Andrés Anza. La ceramica. Dalla forma all’informe. Contributo di Donatella Mezzotero

immagine per Andrés Anza, Goccia blu, 2022, ceramica, 35x37x35 cm
Andrés Anza, Goccia blu, 2022, ceramica, 35x37x35 cm

“(…) vi è un ignoto da fissare, evocare
e parzialmente dissolvere
dove la dicotomia tra cosa e creatura
si fa indistinta, forata, alterata.”
(Massimo Canevacci, Una stupita fatticità, 2007)

Nel 1962 Umberto Eco formulava l’idea di un’opera aperta, “un’arte che dia allo spettatore la persuasione di un universo in cui egli non è succube ma responsabile, perché nessun ordine acquisito può garantirgli la soluzione”. (Opera aperta)

In quest’ottica l’attenzione si sposta dall’oggetto all’evento, dall’opera d’arte all’esperienza di fruizione che ne fanno gli spettatori. L’opera non è più ricettacolo dell’espressione univoca dell’artista, piuttosto è uno strumento estetico volto a stimolare l’espressione di chi lo guarda. Il momento visivo acquista dinamiche interattive, l’opera offre la possibilità di essere interpretata e di rinnovarsi in svariate prospettive originali, tutte ugualmente valide nella loro unicità.

Il lavoro di Andrés Anza (Monterrey, Mexico, 1991) si inserisce in questo contesto di ricerca. Le sue sculture, realizzate interamente in ceramica, hanno sembianze volutamente ambigue e allusive, cariche di elementi dai valori disgiuntivi.

Le loro forme sono astratte, le tonalità sono monocromatiche e prive di sfumature, eppure riescono a creare delle suggestioni e innescare il desiderio di interpretazione in chi le osserva.

I titoli stessi delle opere sembrano essere dei suggerimenti per individuare il presunto oggetto/soggetto ritratto: Portrait, Unknown body, Stalagmite, Split drop, Goccia blu, l’artista sembra far riferimento al corpo umano, al mondo animale, vegetale e minerale, mescolando codici differenti come astrattismo e realismo, organico e inorganico.

In realtà la forma è solo un pretesto per ottenere il coinvolgimento di chi osserva ed è chiamato a riconoscere e definire l’oggetto del suo sguardo.

Il dualismo è proprio la chiave con cui Anza riesce ad attrarre lo spettatore. Intitolata Portraits of an (un)known world, fin da subito la mostra pone di fronte a un paradosso e racchiude un qualcosa di estremamente familiare, il “ritratto”, con il concetto di “sconosciuto”.

Paul Valery nel 1938 scriveva: “Pensavo talvolta all’informe. Ci sono cose, macchie, masse, contorni, volumi che non hanno, in qualche modo, se non un’esistenza di fatto: sono soltanto percepite da noi, ma non conosciute” (Degas Danse Dessin).

La natura delle opere di Anza può per l’appunto essere rintracciata nell’informe, più che nella forma. L’aver impresso innumerevoli suggestioni nella materia fa sì che le opere non abbiano un’identità definita, bensì incerta, mobile e fluttuante, trasfigurata attraverso ognuna delle interpretazioni degli osservatori. È la percezione che questi hanno delle opere che ne definisce di volta in volta la loro essenza.

Le in-forme di Anza attingono a un inconscio collettivo innato nella mente umana, sono archetipiche, immagini che stimolano lo spettatore a reagire percependo la realtà delle opere secondo forme costanti e condivise, con radici profonde nell’immaginario di ognuno.

Figure totemiche, elementi che rimandano al maschile e al femminino, la durezza degli aculei e l’accoglienza materna di sagome morbide, sono tutti elementi che non fanno altro che mettere in moto un istintivo processo di decodifica delle immagini secondo uno schema preesistente nel pensiero.

Le sculture esposte abitano lo spazio della galleria come fossero un ecosistema surreale e ineffabile, appunto (un)known. I visitatori possono riconoscervi il profilo di una montagna, un groviglio di serpenti, cactus, conchiglie, figure umane e oggetti, dando un senso alle sculture di Anza. Un senso che non è da rintracciare nell’individuazione di una data figura, quanto nell’atto partecipativo.

Per stimolare l’interesse dello spettatore l’artista crea forme che celano pieghe, angoli, anfratti e, in alcuni casi, impercettibili aperture che consentono di osservarne l’interno. Tuttavia, allo stesso tempo Anza ricopre interamente le sue sculture con degli aculei, strumenti di difesa e offesa, elementi respingenti che pongono gli osservatori alla giusta distanza e tutelano lo spazio dell’opera come fosse un vero e proprio essere vivente.

Metaforicamente l’artista ci parla degli equilibri che sottendono le dinamiche dei rapporti interpersonali e fa riferimento ai concetti di interiorità ed esteriorità così come vengono percepiti nella nostra società.

I contenuti della ricerca di Andrés Anza si basano su una profonda conoscenza della materia e una grande abilità artigiana. Il Messico, dove l’artista è nato e si è formato, ha un’antichissima tradizione di lavorazione della ceramica, cui Anza ha attinto per poter costruire il proprio originale percorso creativo.

Le sue sculture rappresentano l’unione tra questa eredità e lo sviluppo di pratiche e concetti più attuali. La terracotta di Anza ad esempio non è smaltata, ma, al contrario, ha una finitura opaca, ottenuta con una verniciatura acrilica a spray, quasi a celare la reale natura della materia di cui è composta.

Anche i colori scelti fanno riferimento a una sorta di cancellazione: spaziano dalle palette naturali di beige, avorio e marrone, alle tonalità fluorescenti, come fucsia o blu elettrico, sempre declinati in chiave completamente monocromatica. Non è un caso che Anza scelga il monocromo, che negli anni ’50 veniva utilizzato nel filone delle ricerche concettuali per azzerare la forma, ridurre al minimo l’immagine e raggiungere l’astrazione.

Andrés Anza ha fatto propri tanto le conoscenze tecniche di lavorazione della materia quanto le nozioni di alcune delle principali tendenze artistiche della seconda metà del Novecento, generando un linguaggio personale che spinge al superamento dell’ordinaria logica dualistica.

Info mostra Andrés Anza | Portraits of an (Un)Known World

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