Letterature Festival. Il Mistero svelato.

Letterature Festival - Ph. Giulietta Stirati

mistero Dal lat. mysterium, gr. μυστήριον, der. di μύστης (forse der. di μύω «chiudersi, esser chiuso»).

«E’ falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato. – Scusi il gioco di parole. IO è un altro. Tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino, e Sprezzo agli incoscienti, che cavillano su ciò che ignorano completamente!» (Arthur Rimbaud, dalla lettera a Georges Izambard).

«Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua. Per me è evidente: assisto allo schiudersi del mio pensiero: lo osservo, lo ascolto: lancio una nota sull’archetto: la sinfonia fa il suo sommovimento in profondità, oppure d’un balzo è sulla scena.
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato, del “me stesso”, soltanto il significato falso, non avremmo da spazzar via i milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accumulato i prodotti della loro orba intelligenza, e se ne proclamano gli autori!» (Arthur Rimbaud, dalla lettera a Paul Demeny).

Questo, ciò che ha cominciato a muoversi nella mia testa, a conclusione di una serata che di chiuso/aperto ha avuto molto, a cominciare dal cielo. Siamo nell’ultima settimana del XIV Festival delle Letterature, sulla Piazza del Campidoglio:  tema della serata: Misteri. Ospiti, in qualità di scrittori e attori della propria scrittura, Donato Carrisi (che legge un proprio inedito, Senza fine); Matthew Thomas che, oltre a leggerci (in lingua originale: e com’è coinvolgente ascoltare uno scrittore che legge nella propria lingua) un suo inedito, Il vero Jonas Beach, viene presentato da Lucrezia Lante della Rovere che ne legge un breve ma intensissimo racconto, Non siamo più noi stessi; Antonio Manzini, che ci legge un racconto che si apre col riso e si chiude sul pianto senza voce. Ad accompagnare le letture un pianoforte (Alessandro Gwis), un sax (Pasquale Laino) e un contrabbasso (Andrea Avena).

Perché misteri?  Immaginando la serata, arrivando, mi figuravo, chissà perché, un’atmosfera tra il noir e il giallo, il cui mistero fosse l’assassino da scoprire o il nodo da sciogliere. Ma non appena Donato Carrisi ha cominciato a leggere il suo racconto, ho capito quanto limitate fossero state le mie aspettative. Il titolo, Senza fine, mi dà una chiave di lettura di tutta la serata, che si trasforma in un gioco semantico, fatto di ambivalenze e polisemie. Questo il fil rouge di quelle parole lette al mondo, come una mano che si stende a toccare –per dargli voce- ciò che è muto.

Basta mettere insieme i titoli e temi: “Senza fine”, “Non siamo più noi stessi”, “Il vero Jonas Beach”, “Lost in presentation”,ovvero la discesa agli inferi di un “giovane scrittore esordiente”. Hanno qualcosa in comune, al di là delle vicende. Poiché il mistero è una chiusura, proverò prima ad aprire ciò che è muto, e solo alla fine svelerò il mistero: perché solo ciò che si rivela può essere, alla fine, svelato. Il mistero è quello dell’identità: chi incontriamo quando diciamo “io”? Di chi o di cosa abbiamo bisogno perché il nostro io si riveli? Le parole di Rimbaud mi sono parse, da subito, le più adatte a dare il colore a questa ricerca: io è un altro, afferma, con forza e inequivocabilità lessicale. Questo rivelano i racconti, finiti quanto alla composizione e alla storia, ma irrisolti e misteriosi quanto al loro senso. Tutti i protagonisti o devono perdersi in “altro” per indovinare e scoprire il loro “io” o, tragicamente, devono assistere al naufragio di quel che credevano fosse il loro io, svelandosi altro.

Laszlo Borman, scrittore che teme di aver perduto la sua vena creativa, la ritrova assumendo e accumulando in sé comportamenti e destini degli “scomparsi”, di coloro che, cioè, perdono le valigie; il contenuto di quelle valigie si condensa in una persona che parla e agisce da interlocutore e determina quindi le scelte del protagonista; la fine, però, è senza fine: rimaniamo a bocca aperta davanti al baratro che si spalanca insieme all’ultima valigia, acquistata a rischio della sopravvivenza.

I personaggi nati dalla penna di Thomas, una bambina, un giovane professore e il suo idolo letterario, vivono –in modi differenti- l’alienazione: la bambina sperimenta l’abbandono di fronte alla porta chiusa, dietro alla quale si è barricata una madre che non le parla (e solo nella letteratura quell’istante diventa mai più), presa da una innominabile e vaga crisi coniugale; il giovane professore vive uno straniante sdoppiamento che duplica il suo idolo Jonas Beach (scrittore di cui conosce tutta l’opera, per ascoltare il quale si è iscritto a un seminario di cui non si sente all’altezza) in una specie di suo alter ego: seduto ad un bar, pronto alla conversazione e disponibile allo scambio di esperienze, consigli e calore umano, siede un uomo in cui il giovane ravvisa il suo idolo letterario, che si rivela, però, completamente diverso (definitivamente “altro”, quindi) dallo Jonas Beach che con arroganza e superficialità pontifica al seminario e si pavoneggia alle feste. La discrasia tra queste due figure –che presto appare chiara al giovane professore-  lo libera dall’illusione ottica che gli aveva fatto identificare il valore letterario nell’autore, e gli regala un lampo di chiarezza: nella finzione dei ruoli – entrambi, il giovane e l’anziano, via via più consapevoli di star giocando ad un fictum, ad un gioco delle parti le cui regole sono tacitamente accolte- si cela la verità: la verità delle parole e la verità dell’io che non è l’io biografico, ma quell’io che si dissolve nella letteratura.

Tragicamente perde il proprio “io”, invece, Samuel Protti, giovane scrittore esordiente: il momento in cui crede di aver conquistato un’identità chiara e definita, che lo renderà visibile e riconoscibile al mondo e lo riscatterà dalle infinite delusioni, è invece il momento iniziale della dissoluzione del suo “io”; il disagio che egli prova nel non trovare la corrispondenza tra le sue aspettative e la realtà si manifesta attraverso una sorta di climax discendente: insofferenza, sdoppiamento nel proprio personaggio (Mizio, uomo dal corpo ipertrofico e dalla testa piccola), rinuncia a sé. Il mistero dell’io si chiude, definitivamente, su sé stesso, e lascia in bocca un sapore amaro, il sapore del Tavernello in cui Samuel decide di annegare.

E il mistero si svela. Sotto un cielo che comincia a rombare di tuoni prima lontani e poi vicini, che si chiude e poi si apre, si rivela uno spicchio di luna brillante che illumina l’oscurità della notte e apre il mistero: è la scrittura, quell’”altro” che diventa “io” nel momento in cui prende vita; è l’”altro” che rivela chi sono “io” in un gioco di specchi, ed è solo l’”altro” che permette a “io” di svelarsi e, quindi, di esistere. Come Laszlo Borman, come Jones Beach, come Samuel Protti, come la bambina che, nel silenzio di una porta chiusa dalla madre, svela il cuore del proprio dolore. Ciò che il mistero chiude, la letteratura svela, nelle parole (non importa quanto “definitive”, quanto “elevate”: le parole sono di per sé magiche, come disse un personaggio di un libro da me tanto amato) lette in una sera ventosa d’estate.

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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