Libri Come. Chiudi gli occhi e ascolta

waltersitiÈ sottile e impalpabile la linea che separa l’essere nel mondo dal non esservi, ed ancora più evanescente sembra quella condizione di essere nel mondo come non essendoci.

Con questa magnifica quasi-citazione da San Paolo, Walter Siti – nella sua lezione a Libri Come – ci presenta una figura bella, fatta d’aria e impregnata di terra: la poesia. Che, si badi bene, non è affatto una creatura extraterrena che permette alle anime belle di fuggire dal mondo e non sentirne la puzza, anzi: la poesia è fatta di tutta la realtà che chiamiamo esperienza umana, a qualunque latitudine e in ogni tempo.  Se non fosse impastata di vita, non esisterebbe.

Ma allora cos’è che dà alla poesia quella nota speciale che la rende capace di farci sentire “in vacanza”? Non tanto triti e biechi stereotipi – a cui, ahimé, sembra spesso venir associata -, quanto piuttosto ciò che ne costituisce l’essenza, la radice e la foglia, ossia il linguaggio. Le parole prendono una vita propria, di cui spesso gli autori non sono nemmeno a conoscenza perché il poeta non è del tutto padrone di quello che dice.

Mi viene in mente un’osservazione di Foucault (in Le parole e le cose): «Se il linguaggio non somiglia più immediatamente alle cose che nomina, non è per questo separato dal mondo; continua, sotto forma diversa, ad essere il luogo delle rivelazioni e ad appartenere allo spazio in cui la verità, a un tempo, si manifesta e si enuncia».  Sono le parole, nella loro ambiguità, a “fare” il discorso poetico, a costruirne paesaggi e implicazioni, e non l’autore.  Nel suo viaggio interpretativo attorno e dentro la poesia del mondo, Siti incontra più volte questa potenza creativa della lingua al di là delle intenzioni dell’autore, e individua questa come la caratteristica, a suo dire, più qualificante della poesia. Che, parafrasando Calvino, non finisce mai di dire quel che ha da dire.

Analizzando alcuni testi significativi –La sera del dì di festa di Leopardi, High windows di Larkin, passando a Saffo, Orazio attraverso gli Haiku e i pittori zen del ‘600-, Siti ci dipinge –in un solo colpo di pennello, come un vero maestro zen,  un poeta in sottofondo,  evanescente, che “si lascia parlare” da parole che vanno oltre quanto, al momento della composizione, aveva in mente: così l’epitalamio di Saffo diventa l’inno e la fenomenologia dell’amore. I poeti, tutto questo, lo sanno: e sanno che c’è qualcosa che, come dice Dante, “detta”, da sopra (un dio, un assoluto) o da sotto (l’inconscio), spostando su di un’asse verticale il linguaggio. La lingua della poesia, quindi, non è comunicazione orizzontale, ma una vertigine verticale, capace di toccare l’eccelso o di far sprofondare negli abissi della follia chi perde l’orientamento e, con esso, il riscatto (come accadde ad un gigante come Hoelderlin).

Ma oggi, che ne è di tutta questa vertigine? Perché la lirica si trova in un cono d’ombra che, a dispetto del poeticume diffuso, la sta soffocando a morte? Il parere di Siti mi ha commossa: bisogna cercare il silenzio, e mettersene in ascolto; che si tratti di autori o di lettori, bisogna fare vuoto dentro di noi e permettere alle silenziose ed aeree parole di prender vita e rimpolparsi dentro di noi, nutrendosi di noi; dobbiamo –se vogliamo sentire la poesia-, arretrare noi e lasciar posto alle parole, ché nel diluvio parolaio che ha assegnato alla tecnologia e alla comunicazione compulsiva un ruolo metafisico, il silenzio, condizione necessaria alla continua e creativa epifania delle parole, non può vivere.

E la risposta, per venir fuori da questa notte, è una: la didattica. La didattica di tutta la poesia del mondo. A questa conclusione giunge Walter Siti, nella sua intensa lezione. Ed io, che la poesia cerco di insegnarla a scuola, a ragazze e ragazzi tra i 14 e i 19 anni, ho sentito il mio cuore colmarsi di gioia e di gratitudine.

Nella breve chiacchierata che ho avuto l’onore e il piacere di fare con lui, abbiamo parlato di come potrebbe essere, nella scuola, una didattica della poesia. Mi ha raccontato di come, negli anni in cui era docente universitario, avesse provato a spiazzare gli studenti, leggendo loro qualcosa di inaspettato o proponendo chiavi di lettura sorprendenti. Nello spazio generato da questa sospensione, si creava il terreno per quel silenzio che permetteva alla poesia di fare il proprio ingresso.

A questo proposito, c’è un magnifico libro di Roberto Calasso, La letteratura e gli dei, il cui ultimo capitolo, che dà il titolo al libro, affronta proprio la questione di dove sia finita oggi la letteratura, di dove siano finiti quegli dei (il “sopra” e il “sotto” che “dettano”) che paiono eclissati dal mondo. Nelle parole, dice Calasso: nelle parole della letteratura e della poesia riposano gli dei, e si rivelano a chi li chiami con amore.

Come insegnante io cerco, disperatamente, il silenzio di cui parla Siti. Ai miei spaesati alunni – che però sentono, anche se confusamente, che qualcosa di urgente e di bello deve esser loro detto, che li riguarda da vicinissimo – presento la lettura di un testo poetico come una vera e propria epifania. “chiudete gli occhi”, dico loro, “e state zitti”. Superate l’imbarazzo che il silenzio genera, non vergognatevi di essere indifesi, scopriamo insieme quel che le parole stanno per rivelarci. La magia, spesso, accade: ed io, insieme a loro, scopro in un verso – letto chissà quante volte già – parole che prendono una vita, ogni volta, nuova.
Questa esperienza io la chiamo pienezza, e felicità.

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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