donne che, per motivi tra i più svariati – compresa la libera scelta -, risultano essere “child free”? Al di là delle considerazioni – da farsi, ma non oggi – su quanto la precarietà come condizione esistenziale incida su di un atto irreversibile come diventare genitore, il punto è la generatività intesa nel senso platonico.

E qui le parole di Michela Murgia cominciano a parlare di me: lei non lo sa, io lo vado scoprendo man mano. Da piccola, racconta, ha avuto, oltre alla sua mamma, una madre d’anima, una seconda mamma, frutto di un accordo e di una scelta libera e non condizionata da bisogni o disagi. Questa esperienza (non così rara, ai tempi della sua infanzia), dimostra che generatività e genitorialità sono sguardi sull’altro, raggiungibili anche senza figli; prova ne è questa “affiliazione d’anima”, una genitorialità allargata in cui una madre diventa una madre d’anima: una condizione aperta che richiede non solo l’assenso della madre biologica, ma del figlio, a cui si chiede di nascere e di poter scegliere un secondo sguardo materno. È un’elezione affettiva libera da ogni bisogno e che anziché dividere i figli tra due madri, li moltiplica e al contempo affranca la madre biologica da quel perverso meccanismo – legato al concetto e all’esercizio dell’autorità genitoriale sulla base  cogente del sangue: che è poi la stessa base delle famiglie mafiose – dell’esclusività: “di mamma ce n’è una sola”, per intenderci.
La madre accetta di non essere l’unica, e questo sguardo moltiplicato su e con il figlio dona a questo la possibilità di vedersi e conoscersi come non avrebbe potuto.
Nella famiglia d’anima il “mio” scompare, perché ci si educa a modi diversi di figliolanza. L’aver conosciuto questo tipo di relazione ha permesso a questa straordinaria donna di sperimentarla a sua volta, senza sentire il bisogno di fare figli. Aver avuto una madre d’anima ci permette di esserlo a nostra volta, senza il vincolo che fa di una donna una madre solo se genera un figlio “suo”.

 

Io, che figli non ne ho potuti avere, pur avendo da lungo superato il fatto e imparato a conoscere e praticare un amore genitoriale, mi sono sentita a tutti gli effetti una “madre d’anima”: senza più bisogno di giustificare l’assenza di figli sulla base di un inesistente “istinto materno naturale”. La maternità è uno stato dello spirito, e non dell’utero. Una donna non deve più subire la violenza insita nella minaccia “te ne pentirai” (di non aver voluto fare figli, come la migliore tradizione catto-paternalistica comanda), non deve più essere insultata come “zitella” (con buona pace, invece degli “scapoli d’oro”).

Sul tema dei figli, Nichi Vendola racconta la sua storia: contro il familismo esclusivo, la sua sfida è stata ed è  quella di restituire alla genitorialità una consapevolezza fondamentale, e cioè che c’è distanza tra genitore e figlio,  e questa distanza non va colmata né con la mistica della maternità né tantomeno cercando di colonizzare la vita del bambino. Incalzato dalle domande di Lidia Ravera a proposito delle sperequazioni ancora evidentissime tra genitori padri e genitori madri (a un uomo mai si chiederà, tanto per dirne una, di scegliere tra paternità e carriera) e del significato politico della sua scelta di essere un genitore, lui risponde che essere genitori non è il senso della vita, ma ha a che fare con l’amore e la cultura: se la legislazione italiana non vietasse ai single l’adozione, avrebbe da tempo avuto una famiglia. È ora di lasciar andare questa “normatività presuntamente universale” e accettare che la vita sia multiforme.

Resta aperta la questione della maternità surrogata (GPA): a parte la considerazione che essa sia stata sollevata con tanta veemenza quando a ricorrervi è stato un uomo, resta il fatto, conclude Michela Murgia, che essa solleva un punto estremamente cruciale e delicato, quello del culto del sangue nella generazione del figlio. È davvero ancora così importante, o possiamo lasciarci alle spalle questo culto del possesso genetico?

Sono tornata a casa con la consapevolezza che ciò che mi faceva soffrire era il non capire –rispetto al tema-, chi fossi: ho chiamato mia sorella, che ha tre figli meravigliosi  e che io amo con tutto il cuore, e le ho parlato della madre d’anima. “Oh, ma che bella idea, ma che bello”.

 

 

 

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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