Libri Come. Tradire la (lingua) Madre. Dialogo fra Jhumpa Lahiri e Francesca Marciano

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JHUMPA LAHIRI E FRANCESCA MARCIANO

L’Italia è un paese in cui le lingue straniere non sono molto amate. Leggere un libro o vedere un film in lingua originale, nell’immaginario collettivo è un’impresa adatta a un secchione, a un intellettuale o tutt’al più a un masochista. Tutto viene tradotto, doppiato, reso familiare, comodo e maneggiabile, con un’innata pigrizia che non ci fa nemmeno più chiedere se in questo passaggio si perda qualcosa.

Domenica pomeriggio, a Libri Come, sedute su divanetti rossi, due donne hanno dialogato come ormai sono solite fare ogni giorno davanti a un caffè nel salotto di casa. Perché da qualche tempo sono diventate vicine di casa, queste due scrittrici la cui bellezza radiosa è fusione di anima e corpo.

Jhumpa Lahiri, statunitense di origine bengalese, ha deciso di stabilirsi a Roma, vicina di casa di Francesca Marciano, italiana che ha vissuto a lungo negli States. Non hanno solo la luminosità in comune, le due, ma una vicinanza di esperienze legate alla scelta della lingua nella loro attività di scrittura.

Le riflessioni che scaturiscono dal confronto sono intense e originali.

Jhumpa racconta dell’iniziale incontro con l’italiano, sua terza lingua dopo il bengalese e l’inglese, come di un rapimento passionale, un’attrazione che la porta ad avvicinarsi quotidianamente al nuovo linguaggio-oggetto del desiderio in un processo fatto di nuove parole trattate come tesori e custodite in un taccuino, in attesa di essere utilizzate. Parole che magari nessuno usa più, che hanno bisogno di un ‘estraneo’ per essere riscoperte e rivitalizzate. La lingua italiana diventa per lei un amante-avversario, la controparte di una lotta amorosa in cui sente di amare non riamata, più si avvicina e si appropria dell’oggetto del desiderio e più sente crescere la distanza.

La sua scelta a un certo punto è diventata chiara: scrivere in italiano, usare questi elementi nuovi per fare quello che ha sempre fatto, raccontare storie.

Ci dice che scrivere in una lingua nuova è come partire in viaggio da soli con la valigia in mano, lasciando a casa tutto il resto. Il linguaggio che ha deciso di usare per raccontare non è legato al suo passato, è libero dai retaggi esistenziali e culturali delle radici famigliari, e questo lo rende ancor più simile a un amante, a una trasgressione segreta che non viene condivisa con le persone della sua vita, con in più la vertigine di non sentirsene mai davvero padrona.

La Marciano le viene incontro nell’esprimere questo aspetto fondamentale. Anche lei ha scelto una lingua diversa, nel suo caso l’inglese, ed è diventata una “scrittrice americana”, come si diverte a notare. Ebbene, in questo cercare un mondo nuovo attraverso cui esprimersi, c’è un elemento non solo di trasgressione, ma di rottura esistenziale, quasi psicanalitico: tradire la lingua madre non può essere un atto ordinario, è necessariamente qualcosa di spudorato, una rottura con una parte di sé.

E aggiunge, in accordo con la sua interlocutrice, è fondamentale scrivere nella lingua in cui si immagina la storia che si vuole raccontare. Il verbo “tradurre” ha la stessa radice di “tradire”, e tradurre in un linguaggio differente da quello immaginato significherebbe snaturarne l’essenza, non riuscire proprio a raccontare.

L’anello mancante in questa riflessione resta proprio quello della traduzione della storia già scritta. Questo è un passaggio ulteriore, in cui si evidenzia con più forza il discorso fatto fin qui. Jhumpa racconta come sia stato difficile tentare di trasporre in lingua inglese, che è la sua lingua madre, i racconti da lei scritti in italiano. Lo stile non può prescindere dalla lingua scelta, proprio perché fa parte di questa nuova parte di sé che si va a scoprire. Sarà necessariamente uno stile più scarno, più essenziale, privo appunto di retaggi, per cui tornare dopo alla lingua madre può rivelarsi un’operazione deludente se non inaccettabile, qualcosa in cui non ci si riconosce. Anche per questo la traduzione deve essere onesta, non ha senso rivisitare quel che si è scritto sfruttando la maggiore padronanza della lingua madre. Su questo punto Francesca è più giocosa, accetta di tradurre da sé i propri manoscritti o di revisionare le traduzioni fatte da altri anche in maniera consistente.

È stato un incontro appassionante, forse fin troppo breve. Peccato non ci sia stato spazio per le domande, un paio ne avrei fatte volentieri.

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Primo vagito: giugno 1972, nella mia amata Roma dove vivo e vivrò. Sono ricercatrice in una nota fabbrica di numeri e informazione, lavoro che amo e che mi dà da vivere. A latere, il secondo lavoro che mi ripaga in divertimento e salute è la scrittura. Ho pubblicato diversi racconti e poesie e i romanzi “Storie dentro storie” (2012, L’Erudita di Giulio Perrone Ed. e 2014, in edizione digitale) e “Preferisco il rumore del mare” (con Andrea Masotti, 2014, Narcissus Ed.). Il tempo libero lo dedico a mille curiosità e ai miei bimbi.

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