L’esordio sul lungo di Gabriele Mainetti è stato accolto favorevolmente. Film con non poche ambizioni che, seppure si perda in certi inevitabili ingolfamenti, come talune allusioni da didascalia alla politica, labirinti dialettici in cui pare si debba sistematicamente transitare per ottenere la certificazione di film serio, ha tutti i crismi per divenire un cult e, se possibile, smuovere le acque attorno al cinema di genere: questo sconosciuto, alle nostre latitudini.
Fattosi notare con Basette, gustoso omaggio a Lupin 3ò e col successivo cortometraggio, Il Tigre, dove il mondo del wrestling fa da sfondo al disagio infantile, Mainetti conferma di muoversi con disinvoltura nell’immaginario di genere. Forse troppo. Laddove il ricorso alla citazione spazia su tutti i fronti senza soluzione di continuità. A partire dal titolo, fino ad una certa grevità formale che lo attraversa, coesistono nella pellicola, Trinità e altri b movie italiani; l’universo robotico giapponese, centro di gravità culturale della medesima generazione del regista. E parecchio cinema action e thriller, luoghi cinematografici individuabili tanto nelle situazioni quanto e soprattutto nei personaggi. Il protagonista è Enzo Ceccotti, nome proletario per un personaggio a metà strada tra il Travis Bickle di Taxi Driver e Leon. Riconducibili al cineasta newyorkese sono i dvd pornografici visti come normali film, lo squallore dell’abitazione, la vita ai margini, la solitudine, tutte caratteristiche che hanno il sapore amaro delle esistenze da strada di Scorsese. Ma Ceccotti interpretato da un Claudio Santamaria di nuovo in forma, è anche taciturno, criminale e a rota di budini, in luogo del latte tracannato dall’eroe di Besson.
E pure la dinamica che s’innesca fa pensare al suo capolavoro. Ma pure a quello di Scorsese.
Poi c’ è l’epica dei supereroi. Mainetti la concilia con il manga e col genere italiano. Nonostante le distanze evidenti, c’è una certa logica. Del resto, molti celebri manga tra cui il citato Lupin 3ò, hanno attinto, tra le altre fonti anche da Sergio Leone. I supereroi nipponici, come Hurricane Polymar, Moon Mask Rider e Fantaman nascono nel solco di quelli statunitensi, e di contro i vari robot, dai Transformers a Pacific Rim, da quelli di Matrix a Avatar, non avrebbero mai solcato cieli e mari se non fossero stare narrate le mirabil prove di Goldrake, Mazinga e… Jeeg.
Nel film dal titolo-icona, il focus è sulla casualità, Superman è eroe per natura, Batman lo diventa per vendetta, Capitan America, per ideale. Enzo Ceccotti, per non rimanere un disperato a vita. All’inizio vede i suoi super poteri come un vantaggio per arricchirsi in fretta. È fortissimo, una specie di Hulk; è veloce. Non quanto Flash ma più di un olimpionico dei centometri piani. Ha un fattore di rigenerazione. Non efficace quanto quello di Wolverine, a giudicare dal mignolo del piede ma abbastanza per salvarlo da due impatti al suolo. Gli manca solo l’impulso, perchè l’ideale è già germinalmente in lui. Con questo ruolo, Santamaria, che canta anche la leggendaria sigla del cartone animato, aggiorna la sua personale storia cinematografica nel genere. Dopo essere stato un criminale da Romanzo, lo psicotico omicida nell’improbabile Cartaio di Argento, il killer inarrestabile e inespressivo di Casinò Royale, è ora un superuomo dal destino incerto. Zingaro, l’antagonista, è da antologia. Instabile, mitomane, spietato. Un cattivo da periferia con manie di grandezza. Dopo la sessione di trucco, post mortem e resurrezione, sembra Cheyenne, quasi un omaggio di Luca Marinelli a Sorrentino che lo diresse ne La Grande Bellezza.
Marinelli è attualmente forse il miglior interprete del nostro cinema e dopo Non Essere Cattivo, sembra avviarsi verso una specializzazione in film di culto. Niente male le sequenze dei combattimenti. Inaspettatamente spettacolari. Ecco, se dal film di serie b italiano va recuperata qualcosa è certamente la centralità dello stuntman. Lo Zingaro che carica lo smartphone per riprendersi mentre trita un’intera banda di spacciatori è meritevole di standing ovation. Notevole per perfidia. Cinema che rincorre se stesso, ma anche graffiante presa in giro nei confronti dell’ossessione dell’esserci per forza. Lo Zingaro guarda alla mitologia del cattivo: ha il volto per metà sfigurato di Due Facce e si cala nel ruolo di profeta del caos come il Joker di Nolan. La sequenza finale allo Stadio Olimpico è un cazzotto in pieno volto a quanti, e ce ne sono, sostengono che Roma non abbia scenari adatti al cinema d’azione (…si dice anche questo…).
Meno convincenti gli effetti speciali, specie il senso della velocità realizzato col fermo immagine. Tirando al risparmio, meglio sarebbe stato il rallenty anni settanta de L’Uomo da sei milioni di dollari, ma non sottilizziamo. Nella opera prima di Mainetti c’è tutto o quasi, per piacere. Si ride ma senza precipitare nella farsa, che in Italia è l’unico codice assieme al grottesco e al surreale, concesso alla fantasia. Codici il più delle volte disattesi, valga come esempio, Musica per vecchi animali. Soprattutto c’è Alessia, un personaggio che conquista. Bella ma non a tutti i costi. Leggera e sensuale, il regista non nega al pubblico una sbirciatina al seno, pieno e vitale. Ilenia Pastorelli col suo personaggio sviluppa certe fragilità, topos della Marvel. Alessia mastica fantasia e realtà in torrenziali monologhi apparentemente senza senso. Si rifugia in un mondo che la protegga per sottrarsi al brutto. Che comprende un padre che abusa di lei da sempre. Spesso in pericolo, assistiamo all’eroe Enzo che salva la donzella. I momenti tra i due sono poetici. Di una poetica dolceamara da figli di una città minore. Ma non si pensi a Pasolini, sistematicamente tirato in ballo come si mette il naso fuori dal Centro Storico, ma piuttosto a De Andrè. Ai fiori nati dal letame, ai suoi vicoli diroccati, fisici e interiori. A emozioni che seppure solo accennate, scavano e lasciano un solco. Alessia è la virtude, riportando il sentimento e non il sentimentalismo dove deve stare. Magari su una ruota panormica. Ma il Luna Park è chiuso. In certi casi avere super poteri aiuta. Lei sa come si ama, sa cos’è il bene e tenta di spiegarlo a lui che arranca. Inciampa ma poi si rialza. Lui che non la segue ma che scorge in lei la sua purezza. Lo chiamavano Jeeg robot è un giro di giostra in schizofrenica accellerazione tra archetipi e nefandezze. Ma il senso del b movie si perde improvvisamente quando lei per l’ultima volta gli chiede di “salvarli tutti”. Da questo punto in poi, si assiste a un altro film, concentrato sul topos dell’eroe e della sua evoluzione.
A chi scrive questo bel fumettone è piaciuto. E molto, anche. Perchè è pieno di trovate. perchè tenta una strada diversa. È piaciuto perchè finalmente i personaggi, sono. Come quando Enzo, presentandosi a uno a cui sta togliendo la moto, attenzione, per una buona causa, dice di chiamarsi Hiroshi Shiba! Accidenti! Un eroe, finalmente! Una rarità per il nostro cinema istituzionalmente antagonista. Il film afferma con coraggio che non si nasce eroi. Il destino può darci una mano ma il resto, a quanto pare, ce lo dobbiamo mettere noi.
Pier Luigi Manieri, curatore di eventi, scrittore, saggista e cultore della materia cinematografica. Ha dato alle stampe l'antologia di racconti spy, horror, sci fi, urban fantasy e a tematica supereroistica "Roma Special effects -di vampiri mutanti supereroi e altre storie" (PS ed.) e la monografia "La Regia di Frontiera di John Carpenter "( Elara). D'imminente pubblicazione il saggio "Le Guerre Stellari - Ovvero, la space opera cine televisiva da Lucas ad oggi" contenuta nel volume "Effetti Collaterali – la fantascienza tra letteratura, cinema e TV" (Elara). Ha all'attivo centinaia di articoli su diverse testate di settore. Esperto d'immaginario e sottoculture di genere, ha curato il volume, "Il Tuo capitolo finale" dedicato a Sherlock Holmes. È autore e regista dei reading video musicali “Iconico & Fantastico” e "Il cinema del telfoni bianchi". Ha ideato e curato eventi come Urania: stregati dalla Luna, Il cinema italiano al tempo della Dolce Vita, Effetti Speciali, MassArt, Radar-esploratori dell’immaginario.
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