L’altra riva del Bosforo. Theresa Révay ed il fascino di una terra simbolo.

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L’altra riva del Bosforo, Cover

Di grande intensità e drammaticità, il romanzo L’altra riva del Bosforo di Theresa Révay (Edizioni Beat) avvince il lettore e lo tiene a sé con una presa piena di fascino e di tensione.

Il Bosforo è un simbolo, una chimera: esiste come orizzonte storico degli eventi –gli anni 1918/23, dall’occupazione dell’ex impero ottomano alla neorepubblica di Mustafa Kemal-, ma esiste anche come miraggio per i singoli il cui destino, travolto dagli eventi e dai terremoti che essi provocano nella vita pubblica e privata, andrà a compiersi, tradendone fatalmente le aspettative.

In un luogo –nella città che del Bosforo è simbolo, Stamboul, e nell’intero territorio, costa e Anatolia- che è terra ma è anche mare, si concentrano tensioni epocali: la fine dell’agonizzante impero Ottomano si consuma sotto la spinta di forze esterne –gli inglesi, i francesi, la massa di profughi russi- e interne –la guerra di liberazione dei kemalisti a cacciare gli invasori e a costruire una nuova società- che mettono in discussione le radici spirituali, sociali e culturali su cui l’impero si era fondato per secoli. Il vento dell’Occidente che spira dalla parte europea del Bosforo penetra come sabbia sottile nelle case, nelle famiglie, nelle istituzioni, e le corrode fino a ridurle in brandelli; sotto l’impulso di forze centrifughe e centripete il cambiamento sarà inevitabilmente doloroso e violento.  La guerra e i suoi strascichi di vendette e odii etnici e sociali, la guerra civile, l’avanzata di nuove categorie (le donne, la società laica) lasceranno del passato solo la parvenza e non scioglieranno l’enigma che la chimera del Bosforo continuerà, imperturbabile e imperterrita, a rivolgere a chi la incontri, allontanando inesorabilmente l’”altra” riva.

Tutti i personaggi del romanzo tendono ad essa, o vi guardano con timore. Alter in latino significa “secondo”: si tratta quindi di scegliere, per ciascuno, l’alternativa, senza sapere se la riva scelta sarà quella giusta, in questo luogo esso stesso crinale fra destini opposti, ponte fra mondi diversi.

E tutti i personaggi si scontrano con la Storia, quel gigante il cui passo tritura i destini e le vite senza modificare –nonostante gli sforzi- la sua andatura. Più forte ancora della Storia -la successione tragica degli eventi legati alla guerra e le conseguenze di decisioni prese altrove- però è il Fato, la Τύχη delle antiche civiltà sorte sul lato orientale del Mediterraneo: le scelte individuali quindi sono solo apparentemente libere, perché esse si devono modellare sul percorso che il Fato, di volta in volta –e in modo del tutto incomprensibile- traccia per loro, procedendo come un machete che taglia ogni virgulto che trovi davanti a sé.

In questo spazio così angusto lasciato alla libertà, le vite possono però –e qui sta la magia dell’autrice- scovare strade imprevedibili e ricavarsi spazi di felicità e dispiegamento di sé e dei propri sogni:  si dà, anche fra strettissime maglie,  realizzare il proprio destino al di là delle ferite inferte e degli sbarramenti.

Cuore pulsante di questa ribellione al Fato e alla Storia è Leyla, la donna che, sola fra tutti, riesce a fare spazio dentro di sé al ghigno del destino senza lasciarsene risucchiare: ogni colpo che le viene inferto la schianta ma non la uccide, e dallo schianto nasce nuovo spazio nel suo cuore, per deporvi i ricordi, per alimentare la passione che la guida, unica bussola nella tempesta che le si scatena intorno; l’amore per un uomo che non è il marito, la morte della piccola figlia e dell’adorato fratello, la difficile affermazione di sé come donna in una società maschile che assegna alle donne ruoli e poteri all’interno di precisi confini (la casa), sono tutte prove –terribili- che la allontanano dal suo “io” e la portano a scoprire e coltivare dentro di sé un’autentica grandezza d’animo, alimentata da un amore sconfinato per la vita. Leyla è la vita stessa che si ribella all’imprevedibile assecondandolo, ma marcandone il ritmo e ponendosi a guida della danza. Intorno a lei ruotano, più o meno direttamente, gli altri personaggi: Selim, il marito che –come Edipo- vedrà la verità delle cose soltanto dopo che avrà perso la vista e si libererà della componente possessiva dell’amore, liberando Leyla dagli obblighi a cui lei mai sarebbe venuta meno; la straordinaria suocera Gülbahar Hanim, una donna che sceglie di rimanere al di qua del cambiamento, preservando così la propria indipendenza intellettuale e ridendo in faccia al destino, ma capace di riconoscere nella giovane nuora una sua pari; Louis e Rose Gardelle, la cui tragica vicenda si intreccia con quella della famiglia di Leyla: condannati ad essere fuori luogo –sia a Stamboul, dove “invadono” gli spazi privati della famiglia di Leyla e Selim, sia reciprocamente-, cercano una fuga e una salvezza impossibile; Rose non sopravviverà all’incendio di Smirne; Louis, accecato da un’egoistica passione che lo rende incapace di vedere l’altro, allontana da sé le persone che ama e causa in loro, ben al di là delle proprie intenzioni, ulteriore infelicità: così Nina, in fuga dalla Russia rivoluzionaria, profanata dalla morbosa curiosità di Louis, non reggerà allo schianto e sceglierà il mare, una volta per sempre; così Hans Kästner, l’archeologo berlinese innamorato degli Hittiti e della causa kemalista, amore e speranza di Leyla, si prenderà in pieno petto il colpo che spettava invece a Louis.

Leyla ha lasciato che la propria vita venisse invasa da occupanti, da seconde mogli, da dolori e amori devastanti; ha permesso alla sua strutturata identità di esser mandata in pezzi dalla luce che filtrava imperiosa dalle crepe del suo cuore, e ne è uscita con un’integrità assoluta, perché non ha rifiutato il dolore né vi si è rassegnata; Louis, che al dolore ha cercato sempre la via di fuga che gli permettesse l’oblio –sia l’oppio o sia il corpo di una donna-, ne rimane schiacciato, e questo è peggio della morte.

Restano, nella mente e nei sensi del lettore, il rumore delle acque del Bosforo, la sonorità della lingua, i profumi delle città e delle storie che si sono stratificate in esse, i colori smaglianti e la sensazione che il Corno d’oro sia lì a ricordarci che alla fine delle turbinose, dolenti e appassionate vite di cui è spettatore, il vero vincitore è lui: che resta lì, a guardare, nel tripudio dei colori più strazianti.

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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