Letterature Festival. Destini. Il segreto della vita felice.

558985860539746c9f3d601-1024x576Vitam quae faciant beatiorem,
[…] haec sunt:
[…] quod sis, esse velis nihilque malis,
summum nec metuas diem nec optes.

(Marziale, X, 47)

PROLOGO

Arrivare alla serata inaugurale della XIV edizione del Festival delle Letterature è un’esperienza, direi una specie di fenomenologia della conoscenza.

Sono arrivata da sola (è importante, andarci da soli: tutte le parole si concentrano dentro all’ascoltatore che, così, entra in un dialogo personale con l’autore che legge: l’universo, in quel momento, sono loro due), passando per Foro Romano, alle spalle de Campidoglio, e con tutta la gloria dell’antica Roma che si dispiegava davanti ai miei occhi. Perché racconto questo? Perché già nell’avvicinarmi ascoltavo: le storie che raccontano quei luoghi, i ricordi dei monumenti rosi dal tempo, le passioni trasportate dall’aria. E così, io e il mondo, ci predisponevamo a scoprirne altri, di mondi.

PARTE PRIMA: IL TEMA DEL FESTIVAL

Ai poeti resta da fare la poesia onesta.”: parafrasando Saba, cosa resta da fare alla letteratura? In cosa consiste l’onestà di cui Saba parla? Esiste? A queste domande proveranno a rispondere gli scrittori –no: i poeti, se dobbiamo esser giusti;  tutti possono essere scrittori, pure i miei sgangherati alunni che scrivono cose improbabili scopiazzandole qua e là: i poeti creano con la scrittura, e questo fa la differenza- ospiti del Festival. Gli ospiti di stasera sono tre: Mia Couto, Marco Missiroli, Robert McLiam Wilson. Non ho letto niente di loro; meglio: mi arriveranno senza filtri interpretativi già predisposti.

PARTE SECONDA: fuoco e sangue

Lucrezia Lante Della Rovere, accompagnata da musiche create ad hoc dal Maestro F.Piersanti (il cui quartetto accompagnerà tutte le serate capitoline), ha letto due brani, rispettivamente di Mia Couto (da La confessione della leonessa) e di Robert McLiam Wilson (da Eureka Street); i tre ospiti hanno regalato al pubblico la lettura di scritti inediti: Quelli che non muoiono (Couto), Portare il fuoco (Missiroli), Capitan Inquieto (McLiam Wilson). Missiroli e Wilson ci hanno offerto due brevi racconti, intessuti a loro volta di racconti letti: Faulkner e Mc Carthy per Missiroli, mescolati alla figura di un nonno che a un passo dalla morte si lancia dal megascivolo dell’Acquafan di Riccione; il geniale Max Aub di Delitti esemplari per Wilson, che, trasformandosi da autore in attore e personaggio, racconta la sua esperienza di killer consapevole e selettivo, che coltiva l’ira e la trasforma in morte per gli “uomini scimmia” che si ostinano a chiedere “perché”: “chiedere perché vuol dire mentimi, mentimi a lungo e fino in fondo”; chi chiede “perché” non ha capito niente e non merita di vivere: in questo rituale paradossale il killer –provetto assistente sociale nella vita “di qua dall’ira”- compie il proprio destino e si manifesta.

PARTE TERZA:  in cerca della casa dove nessuno muore

Chi mi ha incantata, ripetendo il miracolo dell’estasi (nel senso letterale: uscir fuori di me e diventare “quelle” parole in “quel” momento), è stato Mia Couto, che in una lingua melodiosa come solo il portoghese sa essere, mi ha preso per mano e mi ha portato in quella casa lì, dove nessuno muore. Mi ci ha portato accompagnato dai versi di Pessoa –che quella casa la abita e ci passeggia-, attraverso un percorso, un kyklos, direbbero i greci, che è partito da lui/me e a me/lui è tornato.

Non basta aprire la finestra
per vedere la campagna e il fiume.

Non basta non essere ciechi
per vedere gli alberi e i fiori.

Bisogna anche non aver nessuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: 
vi sono solo idee.

Vi è soltanto ognuno di noi, 
simile ad una spelonca.

C’è solo una finestra chiusa 
e tutto il mondo fuori; 
e un sogno di ciò che potrebbe esser visto

se la finestra si aprisse, 
che mai è quello che si vede 
quando la finestra si apre.

Fernando Pessoa

Questo, il testo integrale del Poeta. Il racconto di Couto comincia con un ricordo personale: lo straniante effetto provocato in lui dalla reazione paterna alla notizia della morte del nonno, che lui, bambino, non aveva mai conosciuto essendo egli sempre rimasto in Portogallo. Il padre piangeva,e lui gli chiese se davvero era morto, il nonno. “Di là, è morto: di qua, no”. Poiché questo nonno era stato conosciuto attraverso racconti, nei racconti continuava a vivere. E viveva nella casa dell’infanzia, in cui questi racconti avevano preso vita, agganciati ad essa (“quella” casa, che noi continuiamo a chiamare “casa mia” anche decenni dopo che ce ne siamo andati), ma poi capaci di crescere indipendenti da essa. In questo modo noi non moriamo: diventiamo storie. E scopriamo il segreto della letteratura: siamo noi, noi in cerca di quella casa dove nessuno muore. Nell’assenza di “me stesso” (eccolo, Pessoa! Eccola, la mia “estasi”!), posso mettermi alla ricerca di quella casa, giocando ad essere “altro”, e lasciandomi possedere dalla fantasia: questo “viaggio tra statua e pietra” e tra pietra e statua (parafrasando Saramago) che è il tempo, è il tempo del dispiegamento della fantasia, è il tempo che questa dichiarazione di fede permette, a chi voglia diventare (e raccontare, e scrivere) storie, di essere vissuto.

Una fede così ampia, profonda e per nulla affatto dogmatica non vuole catene: non le catene della rassegnazione alla realtà, non quelle del dogma dell’identità unica, nemmeno quelle del pensiero senza specchio e tantomeno quelle della paura.  La letteratura è conoscenza, è l’esaltazione di un eterno primo incontro, e possiamo diventare tutto ciò solo se smetteremo di rassegnarci al “è così, che ci vuoi fare”, se accoglieremo la nostra identità come transitoria, plurale e precaria imparando che vivere è “essere altri”, se accetteremo di vedere quel che non ci aspettiamo aprendo quella finestra, lasciandovi passare le nostre paure (son sempre quelle, da quando il primo scimmione alzò gli occhi verso il cielo, come più o meno disse Vico), se sapremo comprendere che meno capiamo e più giudichiamo (e la fantasia non ama quel giudizio: esso la uccide), e che più giudichiamo più coltiviamo la paura, la paura di “loro” senza capire che “loro” siamo anche “noi”. Se non apriamo le braccia e il cuore a queste semplici verità non sentiremo le voci di chi non è (più) con noi e non godremo della salvezza di un mondo in uno stato di infanzia, dove giocare ed essere posseduti dalla fantasia è un modo autentico e meraviglioso di vivere.

E dove potremmo, chissà, addormentarci come gli animali, “senza pena né colpa”.

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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